giovedì 28 settembre 2017

Corriere 28.9.17
Diritto all’aborto e basta violenza: le manifestazioni in tutta Italia
di Giusi Fasano

Oggi è la Giornata internazionale per l’aborto libero, sicuro e gratuito. Aborto, una parola in nome della quale si sono combattute battaglie politiche, si sono vissuti drammi, si sono coniati slogan. Parola che ancora oggi porta con sé problemi irrisolti se è necessario chiamare le donne all’adunata di piazza per difendere un diritto che dovrebbe essere ormai non soltanto acquisito ma anche garantito nella sua applicazione. E invece l’ultima relazione del ministero della Salute dice che a livello nazionale l’obiezione di coscienza fra i ginecologi è del 70,7%, con punte del 90% in alcune regioni. Partono da questi dati gli appelli a scendere in piazza previsti per oggi dalla Cgil e dalla Rete Non Una di Meno. Due iniziative identiche ma separate che rimettono in circolo la protesta contro «il rischio che viene dall’alto tasso di obiezione di coscienza» (Non Una di Meno) o per «il diritto a vedere applicata una legge dello Stato di fatto svuotata dalla troppa obiezione» (Cgil). Non Una di Meno rivendica «il diritto alla salute sessuale e riproduttiva» con un comunicato che invita a scendere «in piazza per l’aborto» e che si pone la questione: «Ancora?». L’argomento è «inserito nel contesto più ampio della libertà da ogni forma di violenza di genere». Sul banco degli accusati «anche la narrazione mediatica per cui il carabiniere che stupra è una mela marcia mentre lo straniero che stupra è il classico esempio della sua categoria». Lo schema si ripete anche per gli organizzatori della Cgil che annunciano, presidi, flash mob, volantinaggio e assemblee su aborto e «libertà di scelta e di autodeterminazione delle donne». Ma la violenza domestica nel loro caso diventa tema per un giorno di protesta diverso, sabato 30 settembre. In quell’occasione, con lo slogan «Riprendiamoci la libertà», è il segretario generale della Cgil Susanna Camusso a «invitare tutte le donne a scendere nelle piazze italiane contro la violenza e la narrativa con cui stupri e omicidi diventano un processo alle vittime». A tutto questo si lega l’appello online «avete tolto il senso delle parole» per chiedere agli uomini, alla politica, ai media, alla magistratura e alla scuola «un cambio di rotta nei comportamenti, nel linguaggio, nella cultura». Segue un lungo elenco di firme: nomi noti di diversi settori, dalla cultura alla politica, dalla letteratura allo spettacolo. Tutte donne.

La Stampa 28.9.17
Bimbo di 3 anni dimenticato sullo scuolabus per 5 ore
Paura nel Savonese, l’accompagnatrice non l’aveva visto
La procura apre un’indagine per abbandono di minore
di Marco Menduni

Alì è salito sullo scuolabus, ieri mattina. Alì, però, non è mai arrivato all’asilo. Si è addormentato lì, il bambino di 3 anni, su quel Daily giallo quasi fluorescente, accoccolato su un seggiolino dei 28, divisi su sette file, alle otto e mezzo del mattino. Nessuno si è accorto di lui, al momento di scendere 40 minuti dopo. Nessuno si è accorto che non era arrivato nell’aula dei giochi, insieme ai compagni. Poi il destino ha messo, in mezzo, un’altra complicazione: per riportare i bimbi a casa l’autista utilizza un altro pulmino. Così passa ancora del tempo e solo più di quattro ore dopo scatta l’allarme, quando il mezzo passa davanti alla casa dei genitori del piccolo ma la mamma non lo può riabbracciare: lui, a bordo, non c’è.
Ormai è l’una e mezza ed è una comitiva quella che si muove dall’abitazione al plesso scolastico di Ceriale. Ancora quaranta minuti di ricerche, poi qualcuno ha un’intuizione. Si rivela esatta: Alì (un nome di fantasia per il piccolo di origine marocchina, ndr) è nello scuolabus, il primo, quello che viene utilizzato per il viaggio del mattino. Il piccolo si è ridestato, si è spaventato, forse ha anche versato qualche lacrima. Poi è rimasto lì, nel furgone giallo con le portiere blindate. C’è rimasto per cinque ore.
«Quando è stato ritrovato - racconta ora un parente, Mohamed, che è anche un milite della Croce Bianca di Alassio - era tutto sudato ma non presentava alcun tipo di disturbo». Era spaventato? «Spaventato sì, ma si era seduto in attesa che qualcuno lo venisse a prendere. È stato coraggioso, davvero coraggioso, per la sua tenera età».
Un’ora dopo il piccolo dorme sereno tra le braccia della madre, al pronto soccorso pediatrico dell’ospedale di Pietra Ligure. È stato portato lì nel timore di un principio di disidratazione, dopo esser rimasto prigioniero per un periodo di tempo così lungo in un furgone chiuso ed esposto in parte al sole. Ma non c’è alcun problema: Alì sta bene e l’unico trauma da superare sarà il ricordo di una mattinata interminabile. La mamma lo guarda, sorride e sospira: «Speriamo dimentichi in fretta, l’importante è che sia finito tutto bene»».
È inevitabile, però, che dopo un episodio del genere esplodano le polemiche. Com’è possibile che nessuno si accorga di un bimbo salito a bordo? Eppure, sulla carta, la rete di sorveglianza è ben impostata. Ci sono l’autista e un’accompagnatrice della cooperativa Arcadia, alla quale è stato affidato il servizio di trasporto dei bambini. Ci sono le maestre, che però ben poco hanno potuto, non avendolo mai visto arrivare.
Vero, lo confermano anche i familiari: «Va a scuola da poco tempo e non tutti i giorni, ma secondo le esigenze lavorative dei suoi genitori, quindi è probabilmente per questo che la sua assenza non ha destato interrogativi». L’autista conferma di non essersi accorto di nulla, ma ricorda che la responsabilità dell’appello dei bimbi che salgono e che scendono è dell’accompagnatrice: «Quando mi ha dato il via libera, ho parcheggiato e sono andato via». La donna è stata subito sospesa dalla cooperativa e sostituita. I carabinieri, che hanno la loro caserma nel palazzo attiguo al plesso scolastico, ipotizzano una segnalazione al magistrato per abbandono di minore.
Lei, la sorvegliante, è disperata: «Siamo arrivati, ho detto ai piccoli di togliere le cinture e scendere, non mi sono accorta che ne era rimasto a bordo uno». Cos’è successo lo spiegherà l’indagine mentre il pulmino giallo rimane fermo, sequestrato nel piazzale davanti alla scuola.

il manifesto 28.9.17
Ius soli, il Pd cede ad Alfano. E Gentiloni resta in silenzio
Anche la ministra Lorenzin dice No. La legge sparisce dal Senato. Zanda: «Discuterla ora equivarrebbe a ucciderla»
di C.L.

«Mancano 24 voti», spiega nel pomeriggio di ieri il capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda. «Mancano 30 voti», rilancia poco dopo la ministra per i Rapporti con il parlamento Anna Finocchiaro. Pallottoliere alla mano, il rappresentante del principale partito di maggioranza e quello del governo concordano nel sentenziare la fine dello ius soli. Certo, sia l’uno che l’altra assicurano di non voler abbandonare le speranze di vedere approvata la legge entro la fine della legislatura, perché adesso «bisogna cercare i voti con la politica, con il compromesso», come spiega Finocchiaro. Ma per intanto quello del ddl sulla cittadinanza è un capitolo chiuso, una partita finita. Game over.
Un tentativo di riportare in vita la legge era stato fatto durante la riunione dei capigruppo da Sinistra italiana e Mdp. Entrambi i partiti hanno chiesto di poter calendarizzare lo ius soli dopo il 4 ottobre, una volta superato in aula lo scoglio del Def. Non si tratta di un giorno preso a caso. Il periodo scelto rappresenta infatti la famosa «finestra» che lo stesso Zanda solo qualche settimana fa aveva indicato come il momento migliore per discutere e finalmente varare il provvedimento. Ma il capogruppo del Pd nel frattempo deve averci ripensato. «Portare oggi in aula lo ius soli significherebbe condannarlo a morte certa e definitiva, e purtroppo i sette senatori di Sinistra italiana e i pochi di altre componenti che oggi voterebbero a favore non sono sufficienti a formare una maggioranza», sentenzia quindi bocciando la proposta.
Si ripete così quanto accaduto all’inizio di settembre, quando l’ufficio di presidenza decise di non inserire lo ius soli nel calendario dei lavori del mese. Qusta volta lo ius soli non appare fino al 20 ottobre, quando a chiudere definitivamente i giochi sarà l’arrivo al Senato della legge di stabilità. Un déjà-vu poi confermato anche dal voto dell’aula.
Un ragionamento – quello del presidente dei senatori dem – che però non convince le senatrici Loredana De Petris e Cecilia Guerra, rispettivamente capogruppo di Si e Mdp. «Secondo i nostri calcoli solo nel gruppo Misto ci sono una quindicina di voti e anche in Ap ce ne sono altri disponibili» ragiona la prima, convinta che lo ius soli non crei problemi solo al partito del ministro Alfano, ma anche all’interno dello stesso Pd.
Ma il vero segnale che ormai non ci sia più niente da fare arriva da Palazzo Chigi, dove Paolo Gentiloni continua a non spendere una parola in difesa della legge. Vero è che ieri il premier si trovava in Francia, a Lione, per un importante vertice con il presidente Emmanuel Macron, ma è anche vero che le distanze non rappresentano un problema e che volendo un segnale avrebbe potuto anche darlo.
Il suo silenzio invece legittima e rafforza quanti si oppongono al provvedimento per una pura questione di voti, contribuendo perdipiù a dare l’idea di un governo «fai-da-te» nel quale ognuno si muove ormai come vuole. Così dopo il «No» espresso martedì dal ministro degli Esteri Alfano, ieri è arrivato anche quello della ministra della Salute Beatrice Lorenzin per la quale è meglio rimandare tutto alla prossima legislatura. Viceversa il titolare dei Trasporti Graziano Delrio continua a chiedere un gesto di coraggio che salvi la legge. Magari accettando il rischio di un voto di fiducia, come ha chiesto ieri anche il presidente del Pd Matteo Orfini.
A chiedere al premier di porre la fiducia sulla legge è anche il presidente della commissione Diritti umani, Luigi Manconi. «Nel corso di questa legislatura è stata chiesta per ben 61 volte, sulle più diverse questioni», ha spiegato ieri il senatore. «Ora a sei mesi dalla fine della legislatura mi chiedo perché mai non venga messa su un provvedimento ripetutamente definito ’irrinunaicabile’ dal governo, dal Pd e considerato ’giusto’ – bontà sua – persino dal nostro erratico e ondivago ministro degli Esteri».

Corriere 28.9.17
lo ius soli e il furore ideologico
di Pierluigi Battista

Ci eravamo cullati nell’illusione che con la fine della Guerra fredda si sarebbero definitivamente spenti i fuochi del fanatismo ideologico. Ma i veleni che stanno intossicando il conflitto scatenato dai due fronti contrapposti sullo ius soli dimostrano invece che i detriti di quella mentalità ostruiscono ancora una sana, appassionata discussione tanto importante. Più che una discussione, sembra un derby furioso che non ammette una leale competizione, una guerra santa che non sa riconoscere nell’altro se non la personificazione del nemico assoluto, la riduzione dell’avversario a mostro morale. Non c’è legittimazione reciproca, che invece dovrebbe obbligatoriamente esserci come base di una battaglia politica anche aspra, ma onesta negli argomenti e nel rispetto dei fatti. E addirittura non c’è considerazione per ciò che effettivamente dispone la stessa legge proposta e ora purtroppo impaludata in Parlamento sullo ius soli, che è una legge equilibrata, ragionevole, prudente, che promuove diritti oramai imprescindibili rispettando tempi e procedure.
Da una parte c’è la smania della bandierina da piantare nel campo nemico, la voglia risarcitoria di fare di una legge il simbolo dell’umiliazione di chi vi si oppone. Dall’altra l’allarmismo spregiudicato di chi in questa norma scorge il cavallo di Troia di chissà quale apocalittica invasione. La supremazia ideologica, a sinistra come a destra, ha questo di peculiare: di voler esaltare i simboli a scapito dei fatti, di demonizzare gli avversari ridotti a caricature.
Tanto che del ministro Minniti, la cui azione di governo sembra smentire questa deriva iper-ideologica e che naturalmente in democrazia deve essere soggetta alle critiche anche più spietate, a sinistra si è arrivati a dire che sia solo la copia malriuscita nientemeno che di uno «sbirro». È la demolizione di una persona, appunto. È il trionfo dell’irresponsabilità.
Il fenomeno dell’immigrazione, invece, bisognerebbe cercare di governarlo, combinando con intelligenza fermezza e umanità, legalità e accoglienza, repressione e cittadinanza, sicurezza e solidarietà. Nell’isteria ideologica, invece, si afferra solo un corno del dilemma e si dileggia, si demolisce, si delegittima chiunque abbia deciso di non arruolarsi in questa nuova guerra santa, e vuole insistere a leggere la complessità di un problema, che poi sarà il problema dei prossimi decenni in tutta Europa e già condiziona pesantemente stati d’animo, movimenti d’opinione, gli stessi esiti elettorali.
Basta scorrere l’aggressività bipartisan nelle arene dei social, o sfogliare la collezione di questi ultimi anni dei giornali di destra e di sinistra per cogliere i sintomi di questa aggressività ideologica che prende abusivamente le forme di un tribunale morale delegato alla condanna senza appello di chi sta sul fronte opposto.
A destra si accusa chi sostiene lo ius soli di voler scaricare in Italia masse ingenti di clandestini per distruggere l’identità nazionale, di essere addirittura complici del terrorismo islamista, di perseguitare gli italiani, di permettere lo stravolgimento del nostro patrimonio antropologico, di spalancare le porte a chi diffonde malattie che sembravano dimenticate, a chi sarebbe dedito senza distinzione alle attività criminali, allo stupro generalizzato, alla devastazione delle città. Ma che c’entra con la proposta della cittadinanza? Niente, solo ideologia da smerciare all’ingrosso.
Nella stampa di sinistra, invece, si dà impunemente del «razzista» a chi osa sollevare un problema, a chi ritiene che molte paure dei cittadini, soprattutto tra le zone più deboli e disagiate della società, abbiano un fondamento nello stress culturale prodotto da una penosa guerra tra poveri. Si nega ogni credibilità morale a chi pensa che non tutto sia così semplice cavandosela con l’appello all’«accoglienza». Si manipola ogni obiezione come se fosse il frutto malato di qualche aspirante adepto del Ku Klux Klan. Senza rispetto per le opinioni diverse. Solo con la voglia di colpire duro, di alzare un muro (proprio da parte di chi vorrebbe abbattere tutti i muri) per rinchiudere in un recinto infetto chi è portatore di un pensiero diverso. Con un fanatismo tra l’altro controproducente, incapace di convincere, anzi con il vizio di compattare il campo avversario, come avveniva appunto nelle guerre ideologiche. Un tuffo nel passato, nell’incapacità di capire cosa ci porta il futuro.

Repubblica 28.9.17
Ius Soli
Figli nostri e figli dello Stato
di Massimo Recalcati

LA RESISTENZA antropologica e psicologica, oltre che politica ed elettoralistica, allo Ius soli rende manifesta una tendenza sempre presente nella realtà umana: difendere il proprio status narcisistico, sociale e identitario dal rischio perturbante della contaminazione. È quella inclinazione autistica della vita umana che aveva condotto Freud a paragonare la sua condizione primordiale di esistenza a un guscio chiuso su se stesso e ostile per principio al mondo esterno, colpevole di essere “straniero e apportatore di stimoli”. Questa concezione corazzata dell’identità nei tempi di crisi tende inevitabilmente a rafforzarsi e a sclerotizzarsi. La paura dello straniero incentiva l’edificazione di una versione dell’identità fobica, refrattaria allo scambio, iper-difensiva. I confini diventano muraglie, cessano di essere porosi, acquistano la consistenza del cemento armato. In un tempo dominato dal panico sociale generato dalla durezza della crisi economica, dal carattere anarchico e inarrestabile dei flussi migratori e dalla follia terrorista, la solidificazione dell’identità tende a configurarsi come una reazione giustificata alla minaccia incombente. I rigurgiti nazionalisti, etnici, populisti, sovranisti che caratterizzano la scena politica non solo nazionale ma internazionale cavalcano irresistibilmente questa onda. Ma la vita della città senza contaminazione è destinata all’imbarbarimento esaltato della setta, alla psicologia totalitaria delle masse. In questo senso dovrebbe essere chiaro a tutti che la partita dell’integrazione è il più grande antidoto ad ogni forma di violenza compresa quella del terrorismo.
Come non considerare che in questo mondo nuovo attraversato dall’esperienza inevitabile della contaminazione, del cosmopolitismo, dello scambio, della flessibilità dei confini, la nozione di cittadinanza deve essere radicalmente riformulata? Le situazioni di crisi non necessariamente sono destinate ad accentuare una difesa strenua contro quello che pare ingovernabile. È un insegnamento che proviene dalla vita psichica: il tempo di maggiore crisi — se elaborato nella direzione giusta — spesso coincide con il tempo delle trasformazioni più generative. L’attraversamento di una malattia non riporta mai la vita a com’era prima, ma la può rendere più ricca, più sensibile alla vita, più capace di vita. In questo senso la crisi può essere sempre un’occasione di apertura più che di chiusura.
La battaglia politica e culturale dello Ius soli potrebbe diventare un esempio luminoso. Alla tentazione della chiusura e del barricamento identitario vincolato al sangue e al particolarismo dell’etnia — che sono, in realtà, la faccia speculare della globalizzazione universalistica — si può rispondere ponendo con forza il tema della rifondazione positiva del senso di appartenenza alla vita della città. La psicoanalisi lo verifica quotidianamente nella sua pratica clinica: l’integrazione cura la dissociazione; l’esperienza del riconoscimento cura l’odio; la condivisione cura il senso di segregazione.
Il legame familiare, forse più di ogni altro, ci offre un esempio significativo di giusta cittadinanza. Non si diventa padri o madri perché si genera biologicamente una vita. La vita del figlio è tale solo se viene simbolicamente adottata al di là del sangue e della stirpe. C’è genitorialità solo se ci assumiamo la responsabilità illimitata che il prendersi cura della vita di un figlio comporta. Questa nozione di responsabilità non è mai un fatto di sangue, ma implica un consenso, un atto, una decisione simbolica. Allo stesso modo lo Stato ha il dovere etico di adottare — di riconoscere come suoi figli — coloro che non solo e non tanto nascono nel suo territorio, ma si riconoscono come parte integrante di quello Stato contribuendo alla sua vita. Diversamente l’idea che la cittadinanza sia un diritto vincolato al sangue è un’idea fondamentale del Mein Kampf di Hitler. L’origine del razzismo e di ogni genere di fanatismo hanno sempre come loro fondamento l’ideale della purezza etnica che esclude il pluralismo.
La battaglia per lo Ius soli è una battaglia di Civiltà dal respiro ampio. Non riflette un colore politico. Per questa ragione i numeri non dovrebbero essere tutto. I partiti che la ritengono giusta dovrebbero mantenere il loro sguardo alto. In gioco non è un semplice guadagno elettorale ma il senso stesso del mondo.

La Stampa 28.9.17
Renzi teme il boomerang
Braccio di ferro con Orlando per modificare la norma
Il ministro: prima di intervenire monitoriamo gli effetti
di Carlo Bertini e Francesco Grignetti

Renzi versus Orlando. Attorno al capitolo più emblematico della riforma di maggiore portata simbolica della giustizia, si è giocata una partita nei giorni scorsi all’interno del Pd: tra un’ala capeggiata dal segretario Matteo Renzi, più sensibile agli allarmi del mondo imprenditoriale e una decisa ad andare a fondo guidata dal ministro Orlando. Renzi avrebbe preferito infatti cambiare questa norma, anche da premier aveva molto rallentato la legge, perché non ne condivideva vari passaggi.
E ieri, dopo un braccio di ferro, è stata partorita una mediazione: un ordine del giorno, firmato dal capogruppo Pd in commissione giustizia Walter Verini che, nella sostanza, serve a prendere tempo. Il testo approvato invita il governo a monitorare l’andamento della riforma e sottolinea la novità dirompente di questa norma, che prevede il sequestro, anche preventivo, del patrimonio di un corrotto al pari di un mafioso. In sostanza,
di fronte a una sproporzione tra reddito dichiarato e patrimonio, se c’è il sospetto che quel patrimonio sia frutto di varie corruzioni precedenti, il pm può chiedere il sequestro. La portata è chiara a tutti gli addetti ai lavori. Ma al ministero della Giustizia sono convinti che essendo la riforma molto complessa, ci siano già gli anticorpi per prevenire ogni eventuale eccesso in senso giustizialista. La riforma prevede non un sequestro preventivo tout court, ma disposto da un giudice con un dibattimento specifico, cui le parti prendono parte anche con l’avvocato difensore dell’imputato. In gergo tecnico è chiamata «giurisdizionalizzazione del procedimento».
Lo stop del Guardasigilli
Orlando è convinto dunque che non ci sarà necessità di cambiarlo e quindi di decreti o provvedimenti di urgenza non vede la necessità. Tutto è rinviato a tempi medio lunghi quando - dopo un monitoraggio attento da parte del ministero - si ravvisasse che la legge necessita di correzioni. Ma qui si innesta un problema tutto politico che impatta sulla campagna elettorale e sull’immagine del Pd, che il segretario non vuole assuma un profilo troppo giustizialista.
Non è un mistero che fin dall’inizio tale formula del sequestro dei beni non piaceva ai vertici del partito. E veniva considerata un autogol: «Matteo la voleva cambiare, Orlando e il governo non hanno voluto, perché se la riportavano al Senato la riforma sarebbe morta», racconta un dirigente renziano. Messa in ghiacciaia l’irritazione, il Pd ha studiato questa soluzione dell’ordine del giorno: che ricalca altri ordini del giorno dell’ultimo anno, tanto che già diverse riforme sono sottoposte a un monitoraggio accurato da parte del ministero.
Il rischio di affossarla
A confermare il sigillo dell’intesa raggiunta nel Pd è stato l’intervento in aula di ieri del renziano più esperto di giustizia David Ermini: che ha preso la parola per dire che tutti gli emendamenti che fossero stati approvati avrebbero comportato un ritorno al Senato e che la volontà era portare a casa la riforma. E il motivo è presto detto. Fuori verbale, più di un big del partito ammette che si è comunque deciso di procedere perché «se si usciva da questa vicenda con un affossamento del codice antimafia ci avrebbero massacrato». Sarebbe stato un colpo di immagine durissimo alla vigilia della campagna elettorale e per giunta dopo il flop dello Ius soli. Ma i renziani, nel timore di perdere voti nell’area imprenditoriale, non disperano che il governo decida di procedere con un decreto o un emendamento alla manovra che ammorbidisca questa norma.

La Stampa 28.9.17
Renzi e il nodo Alfano: possiamo allearci con Ap ma senza lui in lista
Il Pd: indigeribile per i nostri elettori Il segretario manda Guerini a trattare
di Francesca Schianchi

Un’apertura a sinistra, per coprirsi dalla concorrenza degli ex compagni di strada Bersani e D’Alema. E una in direzione del centro, per occupare lo spazio dei moderati. Nella strategia a cui sta lavorando per affrontare le prossime elezioni, il Pd ha individuato un solo problema, una figura utile in questo schema, ma molto difficile da far digerire all’elettorato di centrosinistra: Angelino Alfano.
Ex delfino di Berlusconi, ex segretario del Pdl, da Guardasigilli autore del contestatissimo lodo che istituiva una sorta di “scudo” dai processi per le quattro più alte cariche dello Stato quando la quarta, cioè il presidente del consiglio, era l’allora Cavaliere, l’attuale ministro degli Esteri ha fatto insorgere in alcune occasioni il popolo del Pd anche in questi anni di governo col centrosinistra, ad esempio sul caso Shalabayeva (la moglie di un dissidente kazako espulsa dall’Italia insieme alla figlia piccola quando lui era ministro dell’Interno). «Puoi mettere in lista la Castaldini (portavoce nazionale di Ap, ndr.), puoi mettere la ministra Lorenzin, anche Lupi: Angelino invece per i nostri è un problema», confida un uomo molto vicino a Renzi, «la sua immagine per il centrosinistra è troppo deteriorata».
L’operazione in corso a Largo del Nazareno prevede, per coprirsi a sinistra, di provare a strappare Giuliano Pisapia dall’alleanza con Mdp, tentativo che a giorni alterni appare complicato o a portata di mano (ieri, dopo l’intervista di D’Alema al “Corriere della sera”, più la seconda), oltre che di coinvolgere altre personalità di sinistra (nel mirino alcuni sindaci, come quello di Cagliari, Massimo Zedda, e il collega di Lecce, Carlo Salvemini). A presidiare il fianco destro, il Pd conta sull’apporto di figure come Benedetto Della Vedova e Carlo Calenda, e del loro “Forza Europa” (più difficile invece coinvolgere l’altra protagonista di quel movimento, Emma Bonino, in rapporti freddi con Renzi), ma anche Alternativa popolare. E qui si pone il problema Alfano.
L’ideale, dal punto di vista dei dem, sarebbe riuscire a convincerlo a non candidarsi. Un’ipotesi che, sanno bene dalle parti del segretario, è molto remota, ma su cui sta lavorando col tatto necessario il mediatore per eccellenza del partito, Lorenzo Guerini. Quello che i dem possono proporre al ministro è il coinvolgimento dopo le urne, ancora una volta al governo, in caso di vittoria. Un’eventualità però tutt’altro che scontata: se invece a Palazzo Chigi ci andrà un’altra forza politica, Alfano potrebbe trovarsi all’opposizione e fuori dal Parlamento.
Movimenti e contatti sono in corso. D’altra parte, ancora non è chiara nemmeno la strategia del ministro degli esteri. Con l’accordo in Sicilia sul sostegno a Micari alle Regionali, sembrava aver fatto la sua scelta di campo verso il Pd. La nomina a coordinatore di Maurizio Lupi, due giorni fa, necessaria per trattenere l’ala lombarda del partito pronta allo strappo, è di tutt’altro segno: «I nostri interlocutori sono nella famiglia del Ppe, in particolare Forza Italia», twittava ieri il capogruppo ricordando dove, secondo lui, bisognerebbe guardare. E la decisione di bloccare la legge sullo Ius soli, che Ap aveva già votato alla Camera, va in quella direzione. Ma, si sa, Salvini e Meloni hanno messo un veto su Alfano: per allearsi con lui, Berlusconi dovrebbe rinunciare a Lega e Fratelli d’Italia. «La vita è fatta di alternative: se Berlusconi gli chiude la porta in faccia, e se passa la legge elettorale con una quota di maggioritario, allora può darsi che Angelino per garantirsi un’alleanza sia costretto ad accettare le nostre condizioni…», dicono nel Pd.
Al popolo delle feste dell’Unità, in questi anni di governo i vertici dem hanno spiegato che l’accordo con Alfano era occasionale, obbligato dalla «non vittoria» delle elezioni. Ora dire il contrario non è semplice: stanno cercando la soluzione.

Il Fatto 28.9.17
Consip, il Noe aveva chiesto di interrogare anche Renzi
Il suggerimento dei carabinieri non fu accolto dalla Procura di Roma anche perché il leader si sarebbe potuto rifiutare di rispondere sul padre e sui suoi rapporti con l’imprenditore Romeo
di Vincenzo Iurillo e Valeria Pacelli

Il 28 febbraio 2017, il giorno prima dell’arresto di Alfredo Romeo, il Noe dei carabinieri chiede alla Procura di Roma di interrogare nell’ambito dell’inchiesta Consip Matteo Renzi. La nota viene inviata al pm Mario Palazzi dal maggiore del Noe Giampaolo Scafarto. È l’ufficiale che poi verrà accusato di aver falsificato parti di un’informativa depositata il 9 gennaio ma anche di aver passato notizie relative all’indagine a due marescialli, suoi ex colleghi poi passati all’Aise, i servizi segreti esteri.
Scafarto crede che sia fondamentale fare alcune domande all’ex premier sui rapporti con il padre che in quel momento è già iscritto a Roma per traffico di influenze, insieme a Carlo Russo. Su Tiziano Renzi il Noe aveva già depositato una nota alla Procura di Roma dopo gli interrogatori del 20 dicembre 2016 dell’Ad di Consip Luigi Marroni, sollecitando la perquisizione del padre dell’ex premier.
I pm romani non la disposero. E si trovano in disaccordo anche sull’interrogatorio di Matteo Renzi. La Procura lo riteneva poco utile: estraneo all’indagine, Matteo Renzi si sarebbe potuto avvalere della facoltà di non rispondere per il vincolo di consanguineità. Quando il Noe il 28 febbraio sollecita l’interrogatorio, il fascicolo era passato da Napoli a Roma per competenza, dove Renzi sr. è stato iscritto. Agli atti c’era anche l’interrogatorio come persona informata sui fatti reso il 2 gennaio dall’ex tesoriere del Pd di Napoli, Alfredo Mazzei, che ai pm aveva detto di aver appreso da Romeo di un incontro tra quest’ultimo e Tiziano Renzi in un ristorante di Roma. “Una bettola” poi precisò Mazzei in un’intervista a Repubblica. Per Scafarto è importante anche un altro elemento: la donazione – suggerita da Mazzei – di 60 mila euro della Isvafim, riconducibile a Romeo, alla fondazione Big Bang (ora Open), cassaforte del renzismo, nel 2012. Erano questi, per il Noe, che in quei giorni aveva ancora la delega alle indagini, elementi tali per poter interrogare Matteo Renzi. Che avrebbe potuto chiarire i rapporti del padre con Russo. Certo i tempi non erano ancora maturi. Perchè solo qualche giorno dopo la Procura avrà in mano un’altra carta.
Il 2 marzo, il giorno dopo l’arresto di Romeo (ora tornato libero) e prima dell’interrogatorio a Roma, Tiziano Renzi – intercettato dai pm di Napoli – riceve un telefonata del figlio, pubblicata nel libro di Marco Lillo Di Padre in figlio (Paper First). Quella mattina Repubblica aveva pubblicato l’intervista a Mazzei nella quale parla del presunto incontro Renzi-Romeo. L’ex premier così intimava al padre: “Tu devi dire la verità in quanto in passato la verità non l’hai detta a Luca (…). Devi dire se hai incontrato Romeo una o più volte”. Il padre prima dice no, poi aggiunge che “… quando lui ha fatto il ricevimento al Four Season c’erano una serie di imprenditori ma c’era anche la madre Lalla (Laura Bovoli, madre di Matteo Renzi, ndr) e siamo andati via subito”. E Renzi: “Non dire che c’era mamma altrimenti interrogano anche lei”.
Questa telefonata poteva far sorgere qualche domanda: a quale “verità”, che in passato non sarebbe stata “detta a Luca”, si riferisce Matteo Renzi? Esiste un ricevimento al Four Season? Per i pm romani però non è penalmente rilevante, quindi – neanche dopo averla ricevuta da Napoli – c’era motivo di convocare Matteo Renzi. Il padre Tiziano invece è stato sentito il 3 marzo come indagato, quando ha negato di aver avuto rapporti con Romeo. Nel frattempo, il 4 marzo, la Procura di Roma ha revocato la delega alle indagini al Noe e di lì a poco, il 7 aprile, il maggiore Scafarto riceve l’invito a comparire davanti ai pm romani: è indagato per falso. Da qui il passo al “complotto” gridato a gran voce dai renziani è stato breve.

Il Fatto 28.9.17
“Il ’68 ha cambiato l’esercito e la polizia più che l’università”
di Gianni Barbacetto

Non ha dubbi, Giuseppe Ortoleva, professore ordinario di Comunicazione all’Università di Torino ed esperto di televisione e massmedia. “Non possiamo stupirci per i concorsi truccati, per l’abilitazione scientifica nazionale fatta su misura per mettere in cattedra gli amici: l’università italiana è sempre stata così, o almeno un pezzo di università italiana è da molti decenni che funziona così”.
Niente di nuovo sotto il sole, professor Ortoleva?
Prima c’erano i vecchi baroni che decidevano la propria successione, poi sono stati introdotti nuovi sistemi, ma fatta la legge (male), trovato l’inganno: e le cose sono continuate come prima, o peggio di prima. È una cosa disgustosa, lo so, ma accade da sempre. Soprattutto nel campo del Diritto e della Medicina, in cui essere professore è una ciliegina sulla torta e l’attività universitaria porta solo una piccola parte dei guadagni complessivi; ma una parte importante, perché aggiungere Prof. davanti ad Avv. o a Dott. permette di incassare parcelle più consistenti.
Lei dunque non si stupisce per niente di questo scandalo e di questa inchiesta…
E invece sì, mi stupisco. Perché mi chiedo: come mai i magistrati si accorgono solo ora di un problema che c’è sempre stato? Intervengono solo ora che l’università italiana è trattata da tutti come una schifezza e i professori universitari sono vilipesi da tutti. È questo il vero problema: l’università italiana è la più maltrattata del mondo, la più sottofinanziata d’Europa e, in rapporto al Pil, del mondo. Guardi, considerando il Pil, i Paesi che al mondo mettono più risorse nell’università sono: primo lo Zimbabwe, secondo la Namibia. Da noi invece ha vinto Giulio Tremonti con il suo “la cultura non si mangia”. La destra odia la cultura, la sinistra la dà per scontata, “tanto quelli votano già per noi”. Così niente più soldi. Questo è per l’università italiana il momento peggiore di tutta la sua storia.
Però i professori universitari sono scesi in sciopero: come fossero tranvieri, ha replicato qualcuno dentro la vostra categoria.
Fanno bene a scioperare, perché sono la categoria peggio trattata di tutta la Pubblica amministrazione. Altro che tranvieri. Sono gli unici che non sono riusciti a rimuovere il blocco degli scatti allo stipendio imposto dal governo Monti. E nelle università la Cgil penalizza i professori a vantaggio del personale amministrativo. Detto questo, però, lo sciopero dei professori universitari non ha senso: gli scioperanti poi lavorano di più per recuperare il tempo dello sciopero.
Oggi a Torino anche gli studenti universitari si schierano con i professori, con un’iniziativa per “cercare prospettive comuni” e cercare di unire studenti, professori, precari “contro il definanziamento e la aziendalizzazione dell’università”.
Le rappresentanze degli studenti, in generale, sono un problema grave dentro l’università. Le vota solo una minoranza degli studenti veri e quelli che sono eletti, per esempio nel Cda, sono di solito al traino del sindacato. Bisognerebbe ripensare radicalmente il sistema di rappresentanza nelle università, la attuale governance è una piccola truffa.
L’iniziativa a Torino del gruppo Studenti Indipendenti è convocata oggi a Palazzo Campana, dove prese l’avvio la rivolta del Sessantotto. Cinquant’anni dopo…
Ma lasciamo stare il Sessantotto, per favore. Parliamo di quello che succede adesso. La verità è che il Sessantotto, nato nell’università, ha cambiato più l’esercito o la polizia che non l’università. La mia generazione, che ha fatto il Sessantotto, ha poi conquistato posizioni di potere e ha finito per accettare le vecchie regole contro cui aveva lottato. Ripeto, restiamo al presente: questi scandali sono vecchi come l’università italiana, ma la magistratura se ne accorge solo ora che l’università italiana è la più maltrattata del mondo.

il manifesto 28.9.17
«La strada con Mdp va avanti». Ma ormai è Tormentone Pisapia
Sinistre&alleanze. L’ex sindaco smentisce la rottura con la Ditta Bersani&D’Alema. I suoi però la confermano. I dubbi sul comizio alla festa di Art.1. Il 14 ottobre assemblea nazionale di Daniela Preziosi

Non è un buon segno che a sinistra la notizia del giorno siano le smentite. Non una, ben due. Massimo D’Alema, intervistato dal Corriere della Sera, nega di aver detto «Mai alleati con il Pd», frase che invece campeggia nel titolo, insieme a «Pisapia sia più coraggioso». A sua volta Giuliano Pisapia smentisce l’intenzione di sganciarsi dalla Ditta Bersani&D’Alema che alcuni retroscena gli attribuiscono fra virgolette: «Non farò la stampella di Renzi né la foglia di fico del dalemismo». Frase mai pronunciata, giura l’avvocato attraverso l’ufficio stampa, l’«ipotetica battuta d’arresto nel percorso unitario di Campo Progressista e Art.1» è «priva di fondamento».
MA IERI IN TRANSATLANTICO il suo braccio destro Bruno Tabacci, in capannello con l’ex demitiano Angelo Sanza, invece confermava tutto nella sostanza: «Questo atteggiamento mi sta stancando, e credo stia stancando anche Pisapia. Io non devo consumare vendette né prendermi rivincite», e all’indirizzo di D’Alema: «Non puoi dire un giorno che Pisapia è il leader e il giorno dopo che deve avere più coraggio».
IERI SERA PISAPIA È TORNATO a Milano per un dibattito con Yanis Varoufakis, ex ministro dell’economia della Grecia di Tsipras, oggi su posizioni diverse da quelle dei tempi dello scontro con la Troika. «Parlo solo di Europa», ha detto l’ex sindaco ai cronisti che lo inseguivano sulle vicende della sinistra italiana.
CHI CI HA PARLATO PERÒ lo sa molto preoccupato per l’appuntamento di domenica a Napoli dove dovrà chiudere la «Festa del lavoro» di Mdp insieme a Roberto Speranza. Se prosegue lo stop-and-go, il rischio di tensioni con quella platea c’è. Anche se i dirigenti napoletani negano con forza. «Non siamo al Brancaccio», replicano. Anche a Napoli però l’atmosfera è ’frizzante’: a farne le spese ieri è stato l’ex segretario Cgil Guglielmo Epifani, zittito da un gruppo di disoccupati (poi fatti salire sul palco). E a seguire, il dibattito con il presidente della Regione Vincenzo De Luca è stato vietato dalla questura «per ragioni di ordine pubblico».
PISAPIA E SPERANZA lunedì scorso si sono incontrati per preparare l’evento di domenica. L’ex sindaco gli ha ripetuto la sua linea da leader di Insieme, progetto mai nato davvero e già ridotto a un piatto destrutturato, una pietanza scomposta di ingredienti rossi e arancio ciascuno per fatti suoi: Campo progressista da una parte e Mdp dall’altra. Tant’è che D’Alema ha annunciato l’assemblea costituente di Mdp il 19 novembre («Non è stato deciso nulla», precisa un bersaniano di prima fila). E Cp riunirà la sua assemblea nazionale il 14 ottobre a Roma, all’Ambra Jovinelli.
A Speranza, Pisapia ha riepilogato le sue posizioni: «Nessun accordo con Renzi, nuovo centrosinistra e no alla ’Cosa rossa’», cioè – fuor di metafora – no all’inclusione nel nocciolo duro dell’alleanza di Sinistra italiana e dell’area del Brancaccio. Se in queste settimane Pier Luigi Bersani ha cercato di fare fa ponte fra Mdp e Pisapia, ormai per la maggioranza della Ditta la terza condizione non è più potabile. Durante la pausa estiva il trio Speranza-Fratoianni-Civati si è presentato unito in molte piazze. Un’immagine che corrisponde all’idea che D’Alema spiega al Corriere: «Non possiamo permetterci di avere alla sinistra del Pd due liste in conflitto tra loro sull’orlo della soglia di sbarramento. Sarebbe un suicidio». In effetti circolano sondaggi poco lusinghieri per tutte le sinistre in campo.
UNA PARENTESI DOVEROSA: D’Alema e compagni di Mdp sorvolano sull’esistenza di Rifondazione comunista, che ovviamente sarà nella competizione. Ieri il segretario Maurizio Acerbo ha lanciato un nuovo appello a Si: «Leggo della ormai prossima nascita di una sedicente Linke italiana con Pisapia, Bersani, D’Alema. Si tratta di una versione bonsai del vecchio centrosinistra», «Confido che il mio amico Fratoianni prenda atto che bisogna fare altro».
FRATOIANNI, DAL CANTO SUO, da Napoli chiude i ponti con Pisapia e avverte: «Le sue smentite non interessano nessuno», «il tempo è scaduto e la campagna elettorale di Si è già cominciata», «c’è bisogno di mettere al centro l’unica vera emergenza, la disuguaglianza. Nel giro di pochi giorni è necessario definire una proposta che non sia pregiudicata da nessuna scelta sulla leadership».

La Stampa 28.9.17
Pisapia stoppa il D’Alema delle tessere
Tabacci: “Noi abbiamo persone vere”
L’ex dc: se Massimo vuole un’assemblea così, se la fa da solo
di Alessandro Di Matteo

È uno sfogo vero e proprio quello di Bruno Tabacci sui divanetti del Transatlantico alla Camera. L’ex assessore di Giuliano Pisapia non ha apprezzato affatto l’ultima intervista di Massimo D’Alema, quella apparsa ieri sul Corriere della sera nella quale l’ex premier detta i tempi e la linea del nuovo soggetto politico che dovrebbe nascere a sinistra del Pd. Tempi e linea che non corrispondono affatto a quelli che hanno in mente l’ex sindaco di Milano e i suoi. Tabacci non è il solo a pensarla così. «D’Alema parla di eleggere il 19 novembre i delegati all’assemblea nazionale? E chi l’ha deciso, con quali modalità? Io l’ho letto oggi sul giornale… Se vogliono fare il congresso con le tessere se lo fanno da soli, perché Campo progressista è un’altra cosa...».
Da mesi Pisapia e i suoi sono irritati per il tesseramento lanciato già prima dell’estate da Mdp, una mossa considerata come una sorta di opa ostile sul nuovo soggetto politico da costruire insieme, un modo per sedersi al tavolo rivendicando la maggior parte dei posti di comando. «Ma che discorso è? - insiste Tabacci - Noi non abbiamo le tessere tradizionali, ma abbiamo 25 mila persone che nel 730 hanno scelto di dare i soldi a noi. Sono persone vere, non tessere false... E non puoi dire un giorno che Pisapia è il leader e il giorno dopo che deve avere più coraggio...».
L’ex assessore non è solo, accanto a lui c’è anche Michele Ragosta, ex Sel ora nel gruppo di Mdp: «Non ci sono le condizioni allo stato attuale per un’assemblea. Il problema è la linea politica. Mdp non doveva essere un partito, doveva essere un momento di passaggio, invece hanno fatto le tessere... Se la linea è quella indicata da D’Alema, l’assemblea se la fanno loro. Ed è chiaro che in Mdp la linea la detta D’Alema».
Ma il problema, aggiunge Tabacci, è anche la linea politica: «Pisapia vuole un centrosinistra largo, loro pensano di fare la versione italiana di Melenchon (il leader comunista francese, ndr). Ma a me chi me lo fa fare? Questo atteggiamento mi sta stancando, e credo che stia stancando anche Pisapia... Io non devo consumare vendette, né prendermi rivincite (nei confronti di Renzi, ndr)», come invece secondo l’ex assessore vogliono fare gli ex Pd.
L’ex sindaco di Milano - che ha incontrato D’Alema due giorni fa in un faccia a faccia - per ora non rompe, proprio poche ore prima, aveva fatto uscire una nota per ribadire che «il progetto unitario va avanti», smentendo alcune ricostruzioni che parlavano di rottura vicina. Ma le cose stanno diversamente, e non solo per lo sfogo di Tabacci. Uno degli uomini vicini a Pisapia spiega: «Siamo distanti anni luce da D’Alema, è molto difficile che l’alleanza tenga, loro vogliono il partito della sinistra con Fratoianni, noi il centrosinistra largo. Se passa il Rosatellum le strade con Mdp, o almeno parte di loro, si separano e noi faremo una coalizione. Se resta la legge attuale saremo probabilmente costretti a fare una lista insieme. Ma non durerà comunque, siamo troppo distanti, anche culturalmente…».

Corriere 28.9.17
Le frasi su Craxi di sinistra: D’Alema se lo ricorda ora

«Leggo che il “generoso” compagno D’Alema, intrapresa una nuova campagna d’autunno e con il ritardo proprio di certa sinistra, si ricorda di Craxi e della sua statura». A Stefania Craxi, presidente dell’omonima Fondazione, le dichiarazioni che l’ex premier ha rilasciato al Corriere della Sera non sono piaciute. «Alle furbizie di D’Alema — spiega — siamo ormai abituati: c’è sempre qualcuno di cui servirsi contro il nemico di turno». «D’Alema ha detto che mio padre Bettino Craxi è sempre stato un uomo di sinistra mentre Renzi è estraneo a questa posizione? È ovvio. Mio padre è stato uno degli uomini più di sinistra di questo paese mentre Renzi non viene dalla storia della sinistra», commenta Bobo, l’altro figlio di Craxi. «D’Alema sarebbe stato più corretto se avesse detto queste cose negli anni 90», aggiunge Riccardo Nencini, segretario del Psi. Oltre all’irritazione di vari esponenti del Pd, l’atteggiamento di D’Alema, in particolare a proposito del «cantiere» del centrosinistra, ha suscitato la reazione di Bruno Tabacci, il quale ha sottolineato che «non si può dire un giorno che Pisapia è il leader e il giorno dopo che deve avere più coraggio». Così Pisapia, secondo Tabacci, finirà per stancarsi.

Corriere 28.9.17
la legge elettorale mista può offrire buone garanzie
di Valerio Onida

Caro direttore, si può discutere nel merito il progetto di legge elettorale, prescindendo per un momento dalla considerazione degli interessi particolari o dei vantaggi e degli svantaggi che ciascuna forza politica pensa di riceverne? In sé esso rappresenta un indubbio passo avanti, e potrebbe essere la chiave per superare la scandalosa situazione di apparente impotenza parlamentare in cui sembrava fossimo finiti.
Un passo avanti per più motivi. In primo luogo perché sembra potersi raccogliere intorno alla legge, come è giusto che sia in questa materia, un consenso ampio e trasversale, anche se non unanime. In secondo luogo perché la proposta prefigura un sistema elettorale omogeneo sia per la Camera che per il Senato (superando il paradosso di due sistemi diversi non per scelta, ma perché nati in tempi diversi e «manipolati» in senso diverso dai «tagli» operati dalla Corte costituzionale). Inoltre, il sistema «misto» che si prevede, in linea di principio (e salvo quanto si dirà subito dopo), appare in grado di assicurare la rappresentanza dei territori e delle tendenze politiche in presenza di un quadro politico frammentato come l’attuale.
In linea di principio esso potrebbe contemperare i vantaggi di un sistema maggioritario con quelli della proporzionale, e consentire un rapporto più diretto fra elettori ed eletti.
Secondo la proposta presentata dal relatore alla Camera (smettiamo, per favore, di inventare a ogni piè sospinto ridicoli nomi latineggianti), un po’ più di un terzo dei seggi verrebbero attribuiti in collegi uninominali (certo, abbastanza ampi, uno ogni 250.000 abitanti alla Camera, il doppio al Senato), e due terzi dei seggi verrebbero attribuiti in base al voto di lista in collegi plurinominali, con liste «bloccate» ma corte, di non più di quattro candidati. Le liste possono coalizzarsi fra di loro concordando in questo caso anche i nomi dei candidati comuni nei collegi uninominali. L’elettore esprime un solo voto, che vale contemporaneamente per l’elezione del candidato nel collegio uninominale e per l’attribuzione dei seggi alla lista nei collegi plurinominali. Può votare solo la lista o una delle liste coalizzate, e in questo caso il suo voto vale automaticamente anche per il candidato nel collegio uninominale a cui quella lista è collegata. Può votare solo il candidato nel collegio uninominale, e in questo caso il suo voto vale automaticamente anche per tutte le liste a esso collegate, distribuendosi fra di esse proporzionalmente ai voti ottenuti da queste nel collegio plurinominale.
Qui sta il punto dolente, perché non fedele alle sue premesse, del progetto. La previsione delle coalizioni (che l’attuale legge per la Camera invece esclude) è positiva, consentendo agli elettori, nella grande frammentazione di liste e listarelle che si prevede, di orientarsi secondo grandi tendenze, ma anche di distinguere il proprio voto da altri pur non radicalmente alternativi. La logica maggioritaria del collegio uninominale a turno unico impone la ricerca di accordi di coalizione, perché la maggior parte dei singoli partiti non possono ambire a far prevalere il proprio candidato.
Tuttavia il collegio uninominale presuppone che l’elettore scelga la persona del candidato, mentre per la quota proporzionale vi è la scelta di lista, coalizzata o meno. È allora illogico che non si consentano due voti distinti, uno per il collegio uninominale, al singolo candidato, e uno per il collegio plurinominale, a favore della lista preferita, eventualmente anche diversa da quella o da quelle collegate al candidato preferito. Col sistema previsto il voto nel collegio uninominale è in realtà un voto di lista (o di coalizione), non per il candidato, e infatti vale contemporaneamente per l’una e per l’altra quota di seggi, costringendo l’elettore, che intende scegliere la persona del candidato nel collegio uninominale, a «votare» (anche se non vorrebbe), nel collegio plurinominale, per una o più delle liste bloccate presenti nello stesso collegio e collegate al candidato preferito.
In questo modo la suddivisione fra quota uninominale e quota proporzionale perde senso. Ogni voto viene computato in entrambe le quote, e la candidatura nei collegi uninominali non si offre all’elettore come scelta della persona indipendentemente dal partito, ma semplicemente come indicazione di uno (il primo) degli eletti nell’ambito della lista o della coalizione votata; e con l’effetto paradossale che la scelta dell’elettore per una delle liste coalizzate lo «costringe» ad esprimere contemporaneamente il voto per un candidato nell’uninominale che potrebbe non rappresentare la sua scelta, e perfino risultargli «ostico» perché frutto esclusivamente degli accordi preventivi fra le liste coalizzate che lo hanno individuato. E risulterà dunque impossibile valutare se il risultato raggiunto da un candidato nel collegio uninominale sia il frutto della fiducia da lui riscossa fra gli elettori, o invece solo l’effetto «automatico» delle preferenze di lista espresse dagli elettori nello stesso collegio.
L’introduzione di due schede diverse per l’uninominale e la quota proporzionale, o al limite almeno del «voto disgiunto» (come quello che si può esprimere ad esempio nelle elezioni comunali, fra candidati sindaci e liste per il consiglio) consentirebbe di rendere il sistema elettorale più conforme alla logica di un sistema «misto», in parte maggioritario di collegio e in parte proporzionale, che come si è detto sembra un carattere positivo della proposta.

La Stampa 28.9.17
La sfida di Corbyn ai robot: “Ci tolgono il lavoro”
Il leader laburista vorrebbe tassare le aziende inglesi che sostituiscono gli operai con l’automazione
Incoronato dalla folla Standing ovation a Brighton per il leader dei Labour
Parlando nella giornata di chiusura dei lavori, il leader laburista ha definito il suo partito «socialista moderno e progressista che ha riscoperto le propri radici»
di Alessandra Rizzo

Affrontare la sfida della «robotizzazione» delle aziende e proteggere i lavoratori. Nel suo discorso alla conferenza di partito, il leader laburista Jeremy Corbyn lancia la sfida a Theresa May, e lo fa da sinistra: fine dell’austerity, nazionalizzazione delle aziende che gestiscono beni essenziali come l’acqua, affitti controllati, tasse più alte alle imprese e ai ricchi.
E soprattutto protezione del lavoro, tema classico aggiornato all’era della rivoluzione tecnologica e digitale. «Dobbiamo affrontare la sfida dell’automazione e della robotica che potrebbe rendere superflui tanti posti di lavoro», ha detto a migliaia di delegati riuniti a Brighton in una giornata di sole autunnale. «Non potremo godere dei benefici dei progressi tecnologici se questi saranno monopolizzati per il profitto di pochi». Concetto che secondo il «Daily Telegraph» e altri vorrebbe dire una tassa per le imprese che dovessero sostituire i lavoratori con robot, oltre alle annunciate politiche per la formazione del personale nelle aziende.
Corbyn, 68 anni, è salito sul palco accolto da una «standing ovation», forte di un risultato superiore alle attese alle ultime elezioni e di sondaggi che lo danno a pari merito con i Tory guidati dalla traballante premier May. «Siamo pronti per governare», è stato il tema ricorrente del suo discorso, 75 minuti scanditi da applausi. Ha invitato i Conservatori «a farsi da parte» dopo quelli che ha definito i tentennamenti sulla Brexit e una tornata elettorale che li ha lasciati senza maggioranza in Parlamento, costretti ad un governo di minoranza con gli unionisti nordirlandesi.
Nonostante le sconfitte dei socialdemocratici in Germania e dei socialisti in Francia, e le difficoltà di tanti partiti di sinistra in Europa, Corbyn si dichiara orgogliosamente e tradizionalmente socialista. Ha archiviato il New Labour di Blair e spostato l’asse del partito. «Siamo un partito socialista moderno e progressista che ha riscoperto le proprie radici, andando in controtendenza rispetto all’Europa», ha detto. Fa leva sul senso di incertezza generato dalla crisi finanziaria del 2008 e dai processi di globalizzazione e digitalizzazione (in questo senso va intesa anche la battaglia ai robot nelle fabbriche). Ma se il suo messaggio fa presa tra le élite cosmopolite delle grandi città e sui giovani cui promette di tagliare le tasse universitarie, stenta a fare breccia tra le fasce più deboli del Paese profondo. E, sebbene il partito sia cresciuto, deve ancora convincere la maggioranza dei britannici, e alcuni moderati nel partito. Ma certo le divisioni del passato sembrano per ora messe da parte. «È l’incoronazione di Corbyn», ha scritto l’«Economist» in un articolo online. «Ma anche la resa formale dei moderati laburisti».
Corbyn va dritto per la sua strada. Ha evocato la tragedia di Grenfell, il rogo di una casa popolare nel cuore ricco di Londra diventato simbolo di disuguaglianza; e ha proposto innalzamento dei salari pubblici e affitti controllati per limitare la «gentifricazione» dei quartieri. E intanto studia da primo ministro, anche se le elezioni non sono previste prima del 2022. «Siamo un governo in attesa», giura.

Corriere 28,9.17
Corbyn ci crede: «Pronto a governare»
Il leader parla ai laburisti britannici da premier in pectore e sfida Theresa May: si faccia da parte
di L. Ip.

Brighton Un congresso di partito? Pare di assistere a un’adunata messianica, un’assemblea di fedeli in attesa dell’Eletto. La musica martella le orecchie e quando lui finalmente appare sul palco, parte il coro: «Oooh, Je-re-my Cooor-byn!». Il canto tribale va avanti per minuti, con il leader laburista che non riesce neppure a cominciare il discorso.
Alla fine, a fatica, la folla si placa e ripone sciarpe, bandiere e striscioni. Solo allora Corbyn può prendere la parola: e lo fa per proclamare che il partito laburista «è ormai sulla soglia del potere» e che la sua squadra è «il governo in pectore della Gran Bretagna».
Tutti i sondaggi gli danno ragione e la scorsa settimana anche l’ Economist lo ha messo in copertina sulla soglia di Downing Street: con la mitica porta al numero 10 dipinta di rosso.
Corbyn è arrivato al congresso con un partito ormai unito (o in qualche caso rassegnato) dietro di lui. E con il vento favorevole che gli gonfia le vele, si permette di irridere gli avversari più che attaccarli: quei conservatori «aggrappati al potere» che se non si danno una scossa «si tirino da parte». Quindi la sfida diretta a Theresa May: «Faccia un’altra passeggiata in vacanza e prenda un’altra decisione improvvisa». Cioè, chiami il Paese a nuove elezioni, perché «il mio governo ombra è pronto a prenderne il posto».
Poi Corbyn assesta una lezione al New Labour di Tony Blair, i cui scampoli ancora si rodono a vedere il loro partito guidato da quello che per decenni è stato il più estremista fra i parlamentari: «Ci hanno sempre detto che le elezioni si vincono al centro — chiosa Corbyn — e non è sbagliato. Solo che il centro di gravità della politica si è spostato e siamo noi oggi il mainstream », la corrente maggioritaria.
La ragione di questo spostamento a sinistra, nell’analisi del leader laburista, sta nelle conseguenze della crisi finanziaria del 2008: «Finalmente ora la politica si sta mettendo al passo», proclamando la fine di «quel modello fallito, forgiato da Margaret Thatcher».
Una parte del discorso è dedicata alla Brexit, una «questione vitale» sulla quale i conservatori «si stanno giocando gli interessi della nazione». E la platea scatta in piedi in un lungo applauso quando Corbyn proclama che «i tre milioni di europei che vivono tra noi sono i benvenuti» e che il governo laburista «darà loro piene garanzie».
Ma il leader non scioglie le contraddizioni del partito sull’Europa. Durante la tre giorni congressuale si è evitato di mettere ai voti una mozione che chiedeva la permanenza nel mercato unico, perché si rischiava di spaccare l’assemblea. Corbyn assicura che si impegnerà per mantenere al massimo i benefici del mercato comune, ma dice che rispetterà i risultati del referendum e userà i poteri rimpatriati da Bruxelles «per promuovere una strategia industriale in Gran Bretagna», dunque svincolata dalle regole europee sugli aiuti di Stato.
La conclusione è però univoca: «Dobbiamo essere pronti a governare». E l’assemblea si scioglie cantando a squarciagola «Power to the people», potere al popolo.

Corriere 28.9.17
Ken Loach
«La rabbia degli esclusi alimenta il populismo
Sto con l’amico Jeremy: rifonderà la sinistra»
di Luigi Ippolito

Brighton Un signore anziano con gli occhiali, un po’ curvo nelle spalle, si aggira per il congresso: prova a entrare nella sala dei dibattiti, lo fermano per chiedergli il «pass». Lui farfuglia qualcosa, si scusa, fruga in una tasca e tira fuori il tesserino con la foto: è Ken Loach, il grade regista cinematografico ormai 81enne, il cantore dell’epopea della classe operaia britannica. Qualcuno lo riconosce e ne approfitta per un selfie , mentre lui non si sottrae a una chiacchierata improvvista.
Mr Loach, lei ha partecipato alla campagna laburista, ha fatto anche dei film a suo sostegno. Come sarà la Gran Bretagna proposta da Jeremy Corbyn?
«Sarà un Paese che si opporrà al potere delle corporations , che restituirà i servizi chiave come i trasporti, il gas, l’acqua, l’elettricità alla proprietà pubblica. Sarà un vero allontanarsi dal neoliberismo verso un’agenda socialista radicale. Se Corbyn porta in Parlamento gente votata a questo programma, ci sarà un grande slittamento dal programma neoliberale in tutta Europa».
Ma in un mondo dominato dai mercati finanziari internazionali, è possibile un’agenda socialista radicale nella sola Gran Bretagna?
«Non solo è possibile, ma è necessario. C’è una grande rabbia fra la gente, in tutto il Continente, contro ciò che il neoliberismo ha prodotto: ma questa rabbia emerge come sostegno per l’estrema destra. Dobbiamo invece fare in modo che sia indirizzata costruttivamente, non verso lo sciovinismo».
In effetti questo scontento ha alimentato i populismi, ha prodotto Trump e la Brexit...
«Attenzione, con la Brexit è diverso. La maggioranza di chi ha votato per uscire dalla Ue erano conservatori».
Ma tanti nella classe operaia hanno votato contro l’Europa...
«Non esageriamo, un terzo dei voti per uscire erano ex laburisti ma due terzi erano conservatori di destra. Quello che è accaduto in Europa è comunque dovuto al fallimento di personaggi come Hollande o Blair: la socialdemocrazia si è legata agli interessi del grande business . Abbiamo bisogno di programmi sociali più radicali: solo allora la gente sosterrà la sinistra».
Dunque secondo lei la crescita dei movimenti populisti di destra è imputabile al fallimento della socialdemocrazia?
«Assolutamente sì: guardiamo a cosa era accaduto in Germania prima della guerra, dove il fallimento della socialdemocrazia aprì la strada al fascismo».
Ma nel voto per la Brexit c’era anche il risentimento verso gli immigrati.
«La gente è in realtà preoccupata per il lavoro, la casa, la sanità, le scuole: non c’è un’impennata del razzismo. Certo, alla gente non piace se qualcuno viene a fare il loro lavoro per una paga inferiore, è inevitabile. Corbyn insisterà che tutti siano pagati allo stesso modo, così che gli immigrati non danneggino i lavoratori. In questo modo rimuovi le cause del risentimento».
E di Corbyn come persona cosa dice?
«È un amico, lo conosco da molti anni: è una persona normale, non accecata dal suo ego. Uno con cui prendere una tazza di tè. Per questo ispira affetto tra la gente comune».
E soprattutto fra i giovani.
«Certo, perché sono disgustati sia dai conservatorie che dal vecchio Labour di Blair».
Accetterebbe di fare il ministro della Cultura in un governo laburista?
«Ma no, c’è bisogno di qualcuno più giovane, io sono solo un militante di base...».
E qual è allora il ruolo di un intellettuale come lei?
«Il ruolo di persone come me è di richiamare il Labour ai principi. Si possono fare aggiustamenti tattici, ma questi sono i principi a cui bisogna aderire. Questo è il ruolo di noi intellettuali: e anche di voi giornalisti».

Repubblica 28.9.17
Corbyn e la sfida di un centro che si sposta verso sinistra
di Enrico Franceschini

BRIGHTON LE ELEZIONI si vincono stando al centro, predicava un tempo Tony Blair e dopo di lui lo hanno ripetuto tanti leader. «Ma il centro non è un punto immobile, si sposta con i bisogni e le aspettative della gente», afferma Jeremy Corbyn. «Non è più dov’era 20-30 anni or sono. Dopo il crollo finanziario del 2008 e un decennio di austerità, il centro siamo noi». Cioè il suo Labour, passato dal riformismo blairiano a un «socialismo progressista del ventunesimo secolo», con cui aspira a rimpiazzare «il fallimentare dogma neoliberista della Thatcher».
È il messaggio più importante che il leader laburista lancia nel suo discorso al congresso annuale del partito a Brighton. A lungo percepito come troppo radicale per poter governare la Gran Bretagna, Corbyn sostiene che il Labour, in un mondo di crescente diseguaglianza, è diventato il “mainstream”, la corrente principale, dunque in grado di vincere. Non a caso l’Economist di questa settimana gli dedica la copertina, predicendo che potrebbe diventare primo ministro, se la fragile coalizione messa insieme dai conservatori di Theresa May, indebolita anche dalle faide intestine sulla Brexit, non durerà a lungo.
Proprio sulla Brexit, Corbyn dice un’altra cosa degna di nota: «Siamo l’unico partito in grado di unire chi ha votato per uscire dalla Ue e chi ha votato per restarci». La sua linea accusata finora di ambiguità, accettare il risultato del referendum ma negoziare con l’Europa un rapporto più stretto di quello che vuole il governo May, potrebbe effettivamente mettere d’accordo gli uni e gli altri, specie se l’economia nazionale, come sta accadendo, continuerà a rallentare. Il 67enne leader laburista fa tante altre promesse: investimenti pubblici, aumenti salariali, nazionalizzazioni, il tutto da finanziare facendo pagare «un po’ più tasse a ricchi e corporation »; e una politica estera basata su «pace e diritti umani», per dire all’America, in virtù della loro «relazione speciale», che la via imboccata da Trump «è sbagliata».
Nella sala del congresso, il clima è di festa: battimani, cori, perfino auguri di compleanno a una deputata. Ma il festeggiato è lui, a cui come minimo va il merito di avere fatto crescere voti e seggi alle elezioni di giugno, suscitando l’entusiasmo dei militanti. Si vedrà se diventerà davvero premier, ma di sicuro il suo Labour è oggi effervescente e in ascesa, ciò che non si può dire dei partiti di sinistra nel resto d’Europa, come confermano le recenti votazioni in Germania e in Francia. Alla fine tutti i delegati cantano con lui a pugno chiuso “Red Flag”, Bandiera Rossa, vecchio inno laburista: buono per sognare un futuro migliore con il «socialismo del ventunesimo secolo».

Corriere 28.9.17
Cercas: «Si rompe così la mia Spagna»
«Stiamo vivendo i momenti più tesi, difficili e pericolosi della democrazia»
Lo scrittore Javier Cercas è preoccupato dalla crisi catalana: «Il mio Paese si sta rompendo».
di Andrea Nicastro

BARCELLONA Nel 1981 il tenente colonnello Antonio Tejero tentò di soffocare la giovane democrazia spagnola per restituire il potere ai militari. Il golpe fallì e la Spagna entrò in Europa per il suo periodo di maggior prosperità da sempre. Javier Cercas studiò per anni quel colpo di Stato per poi raccontarlo nel suo libro più celebre: «Anatomia di un istante». Fuse psicologia di massa e ricerca storica, cronaca e letteratura. Mette i brividi sentire proprio lui, scrittore catalano, usare parole pesantissime per accendere tutti i segnali d’allarme.
«Stiamo vivendo i momenti più tesi, difficili e pericolosi della democrazia. Con enorme irresponsabilità i politici hanno creato le condizioni perché la società si rompa. Viviamo nervosi, scomodi, insicuri. Abbiamo già visto un clima simile nel 1934 e si arrivò alla Guerra Civile. Abbiamo l’obbligo di impedire che succeda di nuovo. George Bernard Shaw diceva: “L’unica cosa che si impara dall’esperienza è che l’esperienza non insegna nulla”. Oggi non possiamo permetterci di non sapere e non ricordare».
Per il referendum indipendentista di domenica non c’è stata neppure una sbucciatura. Perché è così allarmato?
«Perché si è ribaltato completamente l’ordinamento giuridico catalano, senza passare attraverso la legge. Come si chiama questo in italiano?»
Colpo di Stato?
«Esatto. Un golpe ben fatto perché senza violenza, ma sempre un golpe. È un attacco alla democrazia in nome della democrazia, che spende denaro pubblico contro le autorità pubbliche. Paradossi per nulla innocui. In democrazia la forma è sostanza e il fine non giustifica i mezzi».
Nei palazzi del potere catalano si sostiene il contrario: che anti democratico sia il governo spagnolo.
«I nazionalisti hanno di sicuro vinto la battaglia propagandistica. Ho letto un tweet di Edward Snowden che appoggiava l’indipendentismo. Proprio lui, un uomo che ammiro. Lo giustifico perché vive in Russia e non avrà potuto informarsi. Ma anche in Europa ci si ferma in superficie».
Vada in profondità, allora.
«Il 6 e l’8 settembre si sono tenute due sessioni nel Parlament di Catalogna del tutto irregolari, con l’opposizione fuori dall’aula per protesta. E si sono approvate due leggi: quella per il referendum e quella cosiddetta della “disconnessione” dalla Spagna, che gli stessi giuristi del Parlament di Barcellona dichiararono contrarie allo Statuto catalano, alla Costituzione spagnola e alla legge internazionale».
Madrid avrebbe permesso la consultazione?
«Anche se nessuna Costituzione democratica prevede la secessione, la domanda indipendentista resta a mio avviso legittima. Quel che non si può mai fare, mai, è calpestare la Legge anche se per rispondere a un sentimento degno. Si calpesta la democrazia e, quando saltano le regole, qualunque cosa può accadere».
L’ex giudice Baltasar Garzón dice che la Procura generale spagnola sta esagerando.
«Possibile, non so. Di certo i governi spagnoli hanno commesso moltissimi errori, ma nessuno giustifica il golpe della Generalitat . Un esempio: i repubblicani nel ’36 commisero un’infinità di errori politici, ma il colpo di Stato violento che seguì resta un’aberrazione. E poi vediamo la realtà: neanche il governo catalano ha voluto negoziare perché sedersi al tavolo e risolvere il problema con un compromesso significherebbe perdere potere».
Perché?
«L’immagine che lega questa crisi all’ascesa del populismo in tutta Europa è del 2011. L’allora President catalano Artur Mas si trovava assediato dalla folla inferocita per la sua politica di tagli e sacrifici. Dovette entrare nel Parlament con l’elicottero. Fu uno choc, ma invece di assumersi la responsabilità di scelte impopolari, decisero di dare tutte le colpe a Madrid e vagheggiare il paradiso dell'indipendenza. È un procedimento tipico del populismo: la colpa non è mai nostra, ma di qualcun altro. In questo caso della Madrid ladrona, come avreste detto in Italia».
C’è una soluzione democratica a questa crisi?
«L’hanno già trovata nel Québec canadese. Bisogna costruire un procedimento lento, com’è lenta la democrazia, e aprire una via legale».
In un voto legale lei sarebbe per la secessione?
«Esattamente come se fossi lombardo mi separerei dalla Sicilia o se fossi finlandese da quegli europei del Sud che cantano e non lavorano. Non scherziamo, sarebbe tremendamente ingiusto e anche pericoloso. Io sono democratico, europeista e di sinistra, non nazionalista. L’Europa è l’unica grande utopia realistica che abbiamo inventato. Miglioriamola in senso federale, ma teniamocela stretta, altrimenti ricominceremo a farci la guerra tra noi».

Il Fatto 28.9.17
“Indipendentismo legittimo, ma il referendum è illegale”
Lo scrittore spagnolo contesta i metodi scelti dal governo catalano. “Madrid ha il diritto di impedire la consultazione unilaterale”
di Elena Marisol Brandolini

Javier Cercas, lei ha firmato un manifesto di intellettuali progressisti che definisce il referendum una “truffa anti-democratica”, che pensa di ciò che sta succedendo?
Sono molto preoccupato, quello che sta accadendo è una conseguenza degli ultimi anni e delle leggi approvate venti giorni dal Parlamento catalano: quella sulla transitorietà giuridica, votata senza discussione né garanzie, con l’opposizione fuori del Parlamento, sospende di fatto lo Statuto della Catalogna, propone una separazione dalla Spagna derogando alla Costituzione e violando la legalità internazionale, perché propone una nuova Costituzione e usa il referendum a tal fine.
La risposta del governo spagnolo è proporzionale all’illegalità che lei riscontra nel referendum unilaterale?
Non so se è proporzionale, ma so che ci sono alcune cose non vere. Per esempio, chi ha ordinato la detenzione delle persone al dipartimento economico non è stato il governo ma un giudice e sono state detenute perché erano lo stato maggiore dell’organizzazione di questo atto illegale che vuole imporre una nuova legalità in Catalogna. Lo stato di diritto ha l’obbligo di impedire che ciò si verifichi. Nel ’36 quando ci fu il colpo di Stato di Franco, il governo spagnolo aveva commesso molti errori, ma io sto con quel governo spagnolo, con la Repubblica, non con quelli che volevano violare la legalità di allora. Sto con lo stato di diritto, perché in democrazia la forma è sostanza. La causa dell’indipendentismo è totalmente legittima ma deve difendersi nel quadro giuridico democratico, quello che non si può fare è violare la democrazia in nome della democrazia.
Se ci fosse un referendum concordato con lo Stato lei sarebbe d’accordo?
Certamente, sono contrario a un referendum unilaterale che viola le leggi catalana e spagnola. Oltre tutto non è neppure un referendum, perché un referendum ha un censo, qui non c’è una campagna elettorale per il No e il Sì. E poi si è mitizzato il valore democratico del referendum, perché ci sono referendum democratici e alcuni che non lo sono, quelli senza garanzie non sono democratici.
Non sarebbe auspicabile risolvere i problemi politici con la politica?
Certo, si deve creare un meccanismo che permetta in determinate circostanze la convocazione di un referendum, ossia aprire una via legale che renda possibile che se i catalani vogliono rendersi indipendenti possano farlo, come nella Legge di Chiarezza canadese. Sono per il rispetto delle procedure democratiche, no a fare le cose rompendo tutto. E lo Stato non poteva che difendere lo Stato di diritto, se alcune delle cose che hanno fatto sono illegali le condanno. Abbiamo l’obbligo di trovare una soluzione pattuita, ma ora siamo in una situazione estrema.
Com’è la società catalana?
È una società complessa, plurale, dove ci sono conflitti sociali come ovunque. È un paese con la sua cultura e la sua lingua. In questo momento è una società divisa, non ancora spaccata. E ciò che sta succedendo è una conseguenza della crisi economica. Siamo in Europa, perciò non credo che sia una buona idea l’indipendenza della Catalogna, perchè io credo nel progetto europeo, l’Europa unita è l’unica utopia ragionevole che si sono inventati gli europei. È sbagliato cominciare con l’uscire per poi ri-entrare.
Nei suoi romanzi è sempre attento alla ricerca delle cause che incidono sulle scelte individuali. Applicando questo criterio al caso catalano che ci può dire?
C’è sempre stata una certa percentuale di indipendentisti in Catalogna, quello che è cambiato è che la destra catalana, ossia il nazionalismo governante ha optato per l’indipendentismo e questo ha fatto sì che oggi ci sia un 47% di indipendentisti nel Parlamento catalano. E senza dubbio il fattore dirompente è stato la crisi economica. Io non credo che quello che è successo con la sentenza del TC sullo Statuto sia stato determinante, quello è stato un elemento. Ma la crescita dell’indipendentismo si è avuta quando in Catalogna la protesta passò dall’essere contro il governo catalano alla protesta contro il governo spagnolo guidata dal governo catalano. E credo che con un governo socialista le cose non sarebbero andate molto diversamente.
Se lei dovesse fare l’anatomia di un altro istante, quale sarebbe in questo caso?
Non lo so, sono molti. Adesso non possiamo capire quello che sta succedendo, vi è un grande polverone che non ci permette di vedere. Abbiamo bisogno di un po’ di distanza.
Come va a finire?
Non sono ottimista, ma penso che abbiamo l’obbligo di trovare una soluzione. Non credo che arriverà da qui a lunedì, mi sembra che siamo in una situazione irreversibile.
Nei momenti difficili si dice sempre che la letteratura può aiutarci…
La letteratura aiuta sempre. Non possiamo capire la realtà senza la letteratura. La letteratura non è come il giornalismo, la sua modalità di conoscenza è differente.

Corriere 28.9.17
Vittoria per la Palestina «riconosciuta» dall’Interpol

La Palestina entra come Stato membro nell’organizzazione di polizia internazionale, l’Interpol: l’ha deciso l’assemblea riunita ieri a Pechino. Una vittoria diplomatica per l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen e una sconfitta per Israele di Benjamin Netanyahu, che fino all’ultimo, insieme agli Usa, ha cercato di evitare il voto.

Repubblica 28.9.17
Matthias Brandt, figlio del cancelliere della Ostpolitik: “Ignorano il passato”
“C’è una destra irrazionale che minaccia il mio Paese”
Ragazzini che fanno il saluto hitleriano: è il segno che non hanno prospettive
intervista di Roberto Brunelli

BERLINO. Matthias Brandt stringe gli occhi mentre parla. Perché è un timido. Eppure è uno degli attori più famosi della Germania. Regolarmente sugli schermi nei panni del commissario Hanns von Meuffels, la critica lo osanna, il pubblico lo adora, anche perché ha accettato spesso ruoli ai limiti dell’impossibile. Tra cui quello di Günter Guillaume, la spia dell’Est che travolse la carriera politica di suo padre, Willy Brandt. Perché Matthias è figlio del cancelliere della Ostpolitik, icona della socialdemocrazia europea. Quando parliamo, l’ultra- destra dell’Afd ha già fatto il suo ingresso nel Bundestag.
La paura è uno dei ferri del suo mestiere. Con questo voto la paura è tornato ad essere un tema centrale in Germania… «La paura è onnipresente nella psiche di questo Paese. Il risultato di queste elezioni poggia chiaramente sulla paura. Anche se c’è un elemento di irrazionalità, l’esito non cambia. Infatti, io penso che queste paure non siano state prese abbastanza sul serio. E quando vedo la rabbia dei quindicenni che fanno il saluto hitleriano, allora sì, penso che la cosa mi riguarda ancora di più. È una cosa che ha molto a che vedere con l’assenza di prospettive, soprattutto all’Est».
Lei accettò di recitare in un film su suo padre. Ma interpretò Guillaume, la spia della Ddr a causa del quale suo padre dovette dimettersi. Perché?
«Lo so anch’io che era una scelta bizzarra. All’inizio non dovevo nemmeno recitare: avevo ripetuto che era assolutamente escluso che io vi potessi avere una parte. Ma quando mi chiesero, per gioco, quale ruolo avrei scelto, risposi Guillaume: perché è il personaggio di cui in assoluto so meno. Da bambino ovviamente l’avevo conosciuto, ma per me non era nient’altro che una foto, quella in cui sbircia da sopra la spalla di mio padre. Poi, certo, mi ha sempre appassionato la figura dello spione: la doppia esistenza, l’avere due forme di lealtà, era leale verso mio padre quanto lo era nei confronti del suo committente, la Ddr. Una costellazione di elementi increbibile per un attore».
In questi giorni il nome di Brandt si sente spesso.
«Ho sempre vissuto abbastanza bene con la dimensione pubblica della sua figura: certo, ho avuto anche la fase della ribellione, ma molto presto ho capito che avevo a disposizione uno straordinario materiale umano per il mio lavoro, e col tempo il mio sguardo su di lui è diventato più tenero e amorevole. La sua importanza politica non è mai stata in discussione. Oggi nell’Afd c’è chi dice “dobbiamo essere orgogliosi di quello che hanno fatto i soldati tedeschi durante la guerra mondiale”. Di fronte a questo io posso solo dire che non sono affatto orgoglioso di chi ha condotto una guerra di annientamento. Conosco tante persone che hanno sofferto molto perché avevano genitori complici del nazismo. Io invece so bene dove stava mio padre. E per questo gli sarò grato per sempre».

Corriere 28.9.17
E la Spd punta su Andrea Nahles «Una donna per ripulire macerie»
di E. Teb.

Berlino Per la prima volta in 154 anni di storia il Partito socialdemocratico tedesco (Spd) ha una donna capogruppo in Parlamento: Andrea Nahles, 47 anni, finora ministra del Lavoro, è stata scelta ieri con 137 voti favorevoli e 14 contrari per guidare i deputati al Bundestag. Diventa così la figura più potente della Spd. E la Germania il primo Paese in cui capo del governo — Merkel — e dell’opposizione sono donne. Le due sono state spesso paragonate per aver seppellito i loro padri politici: Merkel Helmut Kohl, Nahles Franz Müntefering, che costrinse alle dimissioni dopo la sconfitta elettorale del 2005. Ieri la Süddeutsche Zeitung le ha definite «Trümmerfrauen», termine usato per le donne che nel Dopoguerra hanno raccolto le macerie delle città distrutte: entrambe chiamate a risollevare i rispettivi partiti quando l’ultimo uomo aveva fallito. A lungo ribelle, Nahles è poi diventata centrista e da ministra ha approvato la legge sul minimo sindacale. Separata, ha una figlia di 7 anni che vive con il padre nelle campagne dell’Eifel.

La Stampa 28.9.17
Quando è legittimo resistere al potere
Una riflessione che torna d’attualità di fronte a giri di vite autoritari come in Venezuela e in Turchia: finito il tempo dei monarcomachi resta valido il principio per cui è giusto e doveroso opporsi ai tiranni
di Alberto Mingardi

«Sic semper tyrannis». Così Bruto liberava Roma dall’ambizione di Cesare, l’uomo che stava per sovvertire la repubblica. Ripeté le stesse parole l’attore John Wilkes Booth mentre sparava, a guerra civile conclusa, a Abraham Lincoln, un signore in cravatta e panciotto nel suo palco a teatro.
Quant’è sottile la linea che separa il tirannicidio dall’assassinio comune. È il destino del vocabolario politico, fatto di parole stentoree e flessibili quant’altre mai. La Costituzione sovietica del ’36 garantiva il suffragio universale diretto, ma gli elettori potevano votare solo il Partito comunista. L’Urss si dichiarava «protettrice della libertà dei popoli»: quella libertà poteva coincidere soltanto con l’allineamento ai desideri di Mosca. La Dichiarazione del 1789 inserisce tra i «diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo» la libertà, la proprietà, la sicurezza e «la resistenza all’oppressione». Quattro anni dopo, la Francia sarà teatro di un’oppressione che non ammetteva resistenza.
I diritti inalienabili
Ogni tanto, però, dobbiamo provare a pensare più chiaro. Pensiamo solo alle intermittenti notizie che arrivano dal Venezuela o alle ombre che si allungano sulla Turchia di Erdogan. Maduro trattiene in carcere 114 prigionieri politici. A Caracas i procuratori che indagano sui brogli elettorali sono costretti alle dimissioni, a Istanbul gli avvocati che difendono gli insegnanti arrestati dopo il presunto golpe finiscono in galera anch’essi.
Dove comincia la tirannia, quand’è che la resistenza diventa legittima?
Nella Dichiarazione d’Indipendenza americana (1776) si legge che il governo è istituito allo scopo di garantire i diritti inalienabili alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Proprio per questo «ogni qual volta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo» e crearne uno nuovo. È quel che fecero i Padri fondatori. Ma, per quanto conoscessero a menadito il pensiero politico classico e moderno, la loro ribellione avveniva su uno sfondo chiaro. Ciò che riusciva intollerabile era che la Corona si rifiutasse di trattarli come i loro cugini inglesi. Paragonavano le concrete condizioni di libertà di cui godevano nelle colonie (inclusa la libertà di commerciare) a quelle della madrepatria. La resistenza avveniva in nome di diritti considerati parte di un ordine giusto e possibile, dal quale era Londra ad averli esclusi.
La ribellione serviva per ripristinare, non per sabotare, il diritto. Nel suo Policraticus (1159) Giovanni di Salisbury scrive che «chiunque non agisca contro [il tiranno] tradisce sé stesso e tutto il corpo di leggi della repubblica terrena». Giovanni aveva una visione organicistica delle istituzioni pubbliche, «una specie di corpo che vive per concessione divina, agisce sotto lo stimolo della suprema equità ed è retto dalla guida della ragione». In presenza di un capo tirannico, la rivolta era un meccanismo antibiotico.
Una legge più grande
Quando la High Court costituita dal Corto Parlamento condanna a morte Carlo I (1649), è un avvocato puritano, John Cooke, a produrre le prove contro un re colpevole di opprimere i suoi sudditi. Il procedimento legale a carico del sovrano, sostiene George Robertson nel suo The Tyrannicide Brief (2005), gettò le basi per i moderni processi internazionali a Milosevic o Saddam Hussein. Come in quei casi, si può sospettare che il verdetto fosse già scritto. Però guai a sottovalutarne il valore simbolico. Nella forma del dibattimento, nel ricorso a un tribunale, diventa evidente che la liberazione dal tiranno è riaffermazione di un ordine giuridico contro il suo sabotatore.
Ciò che rende legittima la resistenza a un potere è la credenza diffusa in una legge più grande: il diritto naturale, che sovrasta le nazioni e i Parlamenti. Il capostipite del giusnaturalismo liberale, John Locke (1690), parla di «appello al cielo». Per Locke, la libertà è di per sé il contrario della tirannide: è «libertà dal potere assoluto e arbitrario», non «sottoposta ad altro potere legislativo che quello stabilito per consenso».
Lo Stato ha un compito ben definito: dirimere le controversie che possono emergere tra le persone. Quando però la controversia è tra un popolo «privato del proprio diritto» e chi esercita «un potere destituito di diritto», non c’è magistrato a cui potersi rivolgere. Bisogna «appellarsi al cielo»: la ribellione ai tiranni è obbedienza a Dio, o perlomeno a quella legge naturale che come Dio è superiore alle bassezze dei mortali.
Prima di Locke, erano stati i «monarcomachi» a teorizzare il diritto di resistenza. Per la maggior parte di costoro, tuttavia, il tirannicidio era accettabile solo se a impugnare il pugnale era un’autorità di rango inferiore. Un gesuita spagnolo, Juan de Mariana, nel De rege (1599), aveva invece teorizzato il tirannicidio per iniziativa privata. Se gli uomini saggi del regno comprendono che la condotta del re è contraria all’interesse pubblico e al diritto di natura, è ammissibile detronizzarlo.
Che rimane, di tutto questo, in un tempo secolarizzato, in cui Dio è solo un’ombra lontana, figurarsi le sue leggi? C’è sempre il rischio che si abusi del diritto di resistenza, per occultare la violenza privata. Il principio per cui ci si deve opporre a un potere ingiusto, però, è al cuore di tutti i nostri tentativi di costruire un potere meno arbitrario, più prevedibile: per esempio attraverso una Costituzione.
Chi attenta alla libertà
Rimane allora l’idea che esistono «condizioni della libertà» che è possibile comprendere come tali, perché ne abbiamo esperienza. Che chi utilizza il proprio potere per erodere queste «condizioni della libertà», per imprigionare chi la pensa diversamente, per spossessare gli oppositori politici, si pone al di fuori di qualsiasi concetto di giustizia. Quando questo avviene, significa che il potere si è liberato di ogni vincolo.
Forse, invece, ci sono cose che proprio nessuno dovrebbe poter fare: anche se non crediamo più che offendano, anzitutto, il volere di Dio. Non deve poterle fare nemmeno se invoca la benedizione di idoli terreni come Fidel Castro o Hugo Chávez.

Repubblica 28.9.17
M’inginocchio per un’America migliore
di Eric Reid

Contro il razzismo e contro Trump. Il giocatore che un anno fa lanciò la protesta durante l’inno spiega le ragioni del suo gesto, ormai virale
AGLI inizi del 2016 ho cominciato a prestare attenzione ai resoconti che parlavano dell’incredibile numero di persone di colore disarmate che venivano uccise dalla polizia. Uno in particolare mi fece addirittura piangere: riguardava l’uccisione di Alton Sterling a Baton Rouge, in Lousiana, la mia città natale. Sarebbe potuto accadere a uno qualsiasi dei miei familiari.
Ero furioso, mi sentivo ferito e scoraggiato. Desideravo fare qualcosa, ma non sapevo cosa né come. Sapevo soltanto che volevo fosse un gesto il più possibile rispettoso.
Poche settimane più tardi, durante la fase di precampionato, il mio compagno di squadra Colin Kaepernick decise di sedersi in panchina durante l’esecuzione dell’inno nazionale, in segno di protesta contro la condotta violenta della polizia. Lì per lì a dire il vero non me ne accorsi, e nemmeno la stampa ci fece caso. Fu solo dopo la nostra terza partita di precampionato, il ventisei agosto del 2016, che questa protesta iniziò a richiamare attenzione a livello nazionale, scatenando una reazione nei confronti di Colin. Il sabato prima della partita successiva mi avvicinai al mio compagno per discutere di come avrei potuto prendere parte alla dimostrazione e di come questa avrebbe potuto avere un impatto più efficace e positivo sul movimento per la giustizia sociale. Giungemmo alla conclusione che durante l’inno anziché sederci ci saremmo inginocchiati.
Scegliemmo di inginocchiarci perché è un gesto rispettoso. Ricordo di aver pensato che la nostra scelta era paragonabile a una bandiera che sventola a mezz’asta quando si verifica una tragedia.
Mi stupisce che la nostra protesta sia ancora, erroneamente, vista come una mancanza di rispetto nei confronti del Paese, della bandiera e del personale militare. Abbiamo scelto quel gesto perché è esattamente l’opposto. Ho sempre pensato che gli uomini e le donne che con coraggio hanno combattuto e sono morti per il nostro Paese lo avessero fatto per garantirci la possibilità di vivere in una società giusta e libera, e che tale definizione include il diritto di potersi esprimere in segno di protesta. Non trovo parole adatte ad esprimere la tristezza che provo di fronte alle accuse diffamatorie di cui Colin, una persona che ha contribuito a creare il movimento a partire solo dalle migliori intenzioni, è fatto continuamente bersaglio. Chiunque conosca i rudimenti del football sa che il suo allontanamento non ha nulla a che fare con le sue prestazioni in campo. È una vergogna. So che prendendo parte a questo movimento rischio che la mia carriera segua le sorti di quella di Colin. Ma, per citare Martin Luther King, “arriva il momento in cui il silenzio equivale a un tradimento”. E ho scelto di non tradire gli oppressi.
Sappiamo che il razzismo e i privilegi riservati ai bianchi sono più vivi che mai. E che il presidente Trump abbia rivolto a noi delle offese e definito invece “ottime persone” i neonazisti di Charlottesville, in Virginia, ci scoraggia e ci fa infuriare. I suoi commenti rappresentano un evidente tentativo di inasprire la frattura che abbiamo cercato in ogni modo di ricomporre. Tuttavia, trovo incoraggiante notare come i miei colleghi e altri personaggi pubblici reagiscono ai commenti del presidente con manifestazioni di solidarietà nei nostri confronti.
Riuscire a mantenere il controllo sulla storia della nascita del nostro movimento è importantissimo. Vogliamo l’uguaglianza per tutti gli americani, senza distinzioni di razza e di genere. Ciò di cui adesso abbiamo bisogno sono i numeri: abbiamo bisogno che più americani si schierino dalla nostra parte.
Mi rifiuto di essere una di quelle persone che assistono alle ingiustizie senza fare nulla. Voglio essere un uomo di cui i miei figli possano essere orgogliosi, che tra cinquant’anni sarà ricordato per essersi battuto per ciò che è giusto, anche quando non era l’opzione più facile o più popolare.
© 2017 The New York Times (Traduzione di Marzia Porta) L’autore è un giocatore dei San Francisco 49ers

Repubblica 28.9.17
Sognando Itaca
“Grazie, papà insieme a te ho capito chi era Ulisse”
Lo scrittore Daniel Mendelsohn racconta il suo nuovo libro, nato dalle speciali lezioni sull’Odissea e da un ultimo viaggio condiviso con il padre Jay
di Antonio Monda

NEW YORK La festa per il lancio del nuovo, attesissimo libro di Daniel Mendelsohn, intitolato “An Odyssey”, è stata organizzata in una di quelle splendide case sulla Riverside Drive che affacciano sul fiume Hudson. Uno di quegli appartamenti dove domina l’understatement, ma poi, all’improvviso, ti rendi conto che uno dei quadri alle pareti è un Matisse e poco distante c’è uno Chagall. Lo scrittore accoglie gli ospiti con un’affabilità squisita, nella quale trapela un’educazione antica e una leggera emozione. Un signore si congratula con Mendelsohn per la recensione uscita su Publishers Weekly, che definisce il libro “una gemma”, e lui, dopo essersi schermito socchiudendo gli occhi, gli presenta la madre Marlene. Compare anche lei nel libro, del quale è protagonista il padre Jay, morto da due anni. Lo scrittore ne parla solo in relazione alla vicenda raccontata nel libro: un giorno, improvvisamente, chiese al figlio di poter assistere alle lezioni sull’Odissea che Mendelsohn tiene al Bard College. Dopo un momento di sorpresa, lo scrittore accolse il padre ottantunenne in classe con gli studenti. Jay cominciò a fare tre ore di viaggio da Long Island appositamente per seguire i corsi, e poi, una volta in classe, iniziò a contrastare apertamente le tesi del figlio: le lezioni, che avevano già da tempo lo status di culto, acquisirono da quel momento un elemento nuovo, intimo e rivelatorio. Il rapporto padre-figlio del testo di Omero divenne il riferimento immediato per quello che stava avvenendo in classe, e alla fine del semestre i due Mendelsohn decisero di intraprendere un viaggio che ripercorreva quello di Ulisse. Questa vicenda è diventata l’argomento di un libro struggente e importante. Itaca, nel percorso dei due Mendelsohn, non verrà mai raggiunta. «Il viaggio è importante quanto la meta, non sono io il primo ad averlo detto» racconta l’autore. «In qualche modo quel luogo non raggiunto lascia la storia aperta, e questo non mi procura tristezza, anzi: ritorno e nostalgia hanno la stessa radice, nostos ».
Qual è il motivo che l’ha spinta a scrivere il libro?
«La necessità di conoscere mio padre. Il libro è una doppia biografia: di Ulisse e di Jay Mendelsohn. Quando cominciò a seguire i miei corsi non potevo immaginare che dopo il viaggio nel Mediterraneo avesse pochi mesi da vivere».
Di cosa parla nel profondo il suo libro?
«Di quello che impariamo dagli altri e di quello che degli altri non riusciremo mai a capire».
Suo padre cerca di convincerla che Ulisse non era un vero eroe perché mentiva e tradiva la moglie.
«Ogni volta che interveniva in classe pensavo: “questo è un incubo”. Ma poi ogni suo intervento mi faceva capire qualcosa in più di lui e dell’Odissea. Mio padre imputava a Ulisse anche altre debolezze, oltre alla spregiudicatezza: il fatto di essere un leader che perde tutti i suoi uomini e di essere aiutato dagli dei. In fondo, diceva, gli unici suoi successi erano dovuti ad aiuti esterni, e questo per lui era inconcepibile».
Quanto ha pesato il fatto che suo padre fosse ateo?
«Moltissimo, la debolezza che per i credenti è un aspetto centrale dell’umanità, e persino motivo di orgoglio, per lui era invece un elemento di miseria. Lo sguardo è antitetico a quello del sottoscritto, credente, o a quello di mia madre, molto religiosa».
Il libro è una celebrazione dell’amore coniugale tra Ulisse e Penelope, ma anche tra i suoi genitori.
«È un amore che sopravvive a tante vicissitudini e in qualche modo ne è rafforzato. È una forza eterna che nasce dalla debolezza, ma sta parlando ancora uno spirito religioso».
Suo padre era un matematico ed esaminava ogni cosa scientificamente. Lei è un classicista.
«Questo elemento lo affascinava, proprio perché distante dal suo sguardo sul mondo. Quando ero piccolo, era sconcertato che non avessi un approccio razionale e scientifico alla vita, ma poi è stato lui a fare un passo verso di me. E, come disse una volta, non è mai troppo tardi per imparare ».
Dove nascono la durezza e la visione cupa del mondo in cui credeva suo padre?
«Dall’esperienza al fronte nella seconda guerra mondiale e da una vita difficile, nella quale la scienza e la razionalità apparivano l’unico sollievo, in qualche modo la divinità».
Lei è un critico severo, a volte spietato: il tono tenero del libro è sorprendente.
«Lo ammetto: mentre lo scrivevo ha sorpreso anche me: non si smette mai di imparare».
Nel libro si chiede: qual è la vera identità dell’uomo? E quante identità ha ogni uomo?
«Non ho trovato una risposta e ho solo imparato che mio padre, come tutti, ne aveva tante: l’ho capito anche quando abbiamo parlato della mia omosessualità, che lui e mia madre hanno vissuto con assoluta normalità».
Cosa ha imparato da questa esperienza con suo padre?
«La sua intima e nascosta tenerezza. Ho imparato che non lo conoscevo bene: ignoravo i suoi aneliti, le speranze, le insicurezze. E ho appreso quanto poco sappiamo dei nostri genitori e dell’amore ».
È riuscito ad apprezzare quello che lui definiva la “dimensione estetica della matematica”?
«Nella misura in cui un cieco comprende la bellezza di un fiore e ne intuisce la purezza».
Cita Seferis: “la prima cosa che Dio ha creato è l’amore”.
«Una poesia immortale. Ma quel verso è da mettere insieme a uno successivo: “la prima cosa che Dio ha creato è il viaggio”. Come è possibile che Dio abbia creato due prime cose? La risposta è nella divinità e poi nel fatto che chi parla è un poeta. Se ci pensa, le due creazioni sono l’essenza della stessa Odissea ».
Si può definire il suo libro la storia dell’educazione di un figlio?
«Le rispondo che ammetto di essermi identificato con Telemaco ».


Repubblica 28.9.17
Mario Bortolotto i labirinti del musicologo geniale
di Antonio Gnoli

Il più grande musicologo che l’Italia abbia avuto, questo è stato in primis Mario Bortolotto: bon vivant, scrittore raffinatissimo, conversatore brillante. Dotato di un estro sublime e irsuto; privo di quelle diplomazie accademiche che hanno reso il mondo della critica qualcosa di prevedibile e di noioso. Bortolotto, morto ieri a Roma, era nato a Pordenone, provincia oggi attiva e prospera, allora incline a una certa depressione. Aveva compiuto 90 anni qualche settimana fa, il 30 agosto. Andai a trovarlo nella sua casa di Trastevere. Lo vidi più magro e più insofferente. Ma alla fine sempre lui: riconoscibile in quella totale assenza di autoreferenzialità (i veri grandi non ne hanno bisogno perché sono gli altri a girargli intorno)
che lo spingeva a rompere ordini e gerarchie prestabilite.
Forse è per questo che Bortolotto non sopportava il mondo della critica musicale tranne alcune eccezioni italiane: Fedele D’Amico e Giorgio Vigolo e soprattutto Adorno, che aveva conosciuto negli anni di Darmstadt, seguito nei suoi percorsi musicali, tradotto faticosamente nel libro dedicato a Wagner e accompagnato durante un viaggio in Italia. Si recarono insieme in Sicilia. Adorno era stato invitato a tenere una conferenza a Palermo per la settimana della musica. Il Barone Agnello pregò Bortolotto di fargli conoscere le bellezze del posto: visita al museo archeologico di Palermo e ai templi greci di Agrigento che Adorno non aveva mai visto: «Restò turbato da tale bellezza, ma rimase in silenzio. Cosa poteva aggiungere? Aveva un tratto civettuolo, spesso si compiaceva delle proprie battute e ironie. Ma era un talento della scrittura. Quando uscì Minima moralia nella splendida traduzione di Solmi lessi e rimasi sconvolto. Ho molto apprezzato le sue opere. Ma col tempo le ho ridimensionate. La sua critica letteraria e musicale dipesero molto dai frutti ideologici del suo marxismo », questo mi raccontò in una delle nostre conversazioni.
L’impolitico Bortolotto si tenne costantemente alla larga da qualunque tentativo di offrire una sponda sociologica al suo pensiero. I libri che ha scritto, meno di quindici in tutto - tra cui brillano Consacrazione della casa, Dopo una battaglia, Wagner l’oscuro e, naturalmente, Fase seconda (tutti editi da Adelphi) – sono la dimostrazione di uno stile che per ricchezza lessicale, precisione di dettaglio, immaginazione figurale richiamano la grande saggistica di Mario Praz, Emilio Cecchi e soprattutto, improvviso come un lampo, Roberto Longhi.
Sebbene avesse lungamente insegnato a Roma, non c’era in Bortolotto nessuna indulgenza accademica, semmai un costante riferirsi ai riflessi segreti di una tradizione che è stata tanto abbagliante quanto in larga parte misconosciuta. Le vertiginose escursioni su Chopin e Puccini, su Strauss e Strawinsky, le considerazioni brillantissime sull’Operetta, il magistrale ripensamento della musica moderna, mostrano non solo il geniale eclettismo. Ma altresì la consapevolezza che tra l’autore e l’opera si stendesse una zona oscura e impalpabile che solo la scrittura avrebbe potuto rendere esplorabile.
Fase seconda (1968), fu certamente il frutto più ardito di una stagione musicale che lo aveva visto intellettualmente impegnato. Bortolotto apparteneva alla generazione dei Clementi, Donatoni, e, a lui più vicini, Berio, Nono. Una generazione fulgente, la prima forse in cui la musica italiana, dopo tanto tempo di decadenza, seppe porsi sullo stesso piano del resto della musica mondiale.
Si entra con difficoltà nei libri di Bortolotto, ma una volta dentro è difficile uscirne. È come trovarsi in un segreto labirinto, dove è preferibile lasciarsi guidare dalle emozioni che esso ci suscita, piuttosto che dall’intelligenza che lo governa. Perdersi per poi improvvisamente ritrovarsi. In una stranezza che a volte prende il nome di letteratura.
Ricordo le volte in cui Bortolotto, a lungo collaboratore di Repubblica, veniva al giornale con i suoi pezzi battuti a macchina e tormentati da cancellature e frasi sovrapposte con la biro. Periodi lunghi e scarsamente leggibili, al punto da suscitare talvolta una gioia masochistica in chi vi si avvicinava con curiosità mentale. L’apparizione di quest’uomo alto, grosso, imponente, del tutto simile a una natura ottocentesca schizzata fuori da una pagina di Victor Hugo, sembrava improvvisamente animare lo spazio circostante di echi carnali sopravvissuti a qualunque dieta spirituale. Mario “l’epicureo” fu dopotutto anche questo: una bellissima anomalia di un mondo che nella sua parte migliore ha lasciato scarsissime tracce.

La Stampa 28.9.17
Così Stati Uniti e Italia svelano i misteri delle onde gravitazionali
Al G7 Scienza di Torino l’annuncio che cambierà l’astronomia: triangolata per la prima volta la deformazione dello spazio tempo
di Alessandro Mondo

Il G7 Scienza di Torino, presenziato dalla ministra Valeria Fedeli alla Reggia della Venaria Reale, è stato inaugurato dall’annuncio di una scoperta senza precedenti.
Strumenti combinati
Il 2 agosto è stato attivato l’Interferometro con sede a Cascina, in provincia di Pisa, un gioiello da 200 milioni di euro progettato per rilevare le onde gravitazionali previste cento anni fa da Einstein: si chiana Virgo, è stato realizzato dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare italiano e dal Centre National de la Recherche Scientifique francese. A metà agosto l’apparecchio in Italia, unendo le forze con i due operativi da tempo negli Stati Uniti, ha permesso non solo di rilevare il passaggio di un’onda gravitazionale ma di «puntare» la sorgente: cioè di individuare il punto esatto in cui si è generata. La triangolazione è stata eseguita per la prima volta.
Buchi neri
Il segnale è stato emesso durante i momenti finali della fusione di due buchi neri, con masse rispettivamente di circa 31 e 25 volte la massa del Sole, e distanti tra loro circa 1,8 miliardi di anni luce. Il buco nero così prodotto ha una massa circa 53 volte quella del nostro Sole. Significa che, durante questo processo, circa tre masse solari sono state convertite in energia sotto forma di onde gravitazionali.
Sono i primi passi di un’astronomia completamente nuova che già il prossimo anno potrebbe portare una grande quantità di risultati. Se li aspetta il coordinatore scientifico del Ligo, David Shoemaker, del Massachussetts Institute of Technology: «Con il prossimo ciclo di osservazioni con la rete globale di interferometri previsto per l’autunno 2018 ci aspettiamo rilevazioni di questo tipo ogni settimana o addirittura più spesso». Un risultato che sarà ottenuto anche grazie al miglioramento degli interferometri. La misurazione si è conclusa il 25 agosto e adesso si stanno analizzando i risultati mentre Ligo e Virgo sono “a riposo”. Virgo, però, verrà potenziato e se oggi riesce a osservare un volume di universo dieci volte superiore rispetto alla sua versione precedente, la prossima versione allargherà il suo occhio a cento volte.
«Catastrofi cosmiche»
Considerato che le onde gravitazionali sono osservabili grazie a «catastrofi cosmiche» accompagnate in tutti i casi da emissioni di luce - buchi neri che si fondono, buchi neri che “mangiano” stelle di neutroni o stelle che si mangiano tra loro - il passo successivo consisterà nella possibilità di capire cosa è successo in quel frangente e studiare il comportamento della materia in queste circostanze estreme.
Indagine spazio-tempo
«Come? Orientando tutti i telescopi disponibili, simultaneamente, nel punto preciso dello spazio tempo in cui in cui si è generata l’onda - ha spiegato Fernando Ferroni, presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare -: con questa scoperta si rivoluziona l’astronomia». Riuscire a triangolare questi eventi permetterà infatti testare teorie alternative della gravità, uno studio che ancora non ha trovato una risposta soddisfacente.
Nuove prospettive
Insomma: sapere quando e dove è partita un’onda gravitazionale in futuro permetterà di saperne molto di più sui fenomeni che l’hanno generata: questo è l’auspicio. Ma la scoperta annunciata al G7 rappresenta già una svolta. «Un traguardo che per noi è motivo di grande soddisfazione - ha commentato la ministra Fedeli -. Questo risultato dimostra l’importanza di investire nelle grandi infrastrutture di ricerca globali, che hanno la capacità di attrarre e ottimizzare competenze e risorse su scala globale».

Corriere 28.9.17
La quarta onda gravitazionale «catturata» con i raggi laser da Pisa agli Usa
di G. Cap.

Un’onda gravitazionale è stata catturata al-l’osservatorio europeo Virgo di Cascina di Pisa. Lo hanno annunciato i fisici durante il G7 Scienza che si è tenuto ieri alla Reggia di Venaria di Torino. Una cornice eccezionale per un evento straordinario sottolineato dalla presenza del ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli. Assieme a Virgo il segnale è stato raccolto anche dalle due stazioni americane Ligo di Hanford e Livingston. Infatti a Torino sono arrivati anche i responsabili del progetto statunitense che lavorano in collaborazione con gli scienziati italiani dell’Istituto nazionale di fisica nucleare; tutti insieme (quasi 1.300 ricerca-tori) pubblicano il risultato sulla rivista Physical Review Letters . Questa è la quarta onda gravitazione rilevata dopo la prima del settembre 2015. Ma è la più importante perché final-mente si sa da dove arriva proprio grazie alla presenza della stazione italiana. Con essa è possibile una triangolazione dalla quale determinare il luogo d’origine della catastrofe cosmica generatrice dell’onda. Così oggi sappiamo che tutto è accaduto tra le stelle della costellazione di Eridano, nel cielo dell’emisfero sud a 1,7 miliardi di anni luce dal-la Terra. Lì, due giganteschi buchi neri con una massa rispettivamente 30 e 25 vol-te più grande del nostro So-le si sono scontrati e fusi insieme provocando la nascita di un imponente buco nero di 52 masse solari. Le tre masse che mancano dalla somma si sono trasformate nell’energia che ha animato l’onda giunta sul nostro pianeta sfiorando prima il Cile, poi gli Usa e infine l’Italia. La carezza cosmica al nostro globo azzurro è durata tre decimi di secondo ma sono bastati perché i raggi laser delle tre antenne vibrassero uno dopo l’altro raccontando la violenza di quanto succedeva nel remoto angolo dell’universo. Anzi, di ciò che è successo 1,7 miliardi di anni fa, perché tanto ha impiegato l’onda per arrivare a noi viaggiando alla velocità della luce. «L’evento — spiega Federico Ferrini, direttore dell’European Gravitational Observatory di Pisa — segna un passo importante nella ricerca delle fatidiche onde previste dalla teoria della relatività un secolo fa. Per la prima volta siamo riusciti pure a definire le loro caratteristiche trovando che sono corrispondenti alla descrizione di Einstein». Virgo era entrata in piena attività in agosto riuscendo ad ascoltare il suono astrale in sintonia con le stazioni americane sino ad arrivare in pochi giorni alla grande scoperta. «La nuova astronomia gravitazionale — conclude Ferrini — è diventata una realtà».

Corriere 28.9.17
Cristoforetti e i test con i colleghi di Pechino:
«Potrei andare io con loro nello spazio»
La Cina di Astrosamantha
di Giovanni Caprara

«È stata una magnifica occasione lavorare gomito a gomito con i colleghi cinesi». Samantha Cristoforetti, Astrosamantha, è da poco rientrata dal «celeste impero» dove, assieme al collega astronauta dell’Esa Matthias Maurer, si è addestrata per volare sulla nuova stazione spaziale che Pechino sta costruendo.
Negli incontri eravate più curiosi voi o i colleghi cinesi?
«Siamo stati accolti con grande calore e gentilezza. C’è molta curiosità reciproca, ci facciamo tante domande a vicenda. A loro interessa soprattutto la mia esperienza sulla stazione spaziale, poiché tra qualche anno inizieranno anche loro a effettuare spedizioni lunghe diversi mesi. Noi siamo curiosi di sapere com’è la loro vita quotidiana, come si addestrano, poiché forse tra qualche anno uno o una di noi si unirà a loro per una missione. Siamo solo agli inizi. Speriamo che nei prossimi anni si arrivi a un accordo tra le nostre agenzie. Quindi un volo per un’europea o europeo non sarebbe prima del 2023».
Nelle pause ha esplorato il mondo cinese, il cibo?
«Il corso di sopravvivenza di due settimane era in una base isolata. Si condividevano i pasti con i colleghi cinesi ed erano sempre gradevoli momenti di convivialità, ma anche di piacere culinario. Pure in Cina la cucina rappresenta un aspetto importantissimo della cultura e della vita sociale».
Dopo il lungo soggiorno sulla Iss e l’esperienza cinese, quali impegni riempiono le sue giornate?
«In attesa di una nuova spedizione mi rendo utile in vari modi mentre continuo ad addestrarmi. In novembre andrò a Lanzarote per completare un corso di geologia sul campo iniziato in Baviera e Alto Adige. E poi ci sono i viaggi in Cina».
Tutti oggi vogliono la Luna, a partire proprio dai cinesi. Meglio andare lì o su Marte?
«Credo che si stia consolidando consenso internazionale intorno alla scelta della Luna come prossima destinazione dell’esplorazione spaziale umana. Penso sia una scelta ragionevole, tecnologicamente ed economicamente fattibile grazie agli sviluppi maturati con la stazione spaziale».
Nel vostro centro di Colonia si intende costruire un Moon village, un villaggio lunare per gli addestramenti…
«Sì, e io mi occupo di iniziative che riguardano le future missioni sul nostro satellite naturale. Qui vogliamo realizzare un “analogo artificiale” con un suolo simile a quello selenico. Abbiamo un nutrito gruppo di studenti da tutta Europa. Ci piace la creatività dei giovani per investigare nuove idee come l’utilizzo delle risorse lunari».
Ha nostalgia dello spazio? L’attesa logora l’astronauta?
«Naturalmente desidero tornare nello spazio al più presto, ben sapendo che sarà impossibile in questo decennio, per una questione di rotazione di astronauti e nazionalità. C’è comunque sempre un lato positivo in ogni cosa: aspettare qualche anno in più aumenta le possibilità che la mia seconda missione abbia degli elementi di novità; per esempio uno dei nuovi veicoli spaziali americani».
Nel frattempo, però, Astrosamantha potrebbe diventare la prima europea a volare lassù, con i cinesi. Un altro dei suoi record.