mercoledì 27 settembre 2017

Corriere 27.9.17
Quei baroni mai puniti
di Gian Antonio Stella

Riusciranno i giudici a portare fino in fondo il processo ai baroni arrestati per l’ennesima «concorsopoli»? O finirà con la solita prescrizione dopo i soliti undici o dodici anni di lungaggini e rinvii? Ecco il dubbio. Perché, certo, di arresti ne abbiamo visti. Tanti. Ma le condanne per le troppe selezioni «pilotate» sono state più rare degli ippopotami nel Garda. Prendiamo solo uno degli ultimi casi.
Ansa, giugno 2016: «Il Tribunale di Bari ha archiviato per prescrizione di tutti i reati una delle indagini sui presunti concorsi truccati alla facoltà di Medicina dell’Università...». L’inchiesta era «sui concorsi per ordinari in Medicina interna risalenti agli anni 2005-2007. Gli indagati, tutti docenti universitari, rispondevano di associazione per delinquere, falso, interesse privato in atti pubblici e abuso d’ufficio...». Titoloni sparati in prima pagina all’inizio, titolini se non il silenzio assoluto col passare delle settimane, dei mesi, degli anni... Con la rimozione totale, spesso, di documenti, testimonianze, intercettazioni che da soli, al di là del profilo penale e processuale, sarebbero stati sufficienti, in una università seria, a espellere persone chiamate a «educare» generazioni di ragazzi avvelenati dall’elogio della furbizia.
Basti ad esempio la sfuriata del rettore di Tor Vergata, Giuseppe Novelli, vicepresidente della Conferenza dei rettori (sic...), contro Giuliano Grüner, uno dei due ricercatori (con Pierpaolo Sileri) che avevano ricorso al Tar per la «chiamata» di colleghi che, scrisse Il Fatto , erano «senz’altro titolati ma incidentalmente figli di professori di Tor Vergata». Ecco stralci della registrazione, purgata delle parole più «esuberanti» del Magnifico: «Lei sta sputando nel piatto in cui mangia! Sta facendo una causa contro il suo rettore, (censura)! Non è mai accaduto! Quando mi chiamava il mio rettore io tremavo (censura)!». «O ritira il ricorso oppure noi qui non ci parliamo! Per i prossimi anni per quello che mi riguarda si cerchi un altro Ateneo! Finché faccio io il rettore, lei qui non sarà mai professore!».
Un caso isolato? Per niente. Lo dicono le storie di ordinari passati dopo quattro giudizi negativi su cinque e altri bocciati da commissari con molte meno pubblicazioni. O quella di Maria Luisa Catoni, che dopo esser stata fellow a Berlino e senior fellow alla Columbia e aver presieduto (unica donna italiana) una commissione dell’European Research Council è stata scartata per «poche esperienze internazionali»...
Un’Ansa del dicembre 1991 racconta «le vicende di due concorsi di ematologia e di pediatria invalidati per volontà del ministro della università Antonio Ruberti, dopo che su una rivista scientifica erano state pubblicate le prove dei “brogli”». Indimenticabili i commenti. «È vero, in Italia per diventare professore d’università bisogna aver un padrino», si sfogò la docente di pediatria Luisa Busingo confidando il senso di umiliazione, «io stessa, se sono associato lo devo a un padrino. Se morisse lui avrei la certezza di non diventare mai di ruolo». «Il problema è l’omertà», accusarono Antonio Fantoni e Ferdinando Aiuti, famosi per le ricerche sull’Aids, «tutti i docenti sanno che le cose funzionano così ma la maggior parte dei nostri colleghi non protesta perché è d’accordo con questo sistema». Fenomenale l’intervento di Luigi Frati: «È un problema di moralità che non riguarda solo i concorsi universitari, ma la società intera». Pochi anni dopo, eletto rettore, si sarebbe circondato di tutta la famiglia: moglie, figlio, figlia...
«Nonostante la retorica dei “pochi episodi di malcostume”», ha scritto Roberto Perotti nel libro L’Università truccata , «tutti i professori dell’università italiana sanno di decine di concorsi truccati, e moltissimi vi hanno partecipato, spesso acconsentendo loro malgrado a promuovere il protetto del barone locale per riuscire a promuovere in cambio almeno un candidato serio». Una scusa per tacitare la coscienza. «Come nelle società mafiose, l’omertà e la connivenza di fatto imposte alla maggioranza degli onesti non sono percepite come atto di complicità, ma come sacrificio personale per evitare guai peggiori ad altre persone».
Ma perché tante università, con luminose eccezioni, ovvio, si sono riempite negli anni di figuri di statura modesta o modestissima invece che di fuoriclasse, costretti a emigrare all’estero? Possibile che un giovane cervello come Clemente Marconi, come ha raccontato il nostro Marco Imarisio, riceva lo stesso giorno un rifiuto («Gentile collega, siamo giunti alla conclusione che Lei non possiede i requisiti...») dall’ateneo di Palermo e la lettera di assunzione della Columbia di New York? Perché per anni troppe università, per fare un paragone calcistico, hanno rinunciato a prendere Ronaldinho preferendogli un brocco tirato su nel cortile di casa?
La risposta, spiegano ne Lo splendido isolamento dell’università italiana Stefano Gagliarducci, Andrea Ichino, Giovanni Peri e ancora Perotti, è questa: «La “squadra” di Villautarchia non gioca un campionato, ma solo amichevoli, spesso truccate; riceve un contributo fisso dalla federazione indipendentemente dai risultati; e gli spettatori di Villautarchia non hanno alternative: o vanno allo stadio locale, o non vedono partite di calcio. Prendere Ronaldinho scombussolerà la tranquilla vita dei giocatori, che si allenano solo una volta alla settimana; toglierà la leadership della squadra al vecchio capitano quarantenne; e farà risaltare l’inadeguatezza dell’allenatore... Perché crearsi tutti questi problemi, quando prendendo un giocatore di serie C si fa piacere a un dirigente locale, che è amico del sindaco in scadenza e che farà vincere il presidente del Villautarchia alle prossime elezioni comunali?».
Fatto è che il nuovo scandalo è sale sulle ferite di tantissimi ordinari, associati, ricercatori perbene che fanno il loro mestiere davvero con dedizione, disciplina, onore e vivono malissimo questi scandali. Tanto più che anche chi viene condannato se la cava con un buffetto. Il caso simbolo è quello di un concorso per Otorinolaringoiatria. Bandito nel 1988, vinto da sedici parenti o raccomandati, sanzionato da condanne in Assise, in Appello e in Cassazione (tredici anni dopo i fatti) non fu mai seguito da provvedimenti seri. Non solo restarono tutti impuniti sulle loro cattedre (nonostante le «plurime e prolungate condotte criminose» denunciate nelle sentenze) ma qualche anno dopo il direttore generale del Miur, Antonello Masia, mise per iscritto che «l’annullamento di un atto non può fondarsi sulla mera esigenza di ripristino della legalità, ma deve tener conto della sussistenza di un interesse pubblico». Tutti salvi. Chi ha dato ha dato, chi avuto avuto, scurdammoce ‘o passat’...