Corriere 27.9.17
Ma riaffiora di continuo la nostalgia del sacro
di Giorgio Montefoschi
L’invisibile
è ancora una volta, e non poteva essere altrimenti, al centro de
L’innominabile attuale (Adelphi), il nono capitolo di un solo libro che
Roberto Calasso ha concepito svariati anni fa, e comincia con La rovina
di Kasch . Un secondo tema, naturalmente legato al primo, e
imprescindibile, è il tema del sacrificio — anche quello presente in
alcuni capitoli di questa opera, davvero unica per l’ampiezza e
l’acutezza dello sguardo, la sapienza a volte stupefacente, e l’ardore
(titolo di un altro capitolo dedicato alla teologia e alla religione
induista) con il quale il suo autore attraversa il tempo e racconta il
passato e il presente, il pensiero e le leggende, la letteratura e la
pittura, le cose che appaiono e quelle segrete.
«Il frutto del
sacrificio», scrive Calasso a pagina 14 de L’innominabile attuale — che
prende le mosse dall’analisi del fenomeno più opaco e terribile della
inconsistenza in cui viviamo: vale a dire il terrorismo islamico —, «un
tempo era invisibile. L’intera macchina rituale era concepita per
stabilire un contatto e una circolazione tra il visibile e l’invisibile.
Ora, invece, il frutto del sacrificio è diventato visibile, misurabile,
fotografabile. Come i missili, l’attentato sacrificale punta verso il
cielo, ma ricade sulla terra» (l’esatto contrario, potremmo aggiungere,
di quanto accade nel finale del romanzo Papà Goriot , quando il povero
vecchio è ormai sbranato dalle figlie, e Honoré de Balzac, con inusitata
dolcezza, scrive che le sue lacrime «cadevano in terra per salire
subito in cielo»).
Oggi, quel cielo, inteso nel suo significato
profondo, non in quello magari consolatorio di uno splendido tramonto,
non esiste. Il processo, «di enorme portata», della sua cancellazione
dalla nostra visuale, è cominciato e si è «cristallizzato» nel corso del
Novecento, e ha investito tutto ciò che «passa sotto il nome di
religioso». L’oltre — il termine che racchiude in se stesso l’invisibile
e il mistero, la tenebra e la luce, Dio e gli dèi, e ovviamente la
Parola — è sparito.
La società contemporanea, che Calasso senza
mezzi termini definisce società secolare (e con lei il suo cittadino: l’
Homo secularis ) guarda se stessa. Non oltre. Mai. Ed è soddisfatta, o
piuttosto disperata, così. Con la misurazione definitiva e invalicabile
dei suoi confini al di là dei quali non esiste nulla, tantomeno il
divino; con l’affollarsi e la concentrazione, all’interno di questi
confini, di tutte le discipline che servono a stabilire l’utile, ad
annientare il dubbio e a uniformare le certezze, a garantire il
controllo; con un sapere enciclopedico, sterminato, accessibile premendo
un tasto, che non è affatto un sapere, poiché esclude lo sforzo della
conoscenza e la dialettica della mente; infine, con le rassicurazioni
del progressismo e dell’umanitarismo: quel dovere di essere innanzitutto
buoni qui e subito, sacrosanto e encomiabile, senza pensare all’oltre,
alla vita futura, che anche la Chiesa stessa talvolta dimentica,
cercando di «assimilarsi sempre più a un ente assistenziale» globale,
all’interno del quale ecclesiastici e secolaristi possano parlare la
medesima lingua.
Questo è quello che, secondo Roberto Calasso, sta
accadendo, e che lui denuncia in un libro tagliente, implacabile, con
il quale sarà impossibile non fare i conti: «Duemila anni dopo Cristo il
secolarismo avvolge il pianeta»; il pensiero si è svuotato del divino;
la ritualità dei gesti che evocano il mistero è incompresa dai più, e
almeno in Occidente, espulsa; le religioni sono state distrutte; l’unica
religione che resiste — come religione e superstizione — è la religione
secolare «che risponde della sua fedeltà non più a esseri trascendenti,
ma a un ente definito come umanità».
Ma, se in un pomeriggio
londinese autunnale e freddo, lasciamo i viale cosparsi di foglie
ingiallite e ci infiliamo al British Museum, e, oltrepassate le sale
«egizie» e «assire» entriamo nella sala in cui «colonne, rilievi e
alcune statue di esseri femminili acefali» in una strana costruzione
ricompongono una tomba licia del Quarto secolo avanti Cristo,
proveniente da Xantos, nella Turchia meridionale, siamo colti da un
improvviso stupore e da una emozione profonda. Cosa evocano quelle linee
morbide, quella leggerezza adombrata che allude a un’altra leggerezza,
se non il pensiero, mai morto, che si rivolge altrove, e, proprio come
quella tomba silenziosa, è custodito ancora oggi dagli ultimi monaci
invisibili che vivono nei conventi, dai contemplanti vedici che vagano
nelle foreste?