Corriere 27.9.17
Vivere senza Dio La nostra società è orfana della fede
Non crede in nulla, se non a sé. Ne derivano pericolose turbolenze
di Roberto Calasso
Nel
corso del Novecento si è cristallizzato un processo di enorme portata,
che ha investito tutto ciò che passa sotto il nome di «religioso». La
società secolare, senza bisogno di proclami, è diventata ultimo quadro
di riferimento per ogni significato, quasi che la sua forma
corrispondesse alla fisiologia di qualsiasi comunità e il significato si
dovesse cercare solo all’interno della società stessa. La quale può
assumere le forme politiche ed economiche più divergenti, capitalistiche
o socialistiche, democratiche o dittatoriali, protezioniste o
liberiste, militari o settarie. Tutte da considerare, in ogni caso,
quali mere varianti di un’unica entità: la società in sé. È come se
l’immaginazione si fosse amputata, dopo millenni, della sua capacità di
guardare oltre la società alla ricerca di qualcosa che dia significato a
ciò che accade all’interno della società. Passo audacissimo, che
implica un formidabile alleggerimento psichico. Che però è sempre di
breve durata. Vivere «al di là del bene e del male» è qualcosa che
incontra una invincibile resistenza. Produrre — o comunque favorire —
quell’alleggerimento è una caratteristica decisiva della democrazia. Che
non riesce però a mantenerlo.
Rispetto a tutti gli altri regimi,
la democrazia non è un pensiero specifico, ma un insieme di procedure,
che si pretendono capaci di accogliere in sé qualsiasi pensiero, eccetto
quello che si propone di rovesciare la democrazia stessa. Ed è questo
il suo punto più vulnerabile, come si dimostrò in Germania nel gennaio
1933. Così la società secolare si è rivelata agile e ingegnosa nel
riassorbire al suo interno, sotto mentite spoglie, quelle stesse potenze
che aveva appena espulso. La teologia ha finito per trasformarsi in
politica, mentre la teologia stessa veniva relegata nelle università.
Ma
il processo si applica a tutti i livelli: senza il brivido del numinoso
la società secolare si rifiuta di sussistere, anche se il numinoso
stesso è parola accettata soltanto in ambito accademico. Non potendo
nominare, secondo le regole di un canone, ciò che adora, la società
appare condannata a una superstizione nuova e insinuante: la
superstizione di se stessa, la più difficile da percepire e da
dissolvere. È accaduto allora che i peggiori disastri si siano
manifestati quando le società secolari hanno voluto diventare organiche ,
aspirazione ricorrente di tutte le società che sviluppano il culto di
se stesse. Sempre con le migliori intenzioni. Sempre per recuperare una
perduta unità e supposta armonia. In questo Marx e Rousseau, ma anche
Hitler e Lenin, ma anche il produttivista Henri de Saint-Simon hanno
trovato una fugace concordia. Organico è bello, per tutti. Nessuno si
azzarda a dire che la deprecata atomizzazione della società può essere
anche una forma di autodifesa da mali più gravi. In una società
atomizzata ci si può mimetizzare più facilmente. Non si aspetta che la
polizia segreta suoni alla porta alle quattro del mattino.
Tutto
questo è avvenuto in conseguenza di una lunga, tormentosa evoluzione,
che non si è mai interrotta — anche se talvolta si è dissimulata. Se
dovessimo stabilire, con ovvio arbitrio e per pure esigenze
drammaturgiche, un punto iniziale di tale processo, nessuna immagine
sarebbe più acconcia di quella di Sparta, così come Jacob Burckhardt
l’ha mostrata, condensando l’essenziale in poche parole con la sua
usuale sobrietà: «Sulla terra la potenza può avere un’alta missione;
forse solo su di essa, su un territorio da essa protetto, possono
sorgere civiltà di ordine superiore. Ma la potenza di Sparta sembra
essere comparsa al mondo quasi soltanto per se stessa e per la propria
affermazione, e suo pathos costante è stato l’asservimento dei popoli
sottomessi e l’estensione del suo dominio come fine a se stesso».
Che
queste parole di Burckhardt abbiano una particolare rilevanza e possano
essere applicate non solo a Sparta ma alla storia recente e a quello
che oggi avviene può essere suffragato da una curiosa circostanza
editoriale. Nell’anno 1940 la Deutsche Buch-Gemeinschaft pubblicò in un
solo volume la Griechische Kulturgeschichte di Burckhardt premettendole
una nota, firmata «La Casa Editrice», che avvertiva: «La zavorra
scientifica, le note, i rimandi alle fonti, così come certe ripetizioni e
dettagli che interessano soltanto lo studioso, sono stati eliminati. In
tal modo l’opera ha acquisito una maggiore leggibilità». Ora, giunto
alla pagina 50, il lettore può accorgersi che un intero paragrafo è
stato soppresso — ed è appunto quello che si chiude con le parole appena
citate. Ma è il caso di leggere anche le righe che lo precedono,
ugualmente soppresse: «Si è già accennato sopra quanto cara costasse in
genere la fondazione di una città. Ma la fondazione di Sparta in
particolare fu pagata a carissimo prezzo dai popoli sottomessi. Si diede
loro la scelta fra tutti i generi di schiavitù, annientamento,
deportazione». E Burckhardt concludeva che, seppure una tale
configurazione sociale avesse una sua grandiosità, non si poteva evitare
di considerarla «senza alcuna simpatia». Per un editore tedesco ligio
al regime (e tutti allora erano ligi al regime) non era tollerabile che
certi fatti venissero nominati con quella inflessibile precisione e
«senza alcuna simpatia», come Burckhardt dichiarava.
Ci si può
chiedere se la società secolare è una società che crede in qualcosa,
oltre che in se stessa. O se ha raggiunto quell’alto grado di saggezza
per cui si rinuncia a credere, ma ci si limita a osservare, a studiare, a
capire, in una progressione indefinita e imprevedibile. Ora, questo
stato, che esige sobrietà e concentrazione, non sembra corrispondere a
ciò che avviene ogni giorno nella immane società secolare, estesa ormai
su tutti i continenti e continuamente squassata da turbolenze di varia
origine. Che ricordano quelle che accadevano ai tempi delle guerre di
religione. Le quali però si fondavano appunto su scontri di credenze.
Eserciti invisibili di teologie e liturgie si battevano accanto alle
armate terrestri. Oggi invece sarebbe impossibile percepire quegli
eserciti. I conflitti della società non hanno più come oggetto qualcosa
che sta al di fuori e al di sopra, ma la società stessa. Che è
innanzitutto una vasta superficie su cui intervenire, un laboratorio
dove forze opposte tentano di strapparsi a vicenda la direzione degli
esperimenti.