Corriere 26.9.17
Aiutati dagli italiani o dalla sorte
Gli ebrei sfuggiti all’orrore nazista
di Antonio Ferrari
Dico
subito che è stato stimolante leggere il libro-documento di Liliana
Picciotto, che ha un titolo accarezzato dal vento della speranza:
Salvarsi (Einaudi) . Stimolante perché questo studio documentatissimo
sugli «ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah dal 1943 al 1945» ha
l’indubbio merito di sfatare alcuni luoghi comuni: che cioè il fascismo
italiano fosse una sola cosa con il nazismo di Adolf Hitler.
Intendiamoci. I due regimi erano imparentati nell’ideologia e
compenetrati inesorabilmente. Il leader-pagliaccio (come molti lo
definivano in Germania, persino i comunisti) che veniva da Vienna, di
sicuro meno attrezzato culturalmente di Benito Mussolini, aveva copiato
il Duce all’inizio, costringendolo poi all’abbraccio mortale sul fronte
di una guerra orrenda e di una sfida mortale. Guerra e sfida che hanno
annientato più di una generazione di giovani. Decine di milioni di
morti.
Preambolo necessario per introdurre il tema della ricerca
del Centro di documentazione ebraica contemporanea, che dimostra con
cura e scrupolo i risultati di una indagine, prevalentemente orale (con
tutti i limiti che questo approccio comporta) per capire quanti furono
gli ebrei che riuscirono a salvarsi dalla deportazione nei campi di
sterminio.
Cito testualmente un passaggio del libro di Liliana
Picciotto: «Gli ebrei presenti, alla fine di settembre del 1943,
nell’Italia occupata, erano 38.994, di cui 33.452 italiani e 5.542
stranieri. Di tutti costoro, quelli identificati, arrestati e deportati
(morti e sopravvissuti) oppure uccisi in Italia prima della loro
deportazione, sono stati 7.172. Rimasero perciò non catturati e sfuggiti
alla Shoah 31.822 ebrei, tra italiani e stranieri, oggetto di questa
ricerca… Gli scampati rimasti in patria furono cioè più dell’81 per
cento».
Ovviamente, l’inizio della persecuzione sistematica è del
mese di novembre del 1938, quando il governo fascista, con il Regio
decreto legge 1728/1938 stabilì che diventava imperativo emanare i
«Provvedimenti per la difesa della razza», sottintendendo che la razza
incriminata fosse quella ebraica. La persecuzione aveva gravi
conseguenze sociali (perdita del lavoro, espulsione dalle scuole del
regno) ed economiche. Nessuno degli ebrei però, a parte i più avveduti
che riuscirono ad andarsene, immaginava quel che poi sarebbe accaduto.
È
evidente che le leggi razziali furono suggerite e caldeggiate da
Hitler, e in realtà Mussolini vi si adeguò con qualche mal di pancia,
perché il Duce sapeva che imporre drastiche misure agli italiani sarebbe
stato controproducente. L’italiano non è e non sarà mai un carnefice.
Forse
si spiegano così i gesti di grande solidarietà con la minoranza
perseguitata. L’esempio del console italiano fascista di Salonicco,
Guelfo Zamboni, ne è una prova. Gino Bartali, campione di ciclismo,
rischiò la vita per salvare decine di ebrei. I casi di coraggio civile,
con l’avanzare della ricerca, si sono moltiplicati. Fino a dimostrare
un’indubbia realtà: molti ebrei sono stati soccorsi e altrettanti si
sono auto-salvati, adottando misure e comportamenti per sfuggire alla
retate.
C’è poi chi si è salvato per un evento imprevedibile e
fortunato. Persino nei campi della morte non era impossibile sfuggire
alle camere a gas. Sami Modiano, ebreo di Rodi, appartenente alla
comunità italiana nell’isola greca allora sotto il controllo del nostro
Paese, ci ha raccontato di avere evitato il «forno» per puro caso. Era
già pronto a morire, quando venne salvato da un carico di patate giunto
con un treno ad Auschwitz. Era necessario scaricare le patate e i
nazisti decisero che quei condannati in buona salute sarebbero stati
utili per missioni successive. Nedo Fiano, il padre del deputato del Pd
Emanuele, si salvò perché conosceva il tedesco e sapeva cantare. Quando
disse che veniva da Firenze, il colonnello di Hitler si commosse e lo
abbracciò. Aveva trascorso nella città toscana una vacanza sentimentale
con la fidanzata.
Se l’orrore si coniuga con il sentimentalismo è
davvero un disastro. Tuttavia il libro-ricerca, curato da Liliana
Picciotto, è un formidabile veicolo di conoscenza. Un’enciclopedia di
storie umane che ci raccontano di un’Italia, apparentemente
indifferente, ma anche solidale con chi soffriva. Perché delle camere a
gas quasi tutti erano informati.