Corriere 26.9.17
Il «forgotten man» è anche tedesco
Cresce la povertà (come in America)
di Federico Fubini
Nel Paese un livello di concentrazione di ricchezza inferiore solo agli Stati Uniti
«Il
maestro sta incontrando qualche problema», osservò il vicepremier
cinese Wang Qishan nel pieno della crisi finanziaria americana del 2008.
Da un paio di giorni, parole del genere devono ronzare nella testa di
chiunque dalla Casa Bianca guardi ai risultati delle elezioni in
Germania. Anche il maestro tedesco, celebre nel garantire il benessere
dei ceti medi e isolare il populismo, aveva visto giorni migliori.
Il
sistema al quale molti guardano come un’oasi di stabilità ha scoperto
che più di un elettore su cinque preferisce l’estrema destra o la
sinistra più radicale. Il centro si è ristretto. Al 22% in totale, il
voto anti-sistema resta limitato in confronto a quanto sia accaduto in
Gran Bretagna, negli Stati Uniti o in Francia e anche rispetto a ciò che
registrano i sondaggi per l’Italia. Ma sommati, i socialdemocratici e i
cristiano-democratici non avevano mai contato così poco nella storia
della Repubblica federale tedesca.
La Germania si scopre meno
diversa dal resto d’Europa di quanto la stessa Europa sperasse, e le
ragioni non mancano. L’enorme flusso di rifugiati del 2015 è sicuramente
la causa prossima della protesta, ma non può essere l’unica. Secondo
Destatis, l’istituto statistico tedesco, il 2015 in effetti ha
registrato il maggiore flusso dall’estero dalla riunificazione; due anni
fa sono immigrati in Germania più di 2,1 milioni di stranieri. Ma dal
1991 ne sono arrivati più di 25 milioni e gli ingressi dei primi anni 90
— in un’economia molto più debole di oggi — nel complesso erano più
numerosi di quelli registrati in questa fase. Eppure non aveva mai messo
piede nel Bundestag un solo deputato di un partito il cui leader si
dice «fiero» di come si sono comportati i soldati tedeschi nella seconda
guerra mondiale. Domenica ne sono stati eletti quasi cento.
Come
negli Stati Uniti di Donald Trump, l’avversione agli stranieri
dev’essere dunque anche lo specchio di qualcos’altro. Con un plagio
dalla Grande Depressione il presidente americano l’ha chiamato il
«Forgotten Man»: l’uomo dimenticato, l’emblema dei ceti medi i cui
redditi sono erosi dalle tecnologie e dalle delocalizzazioni produttive
verso i Paesi a basso costo, anche quando le statistiche registrano
piena occupazione. In Germania, in misura meno drammatica, dev’essersi
ripetuto un copione simile.
Durante i governi di Merkel la
disoccupazione è scesa dall’11% al 3,8%, ma negli ultimi dieci anni le
persone in povertà relativa sono salite dall’11% al 17% del totale.
Sotto la guida della cancelliera il bilancio pubblico è passato da un
deficit di cento miliardi di euro a un attivo di venti, una gestione
così virtuosa da far crollare gli investimenti pubblici fino a relegare
la Germania persino dietro l’Italia nelle classifiche sulla banda larga;
nel frattempo la quota degli occupati in condizioni di povertà è
raddoppiata al 10%. Con Merkel il surplus negli scambi con l’estero ha
sfiorato i 300 miliardi, il maggiore al mondo, ma sono raddoppiate a due
milioni anche le persone che fanno un doppio lavoro pur di far quadrare
i conti. Sotto la cancelliera la crescita è stata costante — benché in
media per abitante sia da anni molto sotto all’1% — mentre i pensionati
in povertà sono aumentati del 30%. Questo Paese mantiene un welfare
esemplare, eppure presenta un livello di concentrazione di patrimoni
nelle mani dei ricchi inferiore solo a quello dell’America di Trump.
Certo,
meglio essere poveri a Dresda che in Ohio o a Vibo Valentia. È pur
sempre una povertà relativa al benessere degli altri e sostenuta da
sussidi efficienti. Ma chi ha di meno in Sassonia si paragona al vicino,
quello che ha la Porsche in cortile e magari una fabbrica in Polonia
che ha cancellato il suo posto di lavoro. Domenica, nelle urne, ha detto
ciò che ne pensa.