Corriere 24.9.17
lo ius soli e i dubbi legittimi
di Ernesto Galli della Loggia
Perché
la maggior parte degli italiani, come indicano tutti i sondaggi, sono
contrari alla nuova legge sulla cittadinanza nota come ius soli ? A
questa domanda — forse non del tutto irrilevante nel momento in cui da
molte parti si auspica o si annuncia come prossimo il completamento in
Senato dell’ iter di approvazione della legge — ci sono tre risposte
possibili: a) supporre che i suddetti italiani siano male informati, e
quindi ignorino quello che in realtà dice la legge; ovvero b), ritenere
che per qualche misteriosa ragione sempre i suddetti italiani siano
naturalmente predisposti a nutrire sentimenti xenofobi e/o razzisti;
oppure, terza risposta, c), pensare che la legge presenti effettivamente
aspetti discutibili capaci di destare a buon motivo perplessità se non
allarme.
Secondo me legislatori saggi e pur favorevoli in generale
alla legge dovrebbero fare propria quest’ultima risposta: e dunque
provare a vedere che cosa c’è nella legge che lascia dubbiosi. Provo a
dirlo io secondo il mio giudizio: è il fatto che per la sua parte
centrale la legge sullo ius soli è pensata e scritta secondo una
prospettiva diciamo così astrattamente individualista, indipendente da
ogni realtà culturale. È centrata esclusivamente sul candidato alla
cittadinanza in quanto singolo.
Come si sa, infatti, la
cittadinanza italiana sarebbe d’ora in poi dovuta di diritto a chiunque,
compiuto il diciottesimo anno di età, sia nato in Italia da genitori
stranieri o vi sia arrivato prima dei dodici anni.
e inoltre che
in Italia abbia compiuto con successo un ciclo scolastico di almeno 5
anni o un corso d’istruzione o formazione professionale triennale o
quadriennale. La legge insomma prescinde del tutto dal contesto
culturale familiare o di gruppo in cui il futuro cittadino è cresciuto, e
tanto più da qualunque accertamento circa l’influenza che tale contesto
può avere avuto su di lui, sui suoi valori personali, sociali e
politici. Si richiede solo che uno dei genitori abbia un regolare
permesso di soggiorno, un’abitazione degna di questo nome, un reddito
minimo e sappia parlare italiano. Così come essa prescinde dagli
eventuali vincoli di fedeltà che il candidato di cui sopra abbia
contratto con altre istituzioni o Stati. Non è un caso che per il futuro
cittadino italiano non sia previsto, mi sembra, l’obbligo della
rinuncia a ogni altra nazionalità di cui sia eventualmente già in
possesso (come è quasi certo).
Ora, se si vuol stare coi piedi per
terra è giocoforza ammettere che a proposito della nuova legge le
preoccupazioni dell’opinione pubblica nascono in specie in relazione ad
una categoria particolare di immigrati: gli immigrati di cultura
islamica. Sono preoccupazioni realistiche. È in tale ambito, infatti,
che si registra la presenza di un fortissimo vincolo familiare e di
gruppo, cementato e per così dire sublimato da un altrettanto forte
comandamento religioso: entrambi in grado di condizionare in misura
decisiva mentalità e comportamenti del singolo. Di tenerlo legato ad
un’appartenenza che, come è stato più e più volte dimostrato, è pronta, a
certe condizioni, a non tenere in alcun conto regole, principi, fedeltà
che non emanino da fonti diverse da quelle suddette. Non è possibile
ignorare che è proprio un tale nodo di vincoli e di appartenenze a
sfondo cultural-religioso- familiare che quasi sempre si delinea dietro
gli ormai innumerevoli episodi di terrorismo islamista che da anni
insanguinano l’Europa.
Ma non è solo di questo che si tratta. C’è
un ulteriore insieme di problemi e un ulteriore ordine di esigenze non
attinenti questa volta all’ordine pubblico ma piuttosto all’ordine
culturale di una comunità. In questo caso della comunità italiana, la
quale legittimamente desidera continuare a riconoscersi come tale e
quindi a conservare i propri valori e stili di vita. L’esigenza, per
fare alcuni esempi, che le bambine non vengano rispedite a dodici anni
nei propri Paesi d’origine per essere sposate contro la propria volontà,
che nell’ambito familiare non sia impedito a nessuno di uscire di casa
quando vuole e di apprendere l’italiano, che in generale vengano
riconosciuti alle donne diritti e possibilità eguali a quelli
riconosciuti agli uomini. È davvero così disdicevole o addirittura
reazionario voler essere sicuri che chi acquista la cittadinanza
italiana, i nostri nuovi concittadini, siano fermamente convinti delle
esigenze che ho appena detto, che essi condividano questi elementi di
base della cultura della comunità italiana, senza che ci sia bisogno che
intervengano a ricordarglielo ogni due per tre carabinieri o
magistrati? A me sembra di no.
Il fatto è che se l’obiettivo
pienamente condivisibile della legge sullo ius soli è l’integrazione
nella società italiana, allora appare del tutto irragionevole supporre
che una tale integrazione presenti gli stessi problemi per chi proviene,
faccio un esempio, dal Perù o dal Congo. Appare del tutto sensato,
invece, supporre che nel secondo caso l’integrazione sia assai più lunga
e difficile, presenti aspetti assai più complessi. E poiché
evidentemente la legge non può fare discriminazioni, appare allora
altrettanto sensato pensare ad un testo di legge diverso da quello
attuale, e cioè «tarato» sulla fattispecie più difficile, vale a dire
sull’immigrazione proveniente dalle culture più distanti da quella
italiana.
Tra le quali dobbiamo riconoscere che la prima in
assoluto è di fatto quella islamica. Per ragioni che dovrebbero essere
ovvie: perché è quella con la quale l’Occidente ha da oltre un millennio
un confronto-scontro anche assai aspro che ha lasciato eredità profonde
da ambo le parti, perché è quella che in ambiti identitari cruciali —
come la pratica religiosa e cultuale, il rapporto tra i sessi, le regole
alimentari — ha le più marcate diversità rispetto a noi, e infine, e
soprattutto, per una drammatica ragione geopolitica di fronte alla quale
sarebbe da sciocchi chiudere gli occhi.
Infatti, da un lato
l’azione spesso violenta delle correnti islamiste antioccidentali,
dall’altro il poderoso lavoro di penetrazione che grazie alle proprie
immense risorse finanziarie molti Paesi arabi vanno compiendo in Europa,
entrambe queste strategie si fanno forti in vario modo per i loro
disegni della presenza nel nostro continente di vaste comunità
musulmane. Stando così le cose è ovvio l’importante aiuto che la
concessione della cittadinanza può oggettivamente offrire a questi
progetti. E stando così le cose, è più che lecito chiedersi se sia
davvero immaginabile che il semplice fatto, come immagina la legge, di
avere frequentato le nostre scuole elementari (un ciclo d’istruzione di
cinque anni appunto) possa realmente legare all’Italia, alla sua cultura
e ai suoi valori un giovane che, mettiamo, per il resto della sua
esistenza sia vissuto però entro un contesto familiare, religioso e di
gruppo fortemente islamizzato. Se sia sufficiente una siffatta garanzia o
non sia piuttosto il caso di prenderne in considerazioni anche delle
altre. Per decidere quali non mancano certo in Parlamento e nel Governo
le conoscenze e le competenze necessarie.
L’importante è tenere a
mente che in questo genere di faccende riguardanti il più vitale
interesse nazionale non dovrebbe esserci posto né per il «buonismo» né
per il «cattivismo», non dovrebbe esserci posto per il partito preso,
per la superficialità o per la demagogia (né per quella di destra né per
quella di sinistra). Qui dovrebbe parlare solo la voce del senso comune
e del realismo: e bisogna sforzarsi di credere che nella vita politica
del Paese non manchino le voci capaci di parlare questo linguaggio.