Corriere 19.9.17
I tre nobel un po’ razzisti
Hamsun e Lorenz dalla parte di Hitler
T.S. Eliot contro l’«invasione ebraica»
di Paolo Mieli
Come
fu possibile che persone di grande ingegno e di altrettanto grande
talento artistico si lasciarono sedurre dal fascismo e dal
nazionalsocialismo? Nel libro I maledetti. Dalla parte sbagliata della
storia (in via di pubblicazione per i tipi delle edizioni Lindau) Andrea
Colombo cerca di rispondere a questa domanda esaminando in maniera
approfondita i casi di Gottfried Benn, Martin Heidegger, Giovanni
Gentile, Emil Cioran, Robert Brasillach, Ezra Pound, Wyndham Lewis,
Julius Evola, Adolfo Wildt, Mario Sironi, Louis Ferdinand Céline, Mircea
Eliade, Filippo Tommaso Marinetti, Leni Riefenstahl e dei tre premi
Nobel che a pieno titolo possono essere inseriti nell’elenco: Knut
Hamsun, T.S. Eliot e Konrad Lorenz. Il tratto che li accomuna è «la
consapevolezza che l’Ottocento, il secolo dei buoni sentimenti, del
liberalismo, delle democrazie, della speranza ottimistica in un
progresso senza limiti, era definitivamente tramontato» e l’idea che
«dalle macerie della Prima guerra mondiale doveva sorgere un mondo
nuovo, radicalmente trasfigurato». Qualcosa di simile a ciò che avrebbe
spinto molti intellettuali della stessa generazione ad abbracciare in
quegli anni la causa comunista. Ma mentre questi ultimi non sarebbero
mai stati costretti a rinnegare il loro passato (se non per qualche
eccesso), coloro che, magari per un caso, erano finiti «dalla parte
sbagliata» — con l’ovvia eccezione di quelli che (come Gentile) furono
uccisi — si sentirono in obbligo di occultare, chi più chi meno, i loro
ingombranti trascorsi. Tutti, tranne il drammaturgo norvegese Hamsun che
aveva avuto il Nobel nel 1920, prima che i fascismi entrassero in
scena, e che il 7 maggio del 1945, quando Hitler e Mussolini erano stati
sconfitti, scrisse sul quotidiano «Aftenposten» un necrologio proprio
di Adolf Hitler, del quale si proclamava «fedele seguace» per poi
definirlo «un pioniere dell’umanità», «un apostolo del diritto di tutte
le nazioni», «un riformatore di altissimo rango». Hamsun aveva 86 anni,
la Norvegia era in procinto di essere liberata, e i tipografi
dell’«Aftenposten» trasecolarono al cospetto di quel testo che sarebbe
costato all’autore detenzione, processo e manicomio criminale. Ma lo
diedero ugualmente alle stampe.
Hamsun, secondo Colombo «uno dei
più grandi romanzieri del secolo scorso», si era avvicinato ai nazisti
su spinta della giovane moglie, che per conto proprio aveva
precedentemente preso contatto con Joseph Goebbels. In seguito Goebbels
si era invaghito di quell’intellettuale norvegese che in segno di stima
gli aveva addirittura donato la sua medaglia del Nobel: più volte il
ministro della Propaganda del Terzo Reich lo aveva citato nei suoi diari
con espressioni assai amichevoli ed elogiative.
Hamsun era uno
scrittore molto particolare. Il suo Il risveglio della terra ,
pubblicato nel 1917 — e che tre anni dopo gli sarebbe valso il Nobel —
conteneva diversi spunti antisemiti a dispetto del fatto che nel suo
Paese, la Norvegia, la comunità ebraica praticamente non esistesse.
Nonostante ciò il libro fu universalmente elogiato e considerato
pressoché dall’intera comunità letteraria internazionale alla stregua di
un capolavoro. Fu solo nel 1934 che Hamsun si iscrisse al partito
filonazista norvegese di Vidkun Quisling. Quando nell’aprile del 1940 la
Germania hitleriana invase la Norvegia, scrisse articoli per accusare
di tradimento re Haakon VII, che aveva scelto l’esilio, e biasimò il
presidente del Parlamento (di origine ebraica) Carl Joachim Hambro,
fuggito in Svezia. Suo figlio Arild fu poi tra gli ottomila giovani
norvegesi che si arruolarono nelle Waffen SS per combattere sul fronte
orientale contro i russi. Ma, rileva Andrea Colombo, il suo rapporto con
gli uomini di Hitler — e con lo stesso Hitler — fu «tutt’altro che
idilliaco».
Allorché i nazisti presero il potere in Germania, il
drammaturgo norvegese fece di tutto per salvare l’ebreo tedesco Max Tau,
suo amico di lunga data. E quando i tedeschi invasero il suo Paese,
condusse una sfibrante battaglia, costellata da telegrammi a Hitler e al
suo luogotenente in Norvegia Josef Terboven, per ottenere la
liberazione di alcuni condannati a morte. Il 26 giugno del 1943 fu
ricevuto da Hitler nel rifugio bavarese di Berghof. Il dittatore voleva
essere piacevolmente intrattenuto con una conversazione di carattere
letterario da uno scrittore, Hamsun, che sapeva essere un suo
estimatore. Ma Hamsun lo sorprese con una serie di rilievi al
comportamento di Quisling e Terboven; chiese ancora una volta
insistentemente che alcuni prigionieri venissero rilasciati e diede
prova, nel colloquio con il dittatore, di un coraggio che nessun altro
degli invitati a quel genere di colloqui aveva e avrebbe mai mostrato.
Fino al punto che Hitler perse le staffe e all’improvviso, senza neanche
salutarlo, uscì dalla stanza urlando: «Non voglio più vedere questo
pazzo!». Quel «pazzo» fu dunque l’unico che, quando Hitler era vivo e al
potere, osò sfidarlo incontrandolo di persona. Ma fu anche l’«unico»
che, quando il Führer fu sconfitto e si uccise, si sentì in dovere di
parlarne in termini elogiativi. Pur sapendo che sarebbe stato lasciato
solo e l’avrebbe pagata cara.
Quando nel 1948 gli fu concesso di
uscire dal manicomio criminale, si mise a scrivere un’autobiografia, Per
i sentieri dove cresce l’erba , nella quale non ritrattò nulla della
propria «fede» filonazista, disse di aver avuto l’impressione di essere
«spiato» dai tedeschi, ricordò che in ogni momento avrebbe potuto
andarsene in Inghilterra, dove sarebbe stato accolto a braccia aperte, e
non lo aveva fatto. Ma, in merito alle sue parole filonaziste degli
anni Trenta e Quaranta, volle anche aggiungere: «Nessuno mi disse allora
che quanto andavo scrivendo era sbagliato, nessuno in tutto il Paese.
Mai che mi sia arrivato il minimo cenno d’avviso, né un piccolo buon
consiglio dal mondo esterno». A proposito del rapporto dell’Europa
settentrionale con il nazismo, Colombo ricorda che «parte dei settori
più avanzati e progressisti della società norvegese avevano visto con
simpatia quel movimento pangermanico che predicava il ritorno al
paganesimo nordico, al naturismo e ai valori della terra». Ed è da
sottolineare che l’autore parli dei «settori più avanzati e
progressisti».
Un discorso che per vie traverse ci conduce a
Konrad Lorenz, ispiratore dell’ecologismo contemporaneo, il quale da
giovane fu un convinto nazista. Sosteneva, Lorenz, che i malati mentali e
i portatori di patologie genetiche andassero sterilizzati per far
trionfare la «bestia bionda», la razza ariana perfetta. Volontario nella
Wehrmacht sul fronte russo, fu catturato dai sovietici e per
sopravvivere mangiò ragni. Rinchiuso in un gulag, ne approfittò per
studiare i rituali di corteggiamento tra le pulci da cui era afflitto
nella sua baracca. Diceva Lorenz: «Se non effettuassi costantemente una
certa selezione tra le mie oche domestiche, eliminando i frutti in
eccesso degli incroci, entro poco tempo gli esemplari di sangue puro di
oca selvatica verrebbero sopraffatti dalla concorrenza numerica dell’oca
domestica». Mutatis mutandis , «lo stesso vale per l’uomo della grande
città». È, sostiene Lorenz, «statisticamente assodato che gli individui
che presentano degenerazioni morali raggiungono in media un tasso di
riproduzione enormemente più alto degli individui di pieno valore». Ecco
perché, per lui, bisognava eliminare nelle oche come nell’uomo, «i
frutti in eccesso degli incroci» e favorire lo sviluppo degli «esemplari
di sangue puro». Ne discende che sterilizzare la popolazione «dal germe
della degenerazione», sottolinea Colombo, è «un passo necessario per la
sopravvivenza di un popolo».
Abbiamo detto che nel 1941 Lorenz
indossò la divisa della Wehrmacht. Ma le sue attività, secondo Colombo,
sono avvolte da «un inquietante velo di mistero». Nella sua
autobiografia scrive «erroneamente» che già nel 1942 fu preso
prigioniero dai russi, i quali invece lo catturarono solo nel 1944. Nel
frattempo, ricostruisce l’autore, «sembra che abbia lavorato alla
“selezione” del popolo polacco, per valutare chi poteva vantare una
componente di sangue tedesco e quindi evitare i lavori forzati e i campi
di concentramento». Dopodiché Lorenz finirà nei campi russi dove, come
si è detto, si applicherà allo studio delle pulci. E farà anche amicizia
con i carcerieri sovietici. Rientrato in Austria nel 1948, tacerà del
tutto sul suo passato nazista e in breve diventerà un astro nell’ambito
della ricerca zoologica. Nel 1973 riceverà il Nobel.
I suoi
trascorsi filo-hitleriani verranno alla luce solo nel 1977 grazie a un
articolo di Leon Eisenberg sulla rivista «Science». Lorenz si difenderà,
undici anni dopo, alla vigilia della morte, con un’intervista in cui si
dichiarerà pentito e dirà di aver «ingenuamente» sperato che il
nazionalsocialismo avrebbe portato «qualcosa di buono in particolare in
rapporto alla preservazione dell’integrità biologica dell’uomo». Ma a
questo punto della sua vita era da tempo un idolo degli ecologisti, si
era messo alla testa dei manifestanti che si battevano contro il
nucleare e si opponevano alla costruzione di una centrale idroelettrica
sul Danubio. Sicché in pochi gli rinfacciarono le rivelazioni di
Eisenberg.
Del grandissimo poeta T. S. Eliot, Colombo ricorda
l’editoriale che nel 1928 scrisse su «Criterion» per difendere le idee
di Charles Maurras e dell’Action Française dagli attacchi del Vaticano.
Riporta altresì in luce le conferenze che nel 1933 Eliot fece in
un’università della Virginia in cui auspicava di vivere in una società
senza «pensatori ebrei». In questi discorsi Eliot contrappone alla
«modernità omologante» gli americani della Bible Belt , usciti sconfitti
dalla guerra civile, ma portatori dei tradizionali valori cristiani.
«Il conflitto», scrive, «è tra tutto ciò che è locale e spiritualmente
vivace», in contrapposizione «all’uniformità del modello newyorkese».
L’America dominante, quella dell’«industrializzazione senza freni»,
«distrugge prima di tutto le classi superiori»: un «presidente di un
consiglio di amministrazione», afferma l’autore di Assassinio nella
cattedrale , «non sarà mai un aristocratico». L’unico «artista che
sopravvive» in una società yankee è il «produttore cinematografico».
Eliot in queste allocuzioni universitarie è allarmato perché la società è
sempre più «corrosa dal liberalismo». Il tarlo
dell’industrializzazione, così come è stata imposta dal mondo nordista,
si è rivelato come «il più grande disastro della storia americana».
Dalla «tragedia della guerra di Secessione» l’America «non si è mai
ripresa e forse non si riprenderà mai». Anche se, dice ancora Eliot,
negli Stati del Sud, rimasti fedeli alle loro tradizioni, una rinascita è
ancora possibile, se non altro in quanto «sono i più lontani da New
York» e da tutto ciò che la grande città rappresenta. In primis
«l’invasione di razze straniere», a cominciare dagli ebrei.
La
tradizione, per Eliot, è questione di razza. Lo dice lui stesso
esplicitamente: «La tradizione è nel sangue non nel cervello». È «il
mezzo attraverso cui la vitalità del passato arricchisce la vita
presente». È un «organismo vivente», non un «sentimento» o
un’«astrazione politica». Parte importante di tale «organismo» sono la
«stabilità», «l’omogeneità etnica» e «l’unità di un retroterra religioso
comune». Per noi «l’unica tradizione giusta è quella cristiana». Ecco
perché in questo tipo di società «gli ebrei liberi pensatori» non sono
bene accetti. Nella società vagheggiata dall’autore di Quattro quartetti
uno spirito eccessivamente tollerante «va deprecato». Dobbiamo
condannare chi auspica una riconciliazione con il progresso, il
liberalismo, la civiltà moderna. Il testo di riferimento, per Eliot,
deve essere il Sillabo di Pio IX. Da queste conferenze verrà tratto un
libro che Colombo definisce «in qualche modo maledetto», After Strange
Gods , che Eliot «non vorrà mai più ristampare». Nel 1948 il poeta
conquisterà il Nobel. A differenza di Hamsun e Lorenz, gli altri due
premiati a Stoccolma, Eliot aveva però fatto in tempo a prendere le
distanze dalle sue idee precedenti. E lo aveva fatto già alla viglia
della Seconda guerra mondiale: in un pamphlet del 1939 aveva sferrato un
durissimo attacco al razzismo nazista. Nel 1940, poi, si era
pubblicamente ricreduto sul suo appoggio all’Action Française e aveva
biasimato Maurras per essersi schierato con Vichy e con i tedeschi.
Anche per questo, nel secondo dopoguerra non si sentirà mai in dovere di
dare spiegazioni approfondite circa le sue prese di posizione degli
anni Venti e Trenta.
Si può parlare di viltà? Colombo non si
spinge a tanto, ma parla esplicitamente di «viltà» per l’assenza di
Martin Heidegger ai funerali del suo maestro (di origini ebraiche)
Edmund Husserl, che si tennero a Friburgo il 29 aprile del 1938.
L’autore loda invece il coraggio mostrato con la domanda di grazia per
Robert Brasillach da parte di François Mauriac, Paul Valéry, Jean
Cocteau, Albert Camus e alcuni altri. Domanda che verrà ignorata dal
generale de Gaulle e non risparmierà allo scrittore trentacinquenne la
fucilazione il 6 febbraio del 1945.