Corriere 14.9.17
Renzo Piano
«Giocavo con la sabbia dei cantieri
e oggi all’improvviso compio 80 anni
Il regalo più bello? La mia squadra»
di Stefano Bucci
C’è
un ricordo nella storia di Renzo Piano, un ricordo molto personale che
ha però segnato anche il suo futuro di architetto e che più volte
riemerge con forza nel giorno del suo compleanno. Un compleanno
importante: oggi l’architetto che ha trasformato il Centre
Pompidou-Beaubourg di Parigi (1977) e il nuovo Whitney Museum di New
York (2015) compie 80 anni. È quello di un Renzo bambino che gioca tra i
mucchi di sabbia, non mucchi di sabbia qualsiasi ma quelli dei cantieri
della sua famiglia, una famiglia di costruttori, in una Genova che
ancora adesso gli è rimasta nel cuore («Qui sono nato»), anche se da
tempo la sede operativa del suo studio, nonostante la storica filiale
vista mare di Vesina, sembra essere diventata Parigi, al numero 34 di
rue des Archives, in pieno Marais. «C’è una linea diretta — racconta —
che non si è mai interrotta e che da quei mucchi di sabbia mi ha guidato
fino ai miei cantieri di oggi. È quella del fare bene». Perché, in
fondo, l’architetto non ama la teoria, ma la pratica: «Sono come il
fornaio che per fare bene il pane deve alzarsi nel cuore della notte e
mettersi a lavorare».
Tra un summit per il nuovo Forum della
Columbia University di New York e un incontro per definire i tempi di
apertura del nuovo Palazzo di Giustizia di Parigi (sei mesi), il più
grande d’Europa, Piano si confessa. Che cosa si prova a ottanta anni?
«Non riesco ancora a capire come possa essere successo, quello di cui
sono invece sicuro è che non mi è mai piaciuto pensare a quello che
avevo già fatto ma guardare al futuro, ai miei prossimi progetti».
Certo
non pochi, almeno scorrendo l’elenco dei cantieri in corso: l’Academy
Museum of Motion Picture di Los Angeles, in pratica il museo degli
Oscar; il Centro di chirurgia pediatrica a Entebbe in Uganda (in
collaborazione con Emergency); il museo archeologico di Beirut; il
Lenfest Center for Arts, il Jerome J. Greene Science Center e il Forum,
tutti per la Columbia University a Harlem, New York ; l’École normale
supérieure Paris-Saclay; la trasformazione di un’ex centrale elettrica
oggi in disarmo, subito alle spalle del Cremlino, due ettari di degrado
urbanistico destinati a diventare il nuovo polo artistico-culturale di
Mosca. Si aggiunge l’impegno continuo, che ha preso corpo dopo la nomina
a senatore a vita, legato al gruppo di lavoro G124 che prende il nome
dal numero dell’ufficio di Piano a Palazzo Giustiniani, trasformato in
un laboratorio per progettare la riqualificazione delle periferie delle
città italiane.
Il passato, quello glorioso contrassegnato dal
Pritzker Prize (l’Oscar dell’architettura) nel 1998, Piano sembra
volerselo costantemente lasciare alle spalle o piuttosto «farlo
diventare parte fondamentale della sua storia di oggi». Bando, dunque,
ai rimpianti. Non a caso, tra una riunione e l’altra, Piano cita la
parabola della moglie di Loth che si volta indietro e diventa una statua
di sale: «Non credo di correre questo rischio, nemmeno il giorno del
mio compleanno». Ad aiutarlo anche la sua passione «non per la teoria,
ma piuttosto per la pratica quotidiana: so benissimo che il lavoro
giornaliero nello studio con i miei ragazzi è la mia forza». E conclude:
«Guardare avanti mi tiene in vita».
Oggi Piano festeggerà con
loro (oltre che in famiglia): una riunione per dire «che loro sono uno
dei regali più belli, perché mi hanno permesso di fare cose splendide». A
questo proposito, una piccola curiosità: «Nessuno mi dice mai quanti
siano davvero, forse 170 a Parigi, forse un centinaio a Genova, più un
altro piccolo gruppo disperso negli altri miei cantieri sparsi per il
mondo». Tra le tante cose splendide del suo lavoro Piano cita poi «i
piccoli problemi tecnici sui cantieri, ad esempio, una falda d’acqua che
si rivela più alta del previsto: sono quei problemi che fanno bella la
mia professione». D’altra parte nel suo Giornale di bordo (Passigli,
2005) aveva già scritto: «Ho cominciato dal fare: dal cantiere, dalla
ricerca sui materiali, dalla conoscenza dei modi concreti di costruire.
Il mio percorso è partito dall’immediatezza della tecnica, per arrivare
alla complessità dell’architettura come spazio, espressione, forma».
Solo
di passaggio si finisce così a parlare del celebratissimo Centre
Pompidou (firmato con l’amico Rogers) che a sua volta ha appena compiuto
quarant’anni, edificio che ha cambiato in un colpo solo l’idea di
piazza e l’idea di museo fondendole in un’unica identità: «Mi piace però
pensare stia lì a guardarmi, che sia qui a sorvegliare il mio lavoro
quotidiano, sarà per questo che è l’edificio che amo di più». O almeno
quanto la Fondazione Renzo Piano nata nel 2004 «per trasferire
l’esperienza di Piano alla prossima generazione di progettisti e
promuovere il suo pensiero in architettura, attraverso la didattica, le
mostre, l’editoria». In pratica, un laboratorio che mette «a bottega»
(con tanto di borse di studio) i giovani architetti.
L’impegno di
Renzo Piano sembra guardare appunto ai giovani, invitandoli a dimostrare
che «la tradizione del nostro Paese è da sempre fatta da grandi
architetti e grandi progetti». E insegnando loro «l’importanza della
consapevolezza, soprattutto per quello che riguarda i grandi temi come
la fragilità della Terra e delle nostre periferie». Dove «la bella
architettura può servire a risolvere i conflitti perché un buon progetto
è sempre un gesto di pace, di coesione» (i due nuovi progetti parigini,
quello del nuovo Tribunale e di Saclay, toccano appunto due banlieue ,
la Nord e la Sud, della stessa metropoli). Nel segno di un costante
impegno civile: «Fa parte del mio Dna, della mia formazione. Da qui sono
nati gli spazi pensati per incontrarsi e crescere, un concetto che
arriva dagli anni dei miei studi universitari, ma anche dal patrimonio
genetico della mia famiglia». Quello, ancora una volta, dei mucchi di
sabbia dove Renzo giocava da bambino.
Lo studio è dunque un
«centro del mondo» che non ruba spazio al privato («sono appena andato a
visitare il Louvre con mia moglie e il mio figlio più piccolo») dove
non ci sono «incontri di lavoro con committenti o con i collaboratori ma
seminari aperti dove si affrontano i problemi» (e dove «il più delle
volte pranzo»). Quei problemi che sono uno dei lati più intriganti del
mestiere di architetto, soprattutto «se si trova il modo di risolverli».
Come la capacità di vivere e di capire la realtà che ci circonda: «Il
progetto di Entebbe, ad esempio, mi ha fatto toccare con mano la forza
umana e il potenziale dell’Africa». E, tanto per ribadire le sue radici
di costruttore, sempre sulle stesse rive del Lago Vittoria ha scoperto
che «l’argilla che si trova lì è fantastica, simile a quella delle
nostre vecchie case, un’argilla capace di isolamento termico perfetto».
La buona architettura in una realtà difficile (come Entebbe, Beirut o le
periferie) è davvero «una goccia d’ossigeno, una goccia importante
ancora più utile se l’ossigeno è scarso».
Per tornare al quotidiano, Renzo Piano avrà pure un segreto per essere Renzo Piano: «Saper prendere le distanze».
Come?
«Dopo aver passato la giornata in studio sui miei progetti, cerco di
ritagliarmi un momento per me. Esco, non per fare la spesa perché non mi
piace, ma per una passeggiata sulla Senna, perché l’acqua mi piace
anche se preferisco quella salata alla dolce, e ritrovarmi con me
stesso. Così riesco a prendere le distanze e a capire che c’è un mondo
fuori. Se non lo facessi mi sentirei davvero vuoto, sarei un vuoto a
perdere».