La Stampa 14.9.17
L’inerzia di San Suu Kyi davanti al dramma del popolo rohingya
di Gianni Riotta
«Sono
i militari buddisti a stuprare le donne musulmane Rohingya in Myanmar?
Impossibile, son troppo brutte». «Una donna buddista farebbe meglio a
sposare un cane rabbioso piuttosto che un musulmano». «Voglio
congratularmi con gli assassini dell’avvocato musulmano Ko Ni, leader
islamico a Yangon: han fatto benissimo!». «Alla Aung San Suu Kyi piace
aiutare le bestie bengalesi? Io la fermerò». A pronunciare queste frasi
di odio non è un blog razzista, ma Ashin Wirathu, serafico monaco
buddista di 49 anni, raccolto in meditazione nel saio color zafferano.
Wirathu è l’ispiratore del terrorismo buddista contro la minoranza
musulmana dei Rohingya in Myanmar, l’antica Birmania, guidando il
movimento 969 e il gruppo Ma Ba Tha, la cui rivista Aung Zay Yatu
proclama fiera «Razza e religione ci divideranno, fino alla fine del
mondo».
In Myanmar vivono 53 milioni di persone, in maggioranza
buddisti, solo il 4% sono i musulmani Rohingya, un milione e centomila
concentrati nello stato di Rakhine che i buddisti chiamano con disprezzo
«Bengali». Dopo scontri, violenze e repressioni che hanno portato a 400
morti, il saccheggio e l’incendio di molti villaggi e la fuga in
Bangladesh di 140.000 Rohingya (10.000 sono invece i profughi buddisti),
il mondo pressa la leader Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e
figlia dell’eroe dell’indipendenza birmana, perché fermi la carneficina.
Il focoso giornale inglese «The Guardian» chiede che le venga ritirato
il Nobel, ignorando le regole del premio, che, si sgola Olav Njolstad,
capo dell’Istituto Nobel, non permettono di revocare i riconoscimenti
concessi.
Il prestigio della Aung San Suu Kyi è sporcato da quello
che molti chiamano genocidio, razzie orrende condannate da Papa
Francesco che in novembre ha in programma una missione a Yangon,
capitale del Myanmar, come dal Dalai Lama, capo spirituale del buddismo
tibetano, certo che «Il Budda aiuterebbe i musulmani» e dal segretario
generale Onu Antonio Guterres, che implora «Catastrofe umanitaria,
fermate le violenze». Né il pontefice, né il Dalai Lama, né l’Onu
intimidiscono però Wirathu: «Posso spiegarvi perché il Buddha insegna a
non molestare una zanzara, ma non posso permettere ai musulmani di
conquistarci».
Lo stupore per l’inerzia di Aung San Suu Kyi e lo
sconcerto nel vedere monaci buddisti aizzare le torme assetate di sangue
sono conseguenza della nostra visione romantica del mondo. I buddisti
sono per noi, da sempre, i pacifici bonzi vietnamiti che si immolavano
in un rogo per protestare negli anni Sessanta contro la persecuzione
della giunta cattolica a Saigon, sono le massime ineffabili del Dalai
Lama o la saggezza Zen del delizioso libretto Adelphi «101 storie Zen».
La verità è purtroppo, come sempre, più complessa e terribile.
L’insegnamento buddista, nella sua millenaria tradizione, propone una
fede che condanna la violenza e auspica la tolleranza come strada
maestra per l‘illuminazione, eppure la comunità buddista appoggiò il
programma militarista e imperialista del Giappone durante la Seconda
guerra mondiale, con un precetto pari in ipocrisia al «Dio è con noi»
dell’esercito nazista: «È necessario che uno muoia, purché tanti
vivano», anche se a morire furono milioni. La durezza della repressione,
fisica e spirituale, imposta da Pechino al Tibet dopo l’invasione del
1950, porta a simpatizzare, giustamente, con i pupilli del Dalai Lama
eredi dell’ancestrale «Libro tibetano dei Morti». Si dimentica, però,
che quando l’Armata popolare cinese entra in Tibet non occupa un Eden di
pace e amore ma vallate di sfruttamento terribile, con i servi della
gleba costretti a spaccarsi la schiena per ingrassare i monasteri
buddisti, come nell’Europa feudale.
Wirathu è detto «La faccia del
terrore buddista», Madame Aung San Suu Kyi ne era invece la faccia
ammirevole, con la sua grazia, eleganza, la lunga sofferenza per la
libertà. Nelle più profonde meditazioni Zen, luce e buio non sono
opposti, bene e male si intrecciano e neppure la nobiltà del Buddha
resta innocente nel caos della Storia. Se il Nobel nessuno può toglierlo
alla Aung San Suu Kyi, carisma e candore sono a rischio. Da qui alla
prossima visita di Papa Francesco deve dimostrare di saper proteggere i
cittadini musulmani dalla ferocia buddista dei Wirathu in saio.