La Stampa 14.9.17
“Ottant’anni e non mi fermo. Siamo ciò che trasmettiamo”
“Il cantiere che più mi è rimasto in mente è Berlino poco dopo la caduta del Muro”
di Andrea Plebe
Nella
vita, questa è l’ora della strega», sorride Renzo Piano. «Gli spagnoli
la chiamano la “hora bruja”, è quella in cui cambia la luce. La
luminosità si attutisce e avanza il crepuscolo. In qualche maniera, è
un’ora straordinaria… Come nei quadri di Magritte». Tardo pomeriggio di
vigilia nello studio parigino, la pioggia picchia sulle coperture
trasparenti sotto le quali ferve un’attività silenziosa, fra riunioni e
lavoro al computer. Oggi l’architetto genovese, senatore a vita, compie
80 anni: è sempre in movimento, due giorni fa era a Londra, presto sarà a
New York. Sabato scorso è stato consegnato il nuovo Tribunale di
Parigi, che entrerà in funzione fra sei mesi, alla Porte de Clichy, la
periferia più difficile della capitale francese: 90 aule, giardini
pensili, una costruzione che vuole scacciare l’immagine del luogo
oscuro: «La giustizia è uno degli strumenti per opporsi alla barbarie, e
con questo edificio si feconda anche la banlieue».
Architetto, non si riposerà un po’ neanche il giorno del suo compleanno?
«Plinio
diceva Nulla dies sine linea, nessun giorno senza una linea,
un’espressione poi ripresa da Paul Klee e con la quale è stata
intitolata la mostra al Zentrum che abbiamo realizzato a Berna. Prima di
andare a insegnare, ogni mattina, appena alzato, Klee realizzava
un’opera».
Lei non ha mai insegnato all’Università, però il
trasferimento della conoscenza è uno dei temi che la interessano di più.
Da dove nasce?
«Vent’anni fa, ho visitato in Giappone il tempio
di Ise, che rappresenta un po’ la metafora del ciclo della vita. Ogni
venti anni il tempio, realizzato in legno, con alberi di cedro, secondo
particolari tecniche, viene demolito e ricostruito. Tra i venti e i
quarant’anni è la stagione in cui impari l’arte di costruirlo,
scegliendo gli alberi, tagliandoli… a quaranta hai imparato, e lo
costruisci. A 60, insegni agli altri, restituisci quello che hai
appreso. Il tempio è una scuola di vita: la durata delle cose sta nella
ripetizione del gesto, non nella longevità della materia. Un concetto
vagamente folle, per noi occidentali. Attraverso l’attività della
Fondazione, che ho voluto realizzare a Genova e ha ormai a dieci anni,
dove arrivano studenti da tutto il mondo, cerchiamo di trasferire la
conoscenza. Non è un gesto di generosità, direi che è naturale,
fisiologico. Dai, ma dai giovani prendi anche, perché portano con sé il
senso del futuro. Che la Fondazione sia a Genova non è un caso, lì ci
sono le mie origini culturali».
L’insegnamento dell’Università non basta, non è sufficiente?
«L’Università
deve dare delle nozioni, degli strumenti, ma oltre una certa età, i
22-23 anni, non serve più dare troppe informazioni. L’unica cosa che
serve è l’esempio, e la bottega qui funziona meglio. Io sono un
educatore un po’ anomalo. Ai giovani dico: abbiate coraggio, buttatevi,
prendete qualche rischio. Osate. E così c’è un momento magico in cui,
improvvisamente, scopri con straordinaria sorpresa la scintilla della
creatività. Quando realizzai la prima mezza cosa che funzionava, me lo
disse mio fratello Ermanno. Ti rendi conto e pensi: l’ho scritta io
questa frase, l’ho fatto io questo segno, l’ho composta io questa
musica, ho capito io come fare uno sgabello... La scoperta di un talento
proprio non è legato soltanto a un lavoro intellettuale o di alto
livello, ma a qualsiasi attività umana».
C’è un segreto per tutto questo?
«Il
segreto di un lavoro creativo è di saperlo condividere generosamente
con gli altri, senza farne la contabilità. Accade ovviamente che l’atto
creativo sia un momento solitario, di silenzio, quando dopo aver
dibattuto, studiato, cercato, esplorato, ti siedi e sei da solo. Ma
viene solo se hai accettato prima questa filosofia importante, che la
creatività va condivisa. E questo non è facile insegnarlo a scuola,
quindi la bottega funziona meglio».
Qual è stata la sua scuola?
«Praticare
il lavoro di gruppo in questa maniera viene da una vita passata così.
Io mi sono laureato a Milano nel 1964, i primi anni delle occupazioni
universitarie, ben prima del Maggio 68 a Parigi. Il lavoro di gruppo
allora era il credo, la filosofia, forse anche troppo. Certo, che se uno
che si interroga e basta… Io per fortuna facevo una specie di doppia
vita: di giorno lavoravo nello studio di Franco Albini, che era il mio
maestro, e di sera occupavo l’Università». Ma c’è un momento ancora
precedente».
Quale cantiere le è rimasto nella mente?
«Quello
di Berlino, nei prima anni Novanta, era da poco caduto il Muro. Su
cinquemila operai, i tedeschi erano cinquecento, tutti gli altri
venivano dal resto del mondo. Nel luogo dove si era consumata la più
grande intolleranza del XX Secolo, come scrisse Vargas Llosa, tutte
queste persone lavoravano insieme. Tanto che con Daniel Barenboim
realizzò il famoso balletto delle gru del cantiere che si muovevano al
suono della musica».