Corriere 1.9.17
Così Roma rischia di morire
di Sabino Cassese
C’è
una nuova «questione romana», non quella dei rapporti tra Stato e
Chiesa, ma quella del rapido declino della capitale d’Italia. Potremmo
oggi ripetere le parole con le quali l’ambasciatore francese a Roma
Gramont, nel 1860, sintetizzava il suo giudizio: «C’est ici que l’Orient
commence» (è qui che comincia l’Oriente). Con l’Unità d’Italia, Roma si
era sollevata al rango delle capitali europee. Ora è una città in stato
di abbandono. Le strade sono intransitabili a causa delle buche. Nei
casi più gravi, vengono tenute chiuse per evitare incidenti, ma così
impedendo alla gente di raggiungere le proprie abitazioni. Vi sono
lavori pubblici che attendono da quarant’anni d’esser fatti. Per la
pulizia di strade e giardini, in alcuni casi diventati pattumiere, si
ricorre ormai al «fai da te»: si paga qualche extracomunitario di buona
volontà, che provvede. Se un albero crolla, lo si circonda con qualche
segnale di pericolo e lo si lascia per terra. Alcuni luoghi pubblici,
anche i portici di una delle principali basiliche, sono intransitabili
perché vi sono persone accampate, che hanno fatto della strada la
propria casa. Tolleranza e incuria regnano sovrane. I trasporti pubblici
non funzionano, per cui tutti ricorrono ai mezzi privati, con
conseguenze gravi per traffico e ambiente. I vigili urbani sono
diventati una entità astratta. Gli amministratori locali vivono sulla
luna, invece di girare per le strade e constatare in che condizioni
sono.
Questo degrado — di cui ho tratteggiato solo i lati più
evidenti — non è cominciato da oggi, ma si è ora improvvisamente
accelerato. Mentre Roma ritorna a grandi passi verso il livello di una
città medio-orientale, Milano corre, e ai romani che visitano la
«capitale morale» pare di esser in un altro Paese.
Poiché una
nazione e uno Stato non possono tollerare questa situazione, occorre un
piano straordinario per Roma, che impegni tutto il Paese, che renda
concreta quella «promessa» che si legge nella Costituzione: «Roma è la
Capitale della Repubblica». Questo piano straordinario dovrebbe partire
da tre punti.
Il primo è affidare le funzioni di rappresentanza a
una persona diversa dal sindaco. Occorre riconoscere che oggi i sindaci
di Roma, di una città dove risiedono due capitali (quella dello Stato e
quella di una potenza mondiale, la Chiesa cattolica), sono caricati di
una funzione da ciambellani, debbono ricevere capi di Stato, visitare
pontefici, accompagnare personalità straniere in visita. Questo assorbe
energie e «vizia», abituando chi dovrebbe gestire e amministrare a stare
sotto la luce dei riflettori, accanto ai grandi nomi della vita
internazionale.
Il secondo è dare alla Capitale un ordinamento
speciale, come molte delle capitali del mondo (la Costituzione dispone
espressamente che «la legge dello Stato disciplina il suo ordinamento»).
Un ordinamento speciale che riconosca una realtà ineludibile: la
duplicità di funzioni del potere locale romano, che è chiamato anche ad
agire come capitale, quindi nell’interesse della intera nazione. Ciò
significa che, accanto al rappresentante scelto dal popolo, vi sia un
gestore che goda dei poteri necessari a intervenire sullo svolgimento
delle attività di interesse generale: per esempio, un organismo
politico, un ministro senza portafoglio che faccia sentire nella città
gli interessi del Paese e un organismo tecnico che dia attuazione alla
cura di questi interessi. Questo era inizialmente chiaro ai «padri
fondatori»: Quintino Sella, tra gli altri, pensò che la «città
amministrativa» non dovesse essere lontana dalla stazione ferroviaria,
perché non doveva servire i romani soltanto, ma anche tutti i cittadini
italiani.
Il terzo punto è abbandonare il ragionamento cinico:
lasciamo che i Cinque Stelle dimostrino quel che (non) sanno fare, in
modo da far capire che una dirigenza politica e amministrativa non si
improvvisa. Occorre invece riconoscere che l’evidente incapacità
amministrativa di quel movimento politico danneggia romani e italiani, e
che, quindi, vanno aiutati. Aiutarli vuol dire prestare alla città una
ventina di sperimentati amministratori pubblici, capaci di costituire,
con l’esempio, focolai di buona gestione, riconoscendo che per fare il
buon amministratore non basta essere un politico onesto.