Repubblica 26.8-17
Bertinotti e quel feeling con Cl “Mi ricordate le mie feste dell’Unità”
Applausi all’ex leader di Rifondazione dal popolo di Rimini: “Sono un esperto di sconfitte”. Al Meeting le testimonianze battono i discorsi dei politici
C’erano 1500 persone ieri ad ascoltare l’intervento di Fausto Bertinotti. L’ex presidente della Camera, già leader di Rifondazione comunista, è stato lungamente applaudito al suo arrivo
di Paolo Griseri
RIMINI. Si sfiora la standing ovation quando parla quasi in confessionale: «Ciò che di voi mi interessa di più è il vostro farsi popolo, la vostra capacità di costruire la relazione. A me questo ricorda la parte migliore della mia esperienza, le feste dell’Unità e le relazioni con le donne e gli uomini del movimento operaio». Fausto Bertinotti affascina il popolo di Comunione e Liberazione. E viceversa. L’alchimia che non ti aspetti nasce perché è coerente con il filo conduttore dell’altro meeting, quello che appassiona più delle passerelle dei personaggi televisivi: la ricerca di senso in un periodo in cui la politica, nemmeno quella un tempo cara ai cilellini, è più in grado di proporre soluzioni.
L’anziano comunista non può fare paura. Lo premette lui stesso: «Se c’è una cosa in cui sono esperto, sono le sconfitte». Ma anche Cl non si sente tanto bene. Non è più nel periodo sfavillante di Formigoni. Anzi paga ancor oggi il dazio dei compromessi di quella stagione. Forse per questo una folla di 1.500 persone riempie la sala «Illumino 3». Per ascoltare un intellettuale che non ha la pretesa di convincere. Che tiene, anzi, a distinguere, con un intercalare di rispettosa prudenza: «Nella mia eredità..». Ma che riconosce a Cl «il merito di non aver abbandonato il suo popolo », anche nei momenti di difficoltà, al contrario, si intuisce, di quel che accade a sinistra. Un comunista che nel dialogo con il professor Andrea Simoncini, cita Isaia: «Sentinella quanto resta della notte ». Chi è più nella notte oggi? Chi ha più bisogno di un fatto imprevisto che cambi il senso della storia? La risposta di Bertinotti appare minimalista: «Per chi ha l’ambizione a questa tarda età di dirsi ancora comunista, l’imprevisto è tutto ciò che ci può salvare».
L’imprevisto e la testimonianza. L’altro filo conduttore del successo di questa edizione. Gli oltre seimila ciellini che si siedono anche nei corridoi per ascoltare il racconto dei frati che vivono in Terrasanta, che sperimentano sulla loro pelle le ferite della Siria. I duemila che si lasciano catturare dalla storia della suora ugandese che strappa le ragazze dei villaggi alla violenza delle milizie. I molti che seguono per due ore la predicazione dei monaci buddisti. Più della politica attirano, le esperienze vissute in prima persona.
Questo colpisce i 400 mila visitatori del meeting, «il popolo» che ha affascinato Bertinotti. Le mostre sull’arte contemporanea, sulla Russia, ma soprattutto quella sulle testimonianze di chi lavora, alla fine della settimana sfioreranno le 40 mila presenze. Tra i politici hanno un buon successo Gentiloni, Letta, Tajani. Non si avvistano gli uomini della politica gridata, i Salvini, i Grillo. Non si capisce se perché il meeting non si è ancora sintonizzato sui nuovi mood della politica italiana o se, al contrario, è già andato oltre la propaganda fatta con la pancia.
Certo mai come in quest’anno di transizione il popolo di Cl sembra aperto a interloquire con chi è diverso, a tentare nuove strade. Al termine Bertinotti scende dal palco e continua a dialogare a tu per tu con il pubblico. Si avvicina un uomo sulla quarantina: «Ciao Fausto, ero un tuo segretario di circolo». Quale singolare percorso può aver portato quest’uomo a traslocare da Rifondazione a Comunione e Liberazione? Miracoli dell’alchimia di Rimini.
il manifesto 26.8.17
Meeting di Cl, Bertinotti superstar
«Sarà significativo che la mostra sul 1917 la faccia il Meeting di Cl e non una forza politica di sinistra… Questo perché nella storia di Cl la tradizione è viva, mentre certa sinistra se ne è disfatta diventando colpevole di una damnatio memoriae». Così l’ex segrretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, ieri al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini. E durante il suo intervento i circa 1.500 presenti si sono spellati le mani.
«Dobbiamo porci il tema della fede, del senso della vita umana rispetto a una meta – ha detto ancora Bertinotti -. Per chi ha l’ambizione, a questa tarda età, di dirsi ancora comunista, l’imprevisto è tutto ciò che ci può salvare».
Repubblica 26.8.17
Addio a Menichelli l’autista di Berlinguer “Quel sorso di whisky prima dei comizi”
di Concetto Vecchio
ROMA. Se n’è andato Alberto Menichelli, lo storico autista di Enrico Berlinguer. Aveva 88 anni. In realtà rappresentò molto di più: caposcorta, amico personale, consigliere. Fu la sua ombra per 15 anni, dal 1969 al 1984. Era a Padova, quando il segretario del Pci si sentì male sul palco. «Quel giorno morì il mio partito», disse. Insieme avevano macinato migliaia e migliaia di chilometri, nella stagione esaltante delle giunte rosse, quando a metà degli anni Settanta il Pci fu sul punto di sorpassare la Dc, ma anche nel decennio terribile del terrorismo: le Brigate Rosse pedinarono a lungo il capo dei comunisti italiani. Berlinguer ebbe due scorte, una della polizia, l’altra del partito; Menichelli era così a capo di quattro uomini che vigilavano sul segretario giorno e notte. Guidava la prima macchina blindata d’Italia: «Gli operai di Pisa - raccontò Menichelli nella sua biografia
In auto con Berlinguer - ci avevano dato il vetro, i compagni di Roma avevano messo le lastre d’acciaio alle portiere. E c’era sempre una seconda vettura, ogni volta diversa, che ci precedeva e ci affiancava».
«Dopo i funerali di papà — racconta l’ex direttrice del Tg3 Bianca Berlinguer, la primogenita di Enrico — Alberto ci accompagnò a casa: “Ricordatevi che per voi Alberto Menichelli ci sarà sempre”. E così è stato davvero: io l’ho sentito ancora una settimana fa. Era così legato a noi figli che per due anni, dopo la scomparsa di papà, volle accompagnare a scuola con la sua Uno Bianca mia sorella Laura, che aveva 14 anni ed entrava al liceo: era una sua iniziativa personale, il partito non c’entrava più nulla. È stato così parte della nostra vita. Le nostre famiglie, la moglie, le due figlie, Alessandra e Laura, trascorrevano anche il Natale insieme».
Ogni mattina Menichelli si presentava a casa Berlinguer, prima in viale Tiziano, e poi, dal ‘74, in via Ronciglione, a Ponte Milvio, con la mazzetta dei giornali: una dozzina di quotidiani italiani, più due francesi, Le Monde e l’Humanitè, che il segretario sfogliava ancora in pigiama. Le giornate finivano regolarmente a tarda sera. Berlinguer, prima di rientrare, si fermava in latteria per comprare un litro di latte, perché «a quest’ora della sera il frigo è sempre vuoto». Al pari di altri uomini della Vigilanza del Pci sacrificò larga parte della sua esistenza per il partito, che allora contava milioni di iscritti. Definì quell’avventura umana e politica «il periodo più bello della mia vita».
Berlinguer, timidissimo, di fronte alle folle oceaniche si emozionava, allora Menichelli prima di ogni comizio gli allungava una fiaschetta per i liquori con dentro del whisky, Berlinguer ne beveva appena un sorso e vinceva così la stretta allo stomaco; Menichelli conservò poi quella fiaschetta come una reliquia. Fino all’ultimo ha onorato la memoria del leader, che anche ora parla ai giovani, presiedendo l’associazione culturale di Cinecittà dedicata a Berlinguer. «Alberto aveva capito papà nel profondo», dice ora Bianca, con la voce rotta dalla commozione.
il manifesto 26.8.17
Il vuoto politico lascia spazio al manganello
di Paolo Berdini
Le città vivono di avvenimenti simbolici che restano negli anni a venire. I due sgomberi del palazzo e dei giardini di piazza Indipendenza resteranno come una macchia indelebile sull’amministrazione Raggi.
Nei quattro giorni drammatici vissuti dalla comunità di rifugiati non si è affacciato né il sindaco né il suo vice, un atteggiamento che dimostra una intollerabile insensibilità sociale. La giunta che doveva riscattare la città dalla vergogna di mafia capitale si è asserragliata nel palazzo Senatorio e occupa il suo tempo a consultare Genova o Milano per avere lumi.
Possiamo suggerire di tentare di trovare un nome cui affidare il ruolo di Capo di gabinetto visto che è un anno preciso che fu sfiduciata Carla Raineri e da allora manca il garante della correttezza amministrativa degli atti comunali. Non era mai avvenuto prima.
E passando dal dramma alla farsa ecco le dichiarazioni del vicepresidente della Camera Di Maio che ha addirittura teorizzato la priorità dell’impegno del sindaco Raggi verso i romani, al di là dei quali ci sono evidentemente soltanto leoni. Per un movimento che voleva cambiare la cultura politica italiana non c’è male. Il peggio seguirà.
Se mancava la città capitale, a piazza Indipendenza c’era però lo Stato. Quello con il volto meraviglioso del poliziotto che consola la donna disperata e quello del prefetto Gabrielli che accusa della mancata utilizzazione del finanziamento di 130 milioni conquistato con fatica negli anni scorsi per risolvere i problemi dei senza tetto.
Su queste stesse pagine avevamo dato atto del suo lavoro quando era prefetto di Roma. Resta il fatto scandaloso che quei soldi non siano stati ancora spesi per responsabilità dell’amministrazione comunale.
È la prima volta che vinco il riserbo cui mi ero finora attenuto, ma dopo aver assistito a tre sgomberi avevo redatto e consegnato al sindaco e ai membri della giunta un progetto dal titolo «Un tetto per tutti» in cui tentavo di fornire un quadro di obiettivi per risolvere il problema delle occupazioni in atto a Roma.
Il primo era nel riuso delle caserme abbandonate.
Il secondo stava nella costruzione su aree pubbliche di piccole dimensioni comunali o dell’Ater (duemila metri quadrati) di edifici da assegnare a senza tetto. I 130 milioni di Gabrielli non erano certo sufficienti ma la bravura di una amministrazione si misura anche nella capacità di strappare risorse.
Questa proposta fu in particolare contestata dalla stessa Raggi che mi ricordò che i 5Stelle erano contro il consumo di suolo. Su un altro tavolo erano però favorevoli allo stadio della Roma che prevedeva cemento su 20 ettari (cento volte di più!) solo di parcheggi.
La terza stava nella piena utilizzazione del patrimonio pubblico spesso abbandonato o occupato da famiglie senza titolo.
La quarta stava nella legalizzazione di alcune delle occupazioni in atto perché la proprietà privata deve essere certo rispettata ma all’interno di quanto previsto dalla nostra Costituzione.
L’elenco era più ampio, ma ciò che preme sottolineare è il fatto che a Roma ha vinto l’insensibilità sociale e il disprezzo per le condizioni della parte più sfavorita della società.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Con l’inerzia e i silenzi si avalla l’altro volto dello Stato, quello del ministro Minniti che sta riducendo il gigantesco problema dell’integrazione degli immigrati alla sola chiave securitaria: così si smarrisce il senso della comunità urbana e si dà anche voce all’istigazione alla violenza del dirigente filmato alla stazione Termini.
* urbanista, ex assessore della giunta Raggi
Repubblica 26.8.17
La scuola nelle mani dei barbari
di Alberto Asor Rosa
SI PARLA sempre più spesso ma sempre più superficialmente della scuola in Italia. Per esempio: l’allungamento dell’obbligo fino a diciott’anni. Come? Perché? In quale modo? Non una parola di spiegazione sulla riforma (si vedano gli articoli di Mariapia Veladiano e Alessandro Rosina, su Repubblica giovedì e ieri). Se però si entra nel merito, e si passa al già programmato, la situazione appare ancora peggiore.
È INFATTI ufficiale che con l’anno scolastico prossimo inizierà la sperimentazione per ridurre gli anni delle scuole medie superiori italiane da cinque a quattro. È la riprova che siamo nelle mani dei barbari. Anzi, più esattamente, di barbari incolti.
Siccome nessuno può persuadere qualcuno che sia possibile studiare meglio la stessa mole di contenuti ed esperienze scientifico- disciplinari in un tempo più breve, restano tre motivazioni, abbondantemente propagandate, e cioè: 1. La minore spesa d’investimento; 2. Il più rapido avvio dei giovani al mercato del lavoro; 3. Il cosiddetto “allineamento” all’Europa.
Vediamo. 1. La spesa d’investimento nella cultura e nella formazione è drammaticamente sempre più bassa in Italia. L’attacco portato in questo senso all’Università nel corso degli ultimi anni è impressionante. Direi dunque che la logica è sempre la stessa: si cerca di omogeneizzare la scuola media superiore all’Università: minore spesa, maggior profitto (profitto di che?). 2. Si legge da tutte le parti, con dati ben fondati, della drammatica situazione dei giovani nell’attuale mercato del lavoro italiano: spedire di anno in anno una leva anticipata di un anno servirebbe a migliorare la situazione? 3. In Europa ci sono situazioni diverse, e in ogni caso il puro “allineamento”, come dice la parola stessa, sarebbe destinato a rappresentare una pericolosa frattura con bisogni e tradizioni della cultura italiana, sia scientifica sia umanistica.
Il vero problema dunque è un altro. A cosa serve la scuola media superiore? In ciascuna delle sue branche — modi e finalità diversi, certo, ma che alla fine dovrebbero risultare il più possibile convergenti — serve a due cose: orientare con tutti gli strumenti disciplinari necessari all’esercizio di una professione e/o alla scelta consapevole di una facoltà universitaria; ed egualmente — o forse soprattutto — formare nei giovani una cultura sufficientemente approfondita e consapevole, sia scientifica che umanistica, ripeto, che consenta loro di affrontare in maniera (discretamente) matura i mille problemi della società contemporanea, politici, tecnologici, economici, culturali in senso lato e, soprattutto, umani, nel senso estensivo del termine. La domanda da porsi, dunque, è: che cosa si può fare per innalzare il cosiddetto trend di addestramento e formazione che la scuola media superiore italiana trasmette ai suoi studenti?
Una buona scuola è fatta d’insegnanti ben preparati e consapevoli del ruolo fondamentale che svolgono e di buoni programmi. Un programma scolastico, vuoi di matematica vuoi d’italiano, vuoi di scienze vuoi di filosofia, è la ricaduta operativa di un’alta informazione e al tempo stesso di un’attenta rispondenza ai bisogni della società in mutamento, oggi più rapidi e sostanziali che in altre stagioni. Fino a che punto questa ricaduta oggi si verifica?
È di questo che oggi bisogna parlare: con gli esperti, ma anche, anzi in primo luogo, con gli stessi professori della scuola media superiore. Propongo per farmi capire un solo esempio. Ho “fatto” la mia maturità nel 1951 (ahimè!). In quegli anni il programma di letteratura italiana si concludeva pressoché ovunque con i tre numi del tardo Ottocento primo Novecento: Carducci, Pascoli, D’Annunzio. Già allora, dunque, molto in ritardo rispetto agli svolgimenti successivi. Ma non così tanto come accade oggi.
I centoventi anni che ormai ci separano dall’inizio del secolo che convenzionalmente definiamo Novecento non sono ancora entrati a pieno titolo — anzi spesso non sono entrati per niente! — nei programmi scolastici di cui stiamo parlando.
Dunque, il problema va rovesciato rispetto a come viene attualmente posto: invece di diminuire i corsi di un anno, si tratta di far entrare un secolo in più nei programmi.
Innovando, ma non distruggendo, si potrebbero riformulare i programmi dell’intero corso quinquennale, attribuendo all’ultimo anno il compito pressoché esclusivo d’investigare questi ultimi cento anni, decisivi per far capire ai giovani chi siamo e con cosa abbiamo a che fare. Portare la storia fino alla globalizzazione; consentire di leggere e approfondire, al pari di Cavalcanti e dei Promessi sposi, Primo Levi, Gadda, Pasolini, Calvino, de Céspedes e Ginzburg e — perché no? — Tabucchi e Del Giudice; accostarsi consapevolmente a filosofia, politologia, sociologia dell’ultimo secolo; avere una nozione precisa dello svolgimento storico delle scienze, di tutte le scienze, in questo periodo decisivo; conoscere per la prima volta (più o meno, suppongo) la storia dell’arte e della musica del Novecento (formidabili!).
Certo, i professori, per affrontare questo allargamento e questa “modernizzazione” dei programmi dovrebbero studiare un po’, ma ne varrebbe la pena. Non esistevano una volta i benemeriti corsi di aggiornamento? Sì, ma costavano troppo.
La Stampa 26.8.17
Gentiloni sposa la linea Minniti
“Non si accoglie senza legalità”
Il premier era stato informato dal Viminale del piano sugli sgomberi Pd in fermento. Orfini
di Fabio Martini
Nelle ultime settimane il profilo del governo sta cambiando. Il principio della legalità - dalle Ong agli sgomberi degli abusivi a Roma - sta corroborando l’immagine di “forza tranquilla” espressa sinora dalla figura del presidente del Consiglio: Paolo Gentiloni sta assecondando questa correzione e il silenzio-assenso sugli scontri di piazza a Roma lo conferma. Nessuna dichiarazione pubblica su una vicenda che, alla resa dei conti si è conclusa con qualche contuso e molte polemiche, ma l’appoggio alla linea Minniti da parte di Paolo Gentiloni (espressa personalmente al ministro), si riassume in due sostantivi: «L’accoglienza non può essere disgiunta dalla legalità».
In altre parole soltanto governando i flussi si può garantire un’accoglienza umana per i migranti. Sia alle frontiere che nelle città, dove va salvaguardato il principio della legalità. Per Gentiloni questa deve essere - e deve restare - la linea di una sinistra di governo e infatti in queste ore il presidente del Consiglio insiste su una espressione che riassume l’”ideologia” del governo nei prossimi mesi: «Serve una conclusione ordinata della legislatura» su tutti i dossier, dalla politica per i migranti alla legge di Stabilità.
A Palazzo Chigi nei giorni scorsi sono stati informati sulla decisione delle forze di polizia di intervenire e nessuna obiezione è stata opposta alla attuazione della direttiva del Viminale che prevede il progressivo svuotamento di tutte le occupazioni abusive. Naturalmente la gestione concreta degli interventi spetta a prefetto, questore e forze sul campo e su questo aspetto eventuali obiezioni e critiche non cambiano - nell’ottica del governo - l’opportunità dell’intervento. Dunque, il silenzio di queste ore del presidente del Consiglio è da intendersi come un silenzio-assenso alla linea della legalità interpretata dal ministro dell’Interno.
Una linea che, dal punto di vista comunicativo, si traduce in un approccio sobrio, riassunto nel concetto: “parlino i fatti”. Un approccio molto evidente sulla vicenda degli sbarchi. Da metà luglio, come è noto, gli arrivi di migranti si sono drasticamente ridotti, con un calo del 72 per cento nel mese di agosto, ma Gentiloni e Minniti - con una differenza abissale rispetto al precedente governo - hanno omesso di sottolineare un dato così eclatante. Un omissis naturalmente a tempo, nella speranza che il dato si consolidi e diventi in modo inoppugnabile la conseguenza oggettiva delle scelte del governo. Una sordina che presidente del Consiglio e ministro dell’Interno hanno deciso di concerto.
Una “coppia”, quella Gentiloni-Minniti, che comincia a fare ombra alle altre “filiere” del Pd, quelle che si preparano a contendersi la gestione della campagna elettorale. Sotto questo punto di vista si può leggere la sortita fortemente critica da parte del presidente del Pd Matteo Orfini: «Quello che è accaduto a Roma in questi giorni non è normale. E non lo deve diventare. Non si può continuare a pensare che un dramma sociale possa essere ridotto a questione di ordine pubblico». E ancora: «A essere inadeguata è stata anche la gestione da parte delle forze dell’ordine. Non si esegue uno sgombero con quelle modalità e non lo si fa senza una adeguata soluzione alternativa. Soprattutto, non si risponde alla povertà con le cariche e con gli idranti».
Una posizione fortemente critica con la quale Orfini, da una parte si candida a “leader” della sinistra Pd, in coppia col ministro Maurizio Martina e dall’altra “prenota” un posto al sole nella battaglia interna, che si preannuncia durissima, per la conquista di uno spazio politico in campagna elettorale al fianco del leader Matteo Renzi. In vista di quell’appuntamento le varie aree - Orfini-Martina, Franceschini, Delrio - contenderanno lo spazio di visibilità al tandem che finora ha mostrato qualità politica e crescente consenso tra l’opinione pubblica: la coppia Gentiloni-Minniti.
Corriere 26.8.17
L’impulso antico dei fuoriusciti pd. Dire sempre no
di Pierluigi Battista
L’impulso a dire sempre «no»: i fuoriusciti del Pd, raccolti nella sigla Mdp, sembrano ossessionati dalla politica dei veti. L’ultimo «no» in ordine di tempo è quello sull’ipotesi di candidatura a governatore della Sicilia di Fabrizio Micari, caldeggiato da Leoluca Orlando.
È come se si fossero mentalmente e psicologicamente bloccati nell’attimo fatale del referendum del 4 dicembre, quando dovevano dire perentoriamente «No». I fuoriusciti dal Pd, poi raccolti nella sigla Mdp, preceduta dal richiamo all’Articolo 1 della Costituzione, quello che evoca il lavoro come fondamento primo del nostro Stato, si sono incantati sul «No».
L’ultimo «no», detto anche veto, è quello pronunciato sull’ipotesi di candidatura a governatore della Sicilia di Fabrizio Micari, caldeggiato da Leoluca Orlando che peraltro era assiso con i maggiorenti di «Insieme» nella manifestazione della rediviva sinistra del primo luglio. «No» stentoreo e inequivocabile. Ma prima c’era stato il «No» all’ipotesi di anticipo congressuale del Pd proposta da Matteo Renzi, vero casus belli che ha portato alla separazione. Poi un «No» meno stentoreo alla proposta di Giuliano Pisapia di non frantumare tutti i ponti con il Pd per le prossime elezioni, poi diventato stentoreo quando Pisapia si è prodotto nel solidale abbraccio con Maria Elena Boschi, vedendo diminuita la possibilità di una sua leadership della sinistra che si allea con il centro. In verità c’erano stati alcuni «Sì» nelle candidature unitarie alle elezioni amministrative di giugno ed è stato un disastro, con il centrodestra trionfante. Per cui è tornata prepotente la tentazione del «No» globale. No a tutto, a candidati, alleanze, leader. Come se il «No» fosse il rimedio alla paura della contaminazione. Della contaminazione con Matteo Renzi, ovviamente.
Ma sembra quasi che vogliano indirettamente fargli un piacere a Renzi. Perché c’è solo una persona che, più degli esponenti del Mdp, vorrebbe cancellare dalla faccia della terra anche lontanamente l’alleanza tra il Pd e l’arcipelago ancora parecchio instabile della sinistra in cui hanno preso casa gli ex del Pd: e questa persona si chiama Matteo Renzi. Il quale infatti in Sicilia, come a voler agitare il drappo rosso che fa infuriare vieppiù un toro già abbastanza infuriato, costruisce un asse privilegiato con Angelino Alfano, gonfiando il prevedibile «no» della sinistra con una forza particolare. Ma è solo un pretesto, forse. È che un’antica malattia riaffiora quando tra ex della sinistra l’abisso della separazione crea rancori e risentimenti inestinguibili e ogni barlume di razionalità politica, di semplice ed elementare calcolo, in questo caso il calcolo di evitare la vittoria nell’isola del centrodestra o del Movimento 5 Stelle, viene travolto dalla deriva minoritaria, dalla pulsione alla divisione in minuscoli pezzi che, se soddisfano la legittima ansia di identità e di purezza, portano inevitabilmente allo scacco elettorale. Ossia, in una parola: alla sconfitta. Nobile, pura, ma pur sempre sconfitta.
Ecco perché il gioco dei veti reciproci, dei No incrociati, rischia per il centrosinistra di fare della Sicilia l’antipasto di quello che potrebbe accadere nelle elezioni per il prossimo Parlamento nazionale. E del resto il No a ogni leadership chiara, che sta facendo di «Insieme» il contrario di ciò che dovrebbe essere trasmesso attraverso quel motto, non può diventare una linea politica alternativa e nemmeno un’offerta appetibile per un elettorato sempre più depresso e frastornato. Un «No» che va benissimo per un referendum ma non per una proposta di governo, argomento che non dovrebbe essere estraneo a chi è stato ai vertici del Pd e del governo. La politica dei veti contiene un suo motivo di orgoglio, ma anche un irresistibile impulso suicida. In Sicilia. E anche a Roma.
Repubblica 26.8.17
Battute razziste sui social, accordi con esponenti di destra in nome dell’ordine. Quando gli “estremisti” interni fanno sbandare il Pd
Vendette tributarie e stranieri alla berlina quei dem di periferia che imitano la Lega
di Alessandra Longo
ROMA. In genere svelano i loro intimi convincimenti su Facebook o altri social, magari di notte, dopo aver passato una giornata all’insegna della fatica e delle catene del politically correct. Piccoli “leghisti” di sinistra, o associati alla sinistra, crescono. Carsicamente, qua e là, soprattutto in periferia, soprattutto nelle circoscrizioni, ma non solo. Per esempio, non sarà sfuggito a luglio l’exploit di Marco Andrea Ercoli, esponente di una lista civica, assessore alla sicurezza e alla polizia locale nella giunta di centro sinistra di Rozzano, hinterland milanese, guidata dal sindaco Barbara Agogliati. Il nostro Ercoli ha ripreso su Whatsapp un volantino anonimo che evidentemente aveva attirato la sua attenzione. Testo: «Calendario venatorio, aperta la caccia (tutto l’anno) per la seguente selvaggina migratoria: marocchini, romeni, bulgari, albanesi, kosovari, talebani, afghani, zingari, extracomunitari in genere». Il copione è sempre lo stesso: la frase o l’immagine dal sen sfuggiti, la riprovazione (e, a volte, se iscritti, la sanzione del partito) poi, a seguire, le reazioni del gaffeur: «Sono stato mal interpretato», «non volevo offendere»...
Fenomeno in crescita: esponenti del Pd, o associati a giunte di centrosinistra, che sparano a pallettoni come faceva l’ex sceriffo di Treviso, il mitico Gentilini, che voleva caricare i fucili contro gli immigrati- leprotti. Però lui era un pioniere del Carroccio, questi, invece, dovrebbero essere espressione delle forze cosiddette progressiste. E’ il caso della sindaca di Codigoro Alice Zanardi, Pd doc, balzata agli onori della cronaca pochi giorni fa quando ha deciso di aumentare le tasse comunali a chi accoglieva i profughi. Uno svarione? Nonostante la pioggia di critiche e l’intento sanzionatorio del suo partito, Zanardi si è difesa, a nome della comunità, come una leonessa: «Vengo dal mondo del volontariato, mai stata razzista».
Nel 2013, la sua collega di partito Caterina Marini, consigliera della circoscrizione Centro di Prato, ed ex portavoce del segretario della federazione pratese del Pd di allora Ilaria Bugetti, così commentava su Facebook il furto subito dalla sorella in casa e il ladro sorpreso sul fatto: «Extracomunitari ladri stronzi dovete morire subito. Era un magrebino agile come un gatto. Se mi date della razzista non me ne frega un cazzo». Post subito rimosso, ma la rete non perdona.
Davvero un po’ troppi casi o no? Va inclusa anche la recente performance di Patrizia Saccone, ex assessora ai servizi demografici e pari opportunità della vecchia giunta di centrosinistra di La Spezia, ora passata comprensibilmente, viste le sue idee, sull’altra sponda. La Saccone è appena tornata dalle ferie in Slovenia, Paese che le è piaciuto tantissimo. Sempre su Facebook: «La Slovenia mi lascia un bel ricordo. Case tenute bene e decoro ovunque, nessun arabo in giro e nessun immigrato, nessun mendicante ai supermercati e nessun venditore abusivo... ». Domanda: è Facebook che fa questo effetto o nel territorio si sta facendo strada l’ibrido in politica, un po’ leghista, un po’ compagno? Debora Serracchiani è consapevole del fenomeno: «Anche se hai un ruolo minore devi sapere che le tue parole pesano più di quelle degli altri. Invece sono convinta che spesso chi scrive su Facebook pensa di parlare privatamente in famiglia oppure, al contrario, di commentare al bar sport. Atteggiamenti entrambi sbagliati. A volte, in buona fede, c’è un uso errato della parola. Al di là degli eventi estremi quello che fa cilecca è l’approccio valoriale... Dobbiamo investire di più in formazione e cultura». Sacrosanto. Forse bisognerebbe prendere sul serio le Frattocchie 2.0.
Oppure seguire un’altra strada: fare come il presidente Pd del municipio genovese di Valpolcevera, Federico Romeo, che si è preso direttamente un camerata sovranista e gli ha affidato senza tentennamenti la delega sicurezza, trovando con lui sintonia operativa. «E’ finito il tempo di continuare a dedicare e perdere energie preziose alla ricerca di “etichette “- spiega Romeo - Siamo in un municipio a contatto con i bisogni quotidiani e non immersi nelle alchimie politiche che hanno portato a ben poco».
Repubblica 26.8.17
“Pericolosi 500 mila abusi” Ma i sindaci non utilizzano il fondo per le demolizioni
Il viceministro Nencini: su 50 milioni richiesti solo 3. Ischia celebra i funerali delle due vittime del terremoto. Il vescovo: crolli non colpa dell’abusivismo
di Mauro Favale
ROMA. Un numero preciso non esiste. Una stima, però, c’è: «In Italia, tra le centinaia di migliaia di edifici abusivi, ce ne sono mezzo milione in cui il livello di sicurezza è minimo ». Il dato lo rivela Riccardo Nencini, viceministro delle Infrastrutture con delega alla casa: «La cifra è confermata dall’ordine degli architetti», precisa. Anche Nencini, come Raffaele Cantone nel suo intervento ieri su Repubblica, è convinto che non ci sia un’alternativa agli abbattimenti: «La politica è fatta per decidere: se la norma ti obbliga ad abbattere devi procedere». E a chi, tra gli amministratori locali, nei giorni scorsi ha fatto notare come lo Stato dovrebbe mettere a disposizione la risorse adeguate per le demolizioni, il viceministro risponde così: «Cassa depositi e prestiti ha creato un fondo di 50 milioni di euro destinato ai Comuni proprio per abbattere gli edifici fuorilegge. Sa quanti ne sono stati spesi? Appena 3».
Un dato clamoroso che si aggiunge a un altra problematica segnalata da Nencini: la mancata vigilanza. «Come fanno gli amministratori o i vigili a non accorgersi degli abusi mentre vengono costruiti? Se io devo alzare un piano intero nella mia abitazione non lo faccio in una notte». Anche per questo il governo sta pensando di studiare, di concerto con l’Anci, l’associazione dei Comuni, «un meccanismo di surroga, una norma per colmare queste lacune. Perché se da una parte non procedi con gli abbattimenti e, in più, ci sono voragini nel controllo e nella vigilanza, allora il governo si deve porre il problema di come sostituire i Comuni in queste operazioni ».
Un ragionamento che arriva a cinque giorni dal terremoto di Ischia, mentre, nell’isola non è ancora partita una vera e propria conta dei crolli. Verrà effettuata nei prossimi giorni, come ha stabilito un vertice in procura a Napoli tra pm e carabinieri che ieri, tra l’altro, hanno sequestrato numerosi documenti presso l’ufficio tecnico del comune di Casamicciola. Intanto ieri il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, al funerale delle vittime morte nei crolli di lunedì sera, ha preso da parte il ministro dell’Interno Marco Minniti e gli ha fatto presente che «a Ischia non si può fare come Amatrice: le macerie vanno rimosse in fretta».
Nel frattempo, però, non si placano le polemiche sull’abusivismo nell’isola che, secondo il vescovo Pietro Lagnese, «non può essere ritenuto la vera causa dei crolli. C’è amarezza a essere additati come incoscienti ». Da parte sua, il viceministro Nencini spiega a Repubblica che «gli abusi non sono tutti dello stesso tipo: non posso assimilare la trasformazione di un ufficio in un’abitazione, o “l’apertura” di una finestra con un aumento della volumetria di una villetta che incide sul paesaggio. Se ho un abuso “minore” devo mettere in condizione il cittadino di sanarlo. Se esiste un danno ambientale, economico e un rischio per la sicurezza di tutti devo usare, giustamente, la mano pesante e procedere con le demolizioni».
Repubblica 26.8.17
In tre mesi il presidente francese ha speso 26mila euro per make up e parrucchiere. Ci sono precedenti illustri
Il bello della politica da Macron a Trump tutti schiavi del trucco
di Vittorio Zucconi
Nella spietata crudeltà della telecamera, fondotinta, cipria, correttore di imperfezioni, lacche e gommine sono indispensabili protesi per la naturale bruttezza o per gli insulti dell’età. Se quella del trucco era stata per decenni la condanna delle donne, il caso Macron, come quelli di Silvio Berlusconi e di Donald Trump, ha fatto giustizia almeno di questa discriminazione estetica.
L’immagine è tutto. Mentre politologi, opinionisti, strateghi elettorali setacciano e vivisezionano programmi e parole, il pubblico «vota per quello che vede», diceva Micheal Deaver il mago che creò il Ronald Reagan Show: e con lui, ex attore di Hollywood, aveva vita facile. Ma anche i politici più apparentemente “acqua e sapone”, anche i bacchettoni come Jimmy Carter - che pretendeva i propri due parrucchieri di fiducia alla Casa Bianca a 25 dollari per taglio - cedevano alla vanità dell’apparenza. Si truccava anche Barack Obama per le apparizioni televisive, cercando di rendere più omogenea la propria carnagione che il tempo aveva intaccato.
Ancora i maschi al potere non sono arrivati a mascara, ciglia finte ed estensioni per le chiome. Oggi la sfida per i loro truccatori è l’opposto di quella dei makeup-artist per le donne: gli uni devono rendere più femminili le loro clienti, gli altri si sforzano di mascolinizzare gli uomini, soprattutto quelli con la sindrome del Narciso Alfa, come Donald il Macho. Per i più anziani, i settantenni come Reagan o come Trump, la battaglia per mimetizzare le rughe obbliga ad acrobazie che nel caso di Donald si estendono dal collo da tacchino alla articolata pettinatura. A Ronald, benedetto da una capigliatura rigogliosa e naturale, bastava la lucentezza del classico Brylcreem. Per Donald, come ha spiegato la parrucchiera personale Amy Lasch, la coiffure di gusto pompadouriano richiede una complessa impalcatura di creme, colle, gomme che la ancorino nella innaturale collocazione.
Un volto disfatto, come sempre appare sotto le luci autoptiche delle tv, è vissuto come un segnale, appunto, di disfatta. Il viso struccato di Hillary Clinton quando apparve per ammettere la sconfitta era più di un segnale di fatica e di lacrime . Voleva essere la manifestazione pubblica dei suoi sentimenti privati. Il colorito arancione di Donald, che apparirebbe mostruoso come quello di un tenore lirico fuori dal palcoscenico, vuole invece comunicare ottimismo, salute, freschezza. E deve resistere ai suoi esagitati comizi.
Naturalmente, nell’America dove alla fine si devono seguire i soldi, i costi dell’immagine devono essere contenuti, per non scandalizzare un elettorato che si preoccupa di quanto spenda un politico per pettinarsi più di quanto il Tesoro sprechi in avventure belliche senza fondo. Clinton fu crocefisso per avere bloccato il traffico all’aeroporto di Los Angeles nel 1993, quando fece salire a bordo dell’Air Force One un coiffeur dei divi per acconciargli la soffice capigliatura pepe e sale al prezzo di 200 dollari, che dovette pagare lui. George W. Bush fu sospettato di utilizzare un filo di rossetto, per dare colorito alle sue labbra un po’ esangui, ma la voce fu smentita.
Sorprende naturalmente che un ragazzo, in termini di età dei leader politici, come Emmanuel Macron debba ricorrere alle arti dei truccatori. Il costo, quei 26mila euro, appare più da diva del cinema che da capo dello Stato, ma la tirannide del riflettore non risparmia nazionalità, ideologie, forme di governo.
È impossibile immaginare un De Gasperi col fondotinta, un Berlinguer con la gommina o un Nenni con la cipria sulla calvizie. Ma se anche gli autocrati ed ex colonnelli del KGB come Vladimir Putin si fanno sistemare dai truccatori per ostentare la propria virilità, nessun politico è al riparo. Tutto ciò che è politico, oggi deve essere truccato.
Repubblica 26.8.17
L’intervista.
Dogan Akhanli, autore dissidente, fermato in Spagna dall’Interpol su richiesta di Ankara
Lo scrittore fatto arrestare “Erdogan si sopravvaluta la sua fine non è lontana”
Chi lo può fermare? L’opposizione non ha la forza di batterlo ma i turchi alla fine reagiranno
di Raffaella Scuder
Dogan Akhanli, 60 anni, ora è in libertà condizionata a Madrid
«NON importa quello che accadrà, anche se mi gettano in prigione io non rimarrò in silenzio». Sono le parole di un dissidente turco che conosce bene l’inferno e le torture della prigionia. Ci è già passato tre volte. Dogan Akhanli ha 60 anni. Scrittore, attivista dei diritti umani, è diventato cittadino tedesco nel 2001. L’Interpol lo ha arrestato il 19 agosto a Granada, dove trascorreva le vacanze. Le purghe di Erdogan hanno varcato i confini della Turchia raggiungendo la Spagna. Il duro intervento della cancelliera tedesca Merkel e del ministro degli Esteri Gabriel lo hanno liberato. Akhani è fuori, a condizione che rimanga a Madrid. Dovrà attendere 40 giorni in attesa della decisione spagnola sull’estradizione. Considerato uno dei maggiori scrittori sul genocidio armeno del 1915 compiuto dagli ottomani, Akhanli è scappato dalla Turchia nel 1991, dopo essere stato imprigionato e torturato per due volte. Se la Spagna acconsentisse all’estradizione, Akhanli finirebbe in carcere per la quarta volta.
Akhanli perché è andato in Spagna? Era già noto l’arresto del 3 agosto a Barcellona di Hamza Yalcin, dissidente turco svedese.
«Mi era già successo nel 2010. Sono arrivato a Istanbul per assistere mio padre morente. Mi hanno incarcerato per 4 giorni e poi rilasciato. Le accuse caddero. Sapevo di rischiare. Ma ho scelto mio padre».
Questa volta?
«Quando ho saputo di Yalcin non avrei mai pensato che sarebbe potuto accadere una seconda volta. Sono stato ottimista ».
Cos’è successo quella mattina?
«Alle 7 bussano con violenza alla porta della mia camera d’albergo. Davanti a me, l’unità antiterroristica in assetto di guerra, armi spianate e giubbotti antiproiettili. Io ero in mutande. Loro spiazzati. Sembravo tutto tranne un terrorista. Mi hanno messo dentro. Era surreale finire in una prigione europea. Il giorno dopo fortunatamente ero libero».
Di cosa è accusato?
«Di un furto che avrei compiuto nel 1989 per conto di un’organizzazione terroristica, che non esisteva. Sono stato assolto nel 2010 e di nuovo accusato nel 2013 per lo stesso reato».
Alle prossime elezioni tedesche di settembre, Erdogan ha invitato i turchi-tedeschi a non votare la Cdu, la Spd e i verdi. Cosa ne pensa?
«Cosa ci sta chiedendo? Di votare per i nazisti di destra? È la cosa più stupida che ho sentito dal punto di vista politico. Si sopravvaluta, e questa sarà la sua fine».
Cosa ne pensa di lui?
«Da riformista è diventato un dittatore. E’ un miracolo che sia ancora al potere. Deve essere felice se riesce ad arrivare al 2020. Ha perso il sostegno all’interno e per questo non riesce a mantenere il potere. Lo dimostra l’esito del referendum del 16 aprile».
Repubblica 26.8,17
L’estasi dionisiaca nei morsi e rimorsi dei tarantolati
di Marino Niola
Questa notte a Melpignano nel Salento si rinnova il rito che ha un’eco già nelle Baccanti di Euripide e in Medea E che ha piegato al mito anche San Paolo trasformandolo nel grande taumaturgo immune a ogni veleno
Una menade in estasi danza nella notte. Tamburello nella destra e fiaccola nella sinistra. È una scheggia delle Baccanti di Euripide caduta sotto il tacco d’Italia. E incastonata, come una farfalla nell’ambra, sulla superficie di un vaso greco. Si trova in una sala del bellissimo museo Sigismondo Castromediano di Lecce, appartato foyer del politeismo salentino, dove si cammina piano piano per far perdere le
proprie tracce alle ombre del passato che, nell’austera costruzione gesuitica, vivono la loro cattività archeologica. In attesa del viaggiatore incantato che le le faccia tornare a ballare. Come Agave e le sue sorelle che, nella tragedia euripidea, vengono pizzicate dal pungolo divino, l’oistros, da cui il nostro estro, che scatena epidemie di danza notturna.
Un po’ come fanno ora le menadi femministe quando ballano la pizzica nella Notte della taranta, che domani, anche in diretta tv, riunirà a Melpignano il popolo del ragno ballerino. Sulle tracce di quel che resta dell’aracne mediterranea e del rito musicale che per secoli ha rappresentato l’antidoto ritmico ai palpiti di una terra in trance. «Deliquii giocolieri, estri smarriti» diceva il poeta barocco Giacomo Lubrano che nel ’600 assistette al ballo terapeutico delle donne in preda alla stravaganza velenosa della tarantola. Una musicoterapia che dal Medioevo costituisce un enigma per medici, letterati e filosofi. Nonché un problema per la Chiesa. Costretta a fare i conti con una storia non sua. Fatta di dee vendicative e di numi trasgressivi, morsi e rimorsi. Come quelli delle contadine che dopo aver subito il primo morso, pativano il cosiddetto rimorso, la recidiva del male che si manifestava una volta all’anno. Le chiamavano le spose di San Paolo perché andavano a ballare vestite di bianco a Galatina, come menadi pizzicate davanti alla statua dell’apostolo. Santu Paulu meu de le tarante, facitene la grazia a tutte quante. Era il loro stralunato Help!
Nel tarantismo salentino s’intrecciano i fili di una vicenda che viene da lontano. Da Dioniso e Medea. All’origine c’è proprio lei, la madre di tutti gli infanticidi che, dopo aver ucciso i figli, li gettò nelle acque di Punta Ristola, all’estremo del “finimondo” di Leuca. I due innocenti si trasformarono nei cosiddetti scogli dannati. «È stata lei la prima a sentire il rimorso », dicono le donne di Soleto, Calimera e Sternatia. Un vaso pugliese del III secolo a.C., ora a Monaco, la raffigura mentre fugge via su un carro guidato da un auriga che si chiama proprio Oistros. Pura coincidenza? Difficile, visto che il mito non lascia nulla al caso.
Platone, nelle Leggi, parla di malattie provocate dagli dei e che si curano con il movimento. Saltellando come cerbiatti al suono di strumenti dionisiaci. Proprio quel che facevano le tarantolate, che zompettavano come ninfe epilettiche. Obbedendo incantate al suono del tamburello e del violino, maneggiati da musicisti sciamani che conoscevano, per esperienza, la scala dei temperamenti, la gamma dei toni, le dissonanze degli umori e le consonanze degli amori. Era la rivincita degli antichi dei, declassati a demoni dal cristianesimo che li aveva occultati nei simulacri di santi benedicenti e di angeli svolazzanti. Ma, come diceva García Lorca, niente può l’angelo quando sente un ragno, per piccolo che sia, sul suo tenero piede rosato. Niente può e dunque si ritrae, smarrito, esitante. E proprio in questa esitazione si è prodotto il compromesso storico tra pathos pagano ed ethos cristiano. Che ha avvicendato Aracne e Dioniso, patroni dei sussulti mantici e delle esaltazioni coreutiche, con San Paolo. L’intellettuale della Chiesa, campione del logos e vincitore dell’oistros. Perché a Malta aveva neutralizzato il veleno di un serpente diventandone immune. Così, al termine di un morphing secolare, l’apostolo di Tarso diventa il signore delle tarantole, un Dioniso cristiano. Per effetto di quel dispositivo cumulativo della storia, che non scarta ma ricicla.
Non a caso il Salento è un incrocio di tempi e di culture. Su questo tavolato è passato il mondo: Messapi, Spartani, Romani, Bizantini, Longobardi, Normanni, Svevi, Spagnoli, Turchi, Levantini. Il risultato è il particolare mood salentino. Ragione e arzigogolo, sobrietà e signorilità. Un bizantinismo frugale, che arrotonda gli spigoli del tempo e i caratteri degli uomini. Sovrappone segni, recupera eredità, ricicla identità. Stratifica e giustappone. Al punto da fare di megaliti preistorici come dolmen e menhir, pietrefitte e specchie, matrici di mitologie e leggende. Si dice che ogni menhir custodisca un tesoro. Sotto la Specchia dei mori, a Martano, un paese della Grecia salentina, dove si parla ancora il griko, un dialetto greco giunto nel Medioevo da Bisanzio, sia nascosta una chioccia con dodici pulcini d’oro. E a Giurdignano, la Stonehenge italiana, con le sue lastre allineate in asse solstiziale, si trova il menhir di San Paolo. Una bocca da forno ciclopica al cui interno è dipinta un’immagine del santo. Sullo sfondo rosso, una ragnatela con tarantola. Sopra si innalza un dito preistorico che punta l’assoluto. Pare sia l’ultimo rifugio degli adepti del ragno che fa ballare. C’è chi assicura che vi si svolgano sabba della possessione mediterranea. È la fotografia di un sincretismo vivente che fa del Salento un pandemonio mitologico. Un’officina di simboli. Aveva ragione Aldous Huxley, quando diceva che il cristianesimo ha commesso l’errore di desacralizzare la danza, emarginandola dal suo rituale. Come un residuo pagano da obliterare. Ma quella pizzica che Paracelso ribattezzò Lasciva Chorea, frenesia sfrenata, oggi torna. E diventa il motore culturale di un revival pagano. Feste, sagre, libri, siti che rimettono insieme frammenti di storie per costruire una nuova mitologia del ragno. Upgradando la rete di Aracne con quella del Web. Per costruire il neotarantismo 2.0.
3. Continua
Repubblica 26.8.17
I segreti dell’universo, la musica, la letteratura nel libro postumo del fisico Giovanni Bignami
Capire il Big Bang grazie alla magia di Haydn e Calvino
di Giovanni Bignami
La scena è uno studio della Bbc, a Londra, nel difficile dopoguerra, con Fred Hoyle (1915-2001) finalmente tornato alla scienza, dopo anni passati all’Ammiragliato in un immenso progetto (che occupava più persone e scienziati del famoso Progetto Manhattan) dedicato a studiare contromisure per i radar tedeschi. Avendolo conosciuto personalmente, non avevo dubbi che fosse deciso a rifarsi. Oltre a essere un grande scienziato, Fred è anche un fantastico divulgatore, capace di tenere il pubblico della Bbc incollato a un apparecchio radio. Fa una bellissima serie di lezioni, poi trascritte
in un libretto subito diventato un bestseller, oggi introvabile (ma io ce l’ho…) dal titolo The Nature of the Universe.
Quando arriva il momento di parlare dell’origine dell’Universo, Hoyle difende la sua teoria, detta dello stato “stazionario”: la materia è da sempre creata poco a poco dentro all’Universo, in quantità giusta per continuare a rifornire l’espansione del medesimo Universo, già ben misurata nel 1949. Non gli va affatto bene la teoria opposta, proprio per niente. Dice, e l’enfasi gli fa venir fuori l’accento dello Yorkshire: «Io la chiamo la teoria del “gran botto” (big bang…)» e lo dice in modo chiaramente dispregiativo. Alle 18.30 di quel pomeriggio del 28 marzo 1949, per la prima volta l’espressione “big bang” viene usata in riferimento all’origine dell’Universo. Hoyle aggiunge che questa «teoria del big bang», come poi tutti la chiameranno da quel giorno, fino a quelli della Big Bang Theory della tv trash di oggi, «è come una di quelle ragazze che saltano fuori poco vestite dalla torta di compleanno» per fare una sorpresa, e come tale non è da prendere sul serio.
A definirlo “un grande botto” fu Fred Hoyle alla Bbc, nel 1949
Non dice “deus ex machina” solo perché non era il tipo da parlare latino, anche se lo sapeva benissimo. Hoyle, come vedremo, sarà poi il primo a capire che siamo fatti di polvere di stelle… e quindi pazienza se sul Big Bang aveva sbagliato. Anche per Hoyle, come per Einstein, il minuscolo miracolo non è che l’Universo esista, ma che si faccia vedere da noi, cioè che si manifesti ai nostri sensi. (...) Sono passate molte generazioni di cosmologi da quel 28 marzo 1949, e oggi la teoria del Big Bang (diventato maiuscolo nel frattempo) non è più in discussione: ci crediamo tutti. Ma non per un atto di fede: le prove osservazionali sono ormai schiaccianti e, anzi, continuano a perfezionarsi e ad accumularsi all’apertura di ogni nuovo canale di informazione, cioè man mano che la nostra comprensione fenomenologica dell’Universo si arricchisce di dimensioni. I test osservazionali della teoria del Big Bang sono ben noti oggi: l’osservazione diretta dell’”eco” dell’esplosione iniziale (che però, ricordiamolo, esplosione non è) con la misura della temperatura del fondo del cielo, la misura dell’allontanamento apparente delle galassie e infine la cosiddetta nucleosintesi primordiale, il fatto cioè che noi non siamo una zuppetta insipida di idrogeno, ma che, da subito, la materia si è cominciata ad aggregare in nuclei di elio e poco altro, prima ancora che si accendessero le stelle. Ma a quel punto diventa tutta un’altra storia.
Come si fa a immaginare il Big Bang? Cioè quel momento in cui tutto comincia? Ma che non è un’esplosione perché, invece, è lo spazio che nasce e comincia a espandersi e il tempo che comincia a scorrere? No, non si può immaginare. E chiamare il Big Bang una “fluttuazione quantistica casuale” non è che aiuti molto, se non a convincerci che siamo figli del caso (ma lo sospettavamo da tempo). Riconosciamo i limiti di noi persone normali, smettiamo di tormentare la nostra povera immaginazione antropomorfa, non ce la può fare. Diverso è il caso dei grandi artisti. Joseph Haydn (1732-1809), per esempio, non aveva una particolare cultura astronomica: era semplicemente un genio (anche Beethoven andava a lezione da lui…) e usava la sua musica per dirlo al mondo. Tra il 1796 e il 1798 compose un oratorio, dal modesto titolo di Die Schöpfung ( La creazione), l’inizio di tutto. I primi dieci, lunghissimi secondi dell’opera, che Haydn chiamò Die Vorstellung des Chaos ( La rappresentazione del Caos), sono la miglior descrizione che io riesca a immaginare non solo del Big Bang, ma anche dell’inizio dell’espansione dell’Universo: esplosione di suono, poi una nota unica, decrescente in intensità e frequenza. Provare per credere: si capisce al volo l’inizio del nostro Universo.
L’altro artista/genio capace di farci immaginare il Big Bang è uno scrittore italiano più vicino a noi, Italo Calvino (1923-1985), che amava la scienza e ammirava Galileo. Nelle Cosmicomiche (1965) scrive un breve racconto che intitola Tutto in un punto (e già qui si comincia bene…). L’incipit quasi basta
Nelle “Cosmicomiche” il racconto dell’origine di spazio e tempo
da solo: «Si capisce che si stava tutti lì, — fece il vecchio Qfwfq, — e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe?» e così via, fino a quando l’affascinante signora Ph(i)Nko dice: «Ragazzi, avessi un po’ di spazio…» e di colpo si creano lo spazio e il tempo solo per poterla guardare fare le tagliatelle. Grazie a Calvino.
Che fosse buio pesto, all’inizio, questo lo sappiamo. Non perché non ci fossero fotoni, che erano stati creati subito come forma di energia insieme alla materia; il problema era solo che non sapevano dove andare, venivano continuamente sbatacchiati dagli elettroni, anch’essi pigiati come acciughe (anzi peggio…). (...) Una conseguenza interessante, e molto rivoluzionaria, della teoria del Big Bang, dai primi istanti fino a oggi, riguarda l’abbondanza degli elementi così come li conosciamo noi, adesso, in tutto l’Universo. La materia della quale sono fatte le stelle, i pianeti e il vostro gatto, è composta da protoni e neutroni, particelle “pesanti” note come “barioni” (dal greco barùs). Gli elettroni, pure importantissimi nella struttura degli atomi, sono 1800 volte più leggeri, quindi contribuiscono poco alla massa totale. La materia barionica è pochina: rappresenta meno del 5 per cento della massa di tutto l’Universo. Di tutto il resto non sappiamo praticamente niente, per questo è stata adottata la definizione “materia oscura”. Per adesso ricordiamoci di questo 5 per cento. Rappresenta un ulteriore, durissimo colpo all’antropocentrismo: e la dimostrazione, dopo Copernico e Darwin, non solo che non siamo al centro del mondo e che “discendiamo” dalle scimmie… ma anche che la materia della quale siamo fatti noi è poco più di un pizzico di sale nella minestra, più o meno come le uvette nel panettone. Chissà quante altre cose importanti sono successe nell’Universo, quando era ancora buio, quante rivoluzioni ci sono nascoste, pronte a spiegare cose che non sappiamo ancora di non sapere.
il manifesto 26.8.17
Addio a Tullio Seppilli, l’antropologo dell’opzione comunista
di Piergiorgio Giacchè
La sera del 23 agosto è morto Tulio Seppilli, antropologo e comunista, come voleva essere definito. Ebreo e figlio di un uomo di scienza e di politica che è stato fra i fondatori dell’Educazione sanitaria e di una donna di cultura e di chiara fama e straordinaria intelligenza (Anita Seppilli), Tullio nasce a Padova nel 1928 ma a dieci anni, in seguito alle leggi razziali, si trasferisce in Brasile, dove compie gli studi e intanto scopre e vive la densità e la varietà culturale. Poi, tornato in Italia, diventerà assistente e collaboratore di Ernesto de Martino e farà parte di quella “prima” generazione di antropologi italiani che – oggi si può e si deve dire – può essere ricapitolata e intitolata come “scuola”. Dell’antropologia italiana, Tullio Seppilli è stato uno dei più attivi e convinti e infine aperti sostenitori e diffusori: in particolare è stato il primo ad allargarne confini oltre le miniere delle tradizioni popolari e a ibridare l’antropologia con la sociologia, promuovendo e perfino precorrendo la nuova antropologia delle “società complesse” o – come più tardi scoprono i francesi – “dei mondi contemporanei”. Fin dagli anni Cinquanta, all’Università di Perugia, ha diretto e prima ancora ‘inventato’ un Istituto di Etnologia e Antropologia culturale coniugato con un Centro studi delle comunicazioni di massa, che è stato per decenni una formidabile sede di formazione e crocevia di iniziative. Quelli che come me hanno avuto il privilegio di partecipare alla vita e all’attività dell’Istituto di Tullio Seppilli, più che un insegnamento magistrale hanno ricevuto una iniziazione professionale, basata sulla insolita e antiaccademica armonia tra enorme libertà personale e gioioso impegno collegiale. Seppilli – a differenza di molti suoi colleghi coetanei – non ha lasciato opere di fama o libri di moda, ma si è continuamente e completamente speso in una operatività indefessa e generosa e infine più ambiziosa. Ha dato vita a decine di nuove istituzioni e associazioni, ha prodotto centinaia di interventi scritti e orali in una miriade di convegni e incontri e riviste, sempre attento alla loro efficacia sociale e sempre coerente con il suo impegno politico.
Perché fare? In una recente intervista che poi è diventata la sua ultima pubblicazione (1), Tullio Seppilli racconta la sua scelta di vita e di lavoro, ma soprattutto rivela come il punto interrogativo sia anche il punto di forza di quanti intendono studiare e fare antropologia. Porsi la domanda sul motivo e sul valore della propria disciplina è sempre salutare, ma nel caso dell’antropologia è tanto indispensabile quanto fertile. L’antropologia culturale è una strana scienza, che forse non ha un suo autonomo fondamento e un suo esclusivo metodo, ma ha la pretesa di aggiungersi – insieme umile e ambiziosa – alle altre scienze dell’Uomo. Una personificazione di Claude Lévi-Strauss, incaricato negli anni Cinquanta dall’Unesco di mettere ordine o forse pace fra le diverse scuole antropologiche, rappresenta una Antropologia «che poggia i pedi sulle scienze naturali, si appoggia alle scienze umane e guarda verso le scienze sociali». Tullio Seppilli ha per così dire ricalcato questa immagine, laureandosi in scienze naturali e formandosi nella filosofia e immergendosi nella storia e proiettandosi nel sociale, riuscendo a impersonare una disciplina antropologica che – a metà fra un parassita e una cariatide – si nutre dei dati e rispetta i metodi di tutte le scienze, ma intanto ne corrobora la sostanza e ne sostiene il senso. Non è un caso se, nel corso degli ultimi cinquanta anni, l’Antropologia culturale sia riuscita a contaminare ogni area di ricerca e ogni tipo di riflessione scientifica, con interlocuzioni ed esplorazioni che hanno davvero fatto il Nostro tempo. Tullio Seppilli è stato un consapevole portatore di questo “valore aggiunto”, cioè dell’originalità ma anche della necessità di ‘fare antropologia’, sempre ponendosi la questione del Perché e del Come fare, peraltro nel suo caso mai disgiunta dalla fondamentale antica domanda “rivoluzionaria” del Che fare.
Per Seppilli, quella che lui chiama «l’opzione comunista» non è stata soltanto adesione a un’ideologia ovvero a un partito politico, ma è valsa anche come ausilio scientifico al lavoro e allo studio dell’antropologo: per via – egli scrive – del «costante richiamo a contestualizzare idee, persone, istituzioni, accadimenti, in un orizzonte storico… e per il metodo e l’abitudine al lavoro di gruppo», e ancora di più per poter «agire sulla realtà», trasformando ogni ricerca in intervento.
Perché infine, quella che era nei suoi propositi fin dai suoi primitivi studi in Brasile, era «una antropologia come ricerca nel cuore stesso della società, dei suoi problemi e delle sue ingiustizie. Un’antropologia per ‘capire’, ma anche per ‘agire’, per ‘impegnarsi’».