La Stampa 27.8.17
Il pericolo neo-nazi: “Si stanno armando”
“Addestrati e armati”
I gruppi neonazisti spaventano l’Europa
Smantellati campi paramilitari in Germania e in Russia
I miliziani dell’ultradestra istruiti dai separatisti ucraini
di Monica Perosino
La preoccupazione degli analisti e delle intelligence europee all’indomani dello scoppio del conflitto in Ucraina, nell’aprile 2014, è diventata un dato di fatto in meno di due anni. Nutrita dalla crisi economica, dal terrorismo jihadista e dalla paura per i migranti, la rete neonazista occidentale ha infine fatto quel «salto di qualità» tanto temuto ed è passata all’azione armata e all’addestramento militare organizzato.
Il mosaico è stato ricomposto grazie a un verdetto di un tribunale di Göteborg, Svezia: lo scorso 22 luglio sono stati condannati per tentato omicidio e crimini d’odio due uomini, esecutori materiali di un attacco a un centro per richiedenti asilo. Avevano usato bombe artigianali ed erano esponenti dello Svenska motståndsrörelsen, il Movimento di resistenza svedese, fondato negli Anni 90 da alcuni appartenenti al gruppo terrorista Resistenza ariana bianca. Le tracce di Dna prelevate a Göteborg hanno inchiodato i due nazisti anche per un attentato a un centro ricreativo abitualmente frequentato da sindacalisti e per un assalto ad un altro centro per immigrati. Ma la vera sorpresa è arrivata durante la lettura del verdetto: i due condannati non avevano agito di impulso e senza «preparazione», ma erano entrambi stati in Russia, dove avevano partecipato a un campo di addestramento condotto da militari che avevano combattuto tra le file dei separatisti russi in Ucraina. Copione simile per il gruppo neonazista ungherese Maggyar Arcvonal, movimento paramilitare negazionista che propaga l’odio contro ebrei e omosessuali, a cui sei mesi fa è stato sequestrato un arsenale di bombe artigianali e fucili d’assalto, oltre al consueto armamentario di svastiche e simboli nazisti. Anche in questo caso le armi porterebbero dritto a un gruppo di mercenari filorussi. E se è vero che due indizi sono una coincidenza, ma tre fanno una prova, lo smantellamento del campo paramilitare in Turingia, Germania, il 22 giugno scorso, ha convinto le forze di sicurezza europee che il salto di qualità è ormai un fatto compiuto.
Nel blitz - che ha portato all’arresto di 13 persone di diverse nazionalità - sono state sequestrate armi a breve e medio raggio, munizioni e pistole. La polizia tedesca ha spiegato che «è stata sgominata un’organizzazione criminale sospettata di istituire campi di addestramento paramilitare» nelle foreste della regione. «Le persone arrestate sono membri di un movimento estremista attivo a livello internazionale». La rete scoperta nelle foreste della Turingia sarebbe collegata al gruppo Europäische Aktion, fondato nel 2008 da uno svizzero noto per le sue teorie negazioniste.
Secondo la Fondazione Amedeu-Antonio di Berlino, nel 2016 in Germania sono stati registrati 23 mila reati di stampo neonazista. Per i servizi di sicurezza i neonazisti possono contare su circa 22 mila militanti, 7 mila dei quali appartengono a piccoli gruppi e cellule clandestine. I servizi segreti tengono attualmente sotto osservazione 25 «lupi solitari», considerati come potenzialmente pericolosi e sospettati di voler organizzare attentati terroristici.
Oltre alla Germania, tra i Paesi in cui il neonazismo ha trovato terreno fertile ci sono soprattutto la Scandinavia e gli ex sovietici: «Il fenomeno del salto militare, con i campi di addestramento in Russia, sta crescendo - spiega Øyvind Strømmen, analista di Oslo, esperto di movimenti di estrema destra -. Sembra di assistere allo stesso processo che si osservò durante la guerra nei Balcani. Negli Anni 90 era lì che si addestravano i miliziani dell’ultradestra, oggi c’è l’Ucraina. Teatri perfetti per far crescere in sicurezza e preparazione i neonazisti scandinavi, molti dei quali sono andati a combattere anche in Siria, accanto a curdi». Il potenziale di violenza, secondo Øyvind Strømmen è enorme: «I numeri sono ancora bassi, ma i miliziani addestrati in Ucraina tornano nei rispettivi Paesi con un esperienza militare e una fiducia nelle azioni armate estremamente solide».
Le ultime operazioni di polizia mostrano due dati preoccupanti: l’organizzazione sistematica di una rete paramilitare e il legame diretto con le milizie filorusse. Il motivo per cui Mosca dovrebbe sostenere forze neonaziste, per gli analisti potrebbe essere un sistema per radicalizzare la politica di alcuni Paesi puntando sui movimenti paramilitari più vicini alle posizioni euroasiatiche, in opposizione all’asse euro-atlantico. Secondo un rapporto del think tank ungherese Political Capital, ad esempio, il sostegno di Mosca all’ormai partito ufficiale Jobbik non è in dubbio come non lo è il sostegno al Fronte Nazionale Ungherese 1989, il cui campo di addestramento era finanziato da Putin. Si tratterebbe solo di un esempio della «radicalizzazione sostenuta dal Cremlino fra i movimenti estremisti in Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia».
La nascita di questi «foreign fighter» di estrema destra «coincide con la crisi in Ucraina - spiega Marco Di Liddo, analista del Centro Studi internazionali di Roma -. Il conflitto, a causa del suo carico simbolico, ha portato a una polarizzazione tra pro europeisti e anti europeisti, e tra pro russi e anti russi, ed ha mobilitato tutti quei gruppi che hanno nella loro agenda questi poli ideologici. Foreign fighter europei con retoriche identiche ma opposte si sono schierati nei combattimenti, divisi tra filorussi e anti russi». Qui l’ideologia politica centra poco: «Putin con il comunismo e la cultura di sinistra non ha niente a che fare, è un “rossobruno” con pilastri del nazionalismo. Per questo è diventato un faro per tutti i movimenti di destra, anche quelli istituzionalizzati come Jobbik e Front National». Di Liddo ricorda la contemporaneità di più fattori: crisi economica, emergenza profughi, crisi ucraina. «Per ora il vero pericolo è che la retorica estremista sta contagiando i partiti istituzionalizzati. E il vero problema è l’effetto domino di violenza che contagia più parti della società».
La Stampa 27.8.17
Svastiche, rituali e alleanze sul web
Si espande l’America suprematista
Sempre più radicati sul territorio, fanno proseliti in vasti settori della società
Nascono ovunque nuove formazioni. “Noi bianchi difendiamo la nostra identità”
di Francesco Semprini
Patrick La Porte IV ha 35 anni, dalla Carolina del Sud ha guidato fino a Charlottesville per manifestare. Non si infastidisce se viene chiamato «Nazi», ma lui si descrive come appartenente alla «White identity». Dillon Ulysses Hopper è un ex sergente dei Marine veterano di Iraq e Afghanistan. Già affiliato al movimento nazional-socialista americano ha cofondato Vanguard America, gruppo neonazista molto giovane ma molto attivo, promotore di molte manifestazioni tra cui Charlottesville. La Porte e Hopper sono due volti dello stesso fenomeno. Spontaneista affiliatosi sul Web il primo, sceso in piazza con pantalone beige e polo bianca imbracciando lo scudo con la croce bianca di Sant’Andrea. Militante strutturato gerarchicamente il secondo, militarmente vestito e inquadrato nel manipolo di scudi con aquila e fascio. Sono i neonazisti del nuovo millennio a stelle e strisce, eredi di quel movimento degli Anni Trenta e Novanta, ma rivisitati in chiave 3.0.
Michael German, ex agente di Fbi che ha indagato sotto coperta su questi gruppi venti anni fa racconta che c’era forte antagonismo tra le diverse formazioni. Oggi il Web ne ha facilitato la coesione invece, e soprattutto la convinzione che l’amministrazione Trump sia un’opportunità, specie per lotta a immigrazione e sdegno per i media. «Non direi che è uno di noi, ma ha un implicito senso di identità bianca», dice Eli Mosley, di «Identity Evropa». Non si definiscono un gruppo ma una generazione identitaria. Giovani, studenti, operai, disoccupati, classe media, qualche ricco, «rigorosamente bianchi e con radici europee ma non giudaiche». Sono oltre 500 le formazioni della destra estrema operative negli Usa. Il Southern Poverty Law Center (SPLC), ha individuato 99 gruppi neonazisti, 100 nazionalisti suprematisti bianchi, e 78 skinhead razzisti. Il numero ha registrato un aumento ma iniziato prima dell’avvento di Trump presidente: Daily Stormer, sito neonazista di riferimento, da poco cacciato dalle piattaforme web GoDaddy e Google e trasferito su un provider russo, è cresciuto da una sola sezione del 2015 a trenta sezioni in tutti gli Stati Uniti.
I gruppi neonazisti veri e propri vanno dai più datati National-socialist movement e American Nazi Party sino al più recente Vanguard America dell’ideologo Kevin Alfred Strom (ex National Alliance, la rete delle reti). Ai suprematisti fanno capo la promiscuità di sigle del movimento ariano discendenti del KKK, anche se alcuni suoi esponenti scendono in campo con l’una o l’altra formazione a seconda dei casi. David Duke, ex affiliato di spicco, in un’intervista a «La Stampa» di ottobre si è definito «un conservatore che si batte per la difesa della propria nazione». Ci sono poi i naziskin in stile britannico nel look e tedesco nella militanza: bomber, pantaloni stretti a risvolto alto e anfibi bombati. Teste rigorosamente rasate. A differenza dei cugini europei però, in America si tratta soprattutto di gruppi musicali, cantori di quel rock in difesa della razza che vede in Resistence record e Hammerskins i principali esponenti, tutti facenti capo a National Alliance. O Combat 18, il capitolo Usa di «Blood and Honour», la piattaforma che riunisce il movimento «Skinhead 88», ottava lettera dell’alfabeto a indicare «Heil Hitler». In questo caso si possono ipotizzare collegamenti con movimenti simili d’Europa (e d’Italia) i cui gruppi talvolta si avvicendano sul palco dell’Hammerfest. Per il resto è difficile ipotizzare una sintonia o collegamenti pratici tra le due sponde dell’oceano, se non da parte di qualche ideologo occulto come i «cattivi maestri».
Dal Vecchio continente però i rinati neonazi hanno mutuato l’araldica: piuttosto che a rozzi cappucci bianchi e alle vecchie svastiche oggi si vedono sfilare una serie di simboli più «ricercati», che vanno dalla mitologia nibelunghesca all’esoterismo di destra, fino a passare per la Roma antica e del Ventennio (anche se spesso poco sanno di quella parte di storia). Ecco allora i fasci incrociati o aquila e fascio; il sole nero, fatto incidere da Himmler sui pavimenti del quartier generale delle Schutzstaffel; il numero 14 a indicare le parole: «We must secure the existence of our people and a future for white children»; la croce nera: rivisitazione della croce di Sant’Andrea, della bandiera scozzese e confederata. Runa Othala, utilizzata da alcune unità SS e già simbolo in Italia di Avanguarda nazionale di Stefano Delle Chiaie (detto Er Caccola); l’occhio del dragone blu, la scelta tra bene e diavolo, simbolo degli identitari; la runa della vita (già simbolo del movimento Meridiano Zero scissionisti del Fronte della Gioventù nei primi Anni Novanta). Discorso a parte merita la croce celtica (usata e abusata) e oggi tirata fuori «con oculatezza» perché foriera comunanze irritanti. Accomunare i neonazi Usa alla galassia «Alt-Right» non piace molto: «Piuttosto chiamateci “Alt-Reich”».
La Stampa 27.8.17
Da Forza Nuova a Casa Pound tra nazionalismo e omofobia
In cerca di visibilità i due movimenti sono in forte competizione tra loro
di Francesco Grignetti
Rieccoli, quelli di Forza Nuova. Stavolta si sono scatenati contro il parroco del Pistoiese, cavalcando i temi classici dell’ultradestra: il «mondialismo» che comprime l’indipendenza nazionale, l’immigrazione che mina l’identità, l’euro che uccide la sovranità monetaria. E però Forza Nuova, movimento creato a immagine e somiglianza del suo leader Roberto Fiore, che fu un protagonista della destra extraparlamentare e violenta a Roma già negli Anni Settanta, ci mette di suo il culto della famiglia, la paura del decremento demografico, l’indissolubilità del matrimonio, l’ostilità per i gay. E’ fortissima l’impronta cattolico-tradizionalista. Non per nulla il leader ha undici figli.
Con Forza Nuova siamo lontanissimi dall’universo Casapound, che pure non scherza su queste tematiche, ma in chiave di rottura, movimentista, scanzonato, totalmente laico e distante da un approccio confessionale. Forza Nuova è più un partitino con le sue liturgie, il segretario, le sedi. Anche Forza Nuova, però, specie a Roma, da qualche tempo sta accentuando il «movimentismo». Dipende da un leader in ascesa, Giuliano Castellino. C’erano lui e i suoi, forniti di tirapugni, in piazza Colonna nel febbraio scorso, quando una manifestazione di taxisti degenerò in tafferugli davanti alla sede del governo. C’era sempre Castellino, a marzo, che cercava visibilità tra le tante manifestazioni di protesta contro l’anniversario dei Trattati di Roma che istituirono la Comunità europea: «Combattenti romani - scriveva - siamo un fiume in piena. Vi invito al massimo sforzo».
Ecco, a maggio, in via Nomentana, di nuovo Castellino era in prima fila nell’occupazione provocatoria della sede dell’Oim, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, scambiando una austera agenzia delle Nazioni Unite per una Ong qualsiasi. Oltretutto, a dispetto di quel che crede Forza Nuova, l’Oim è impegnata a far rientrare in patria i migranti, non a farli arrivare in Italia.
A giugno, Forza Nuova protestava alla sua maniera, con petardi e tentativi di sfondamento, contro la legge sullo «ius soli». I suoi militanti quel giorno tentarono di raggiungere il Senato e furono dispersi con i getti degli idranti (le stesse autobotti della polizia viste in azione l’altro giorno a piazza Indipendenza, ironia della sorte). «Ormai è guerra. In questo momento - fu il commento sui social - un manipolo di guerrieri sono schierati qui in piazza. La legge sullo Ius Soli non passerà, o sarà battaglia in tutta Italia».
Tanta veemenza garantisce visibilità, ma pochi consensi. «Mentre nei capoluoghi di provincia - scriveva Roberto Fiore dopo le ultime Amministrative - si conferma un trend non soddisfacente per i nostri candidati sindaco, che ottengono attorno allo 0,4%, nei centri di media grandezza i risultati sono più rilevanti». A Roma, in effetti Forza Nuova sosteneva la candidatura di Alfredo Iorio, storico responsabile della sezione di via Ottaviano del Movimento Sociale, che si è fermato allo 0,21%, quando l’aborrita Casapound ha incassato l’1,14%. E la competizione tra l’ultradestra continua.
Corriere 27.8.17
La promessa dei nazionalisti «Ora comincia la guerriglia»
Cacciati, Bannon e soci danno battaglia ai moderati rimasti alla Casa Bianca
di Marilisa Palumbo
NEW YORK E alla fine rimasero solo Stephen Miller e Kellyanne Conway. Dopo l’uscita del protégé di Steve Bannon Sebastian Gorka — quello de «i maschi alfa sono tornati» e dell’Islam «intrinsecamente violento» — la fronda dei nazionalisti populisti alla Casa Bianca si assottiglia a favore di «globalisti» e generali. Eppure, come dimostra la decisione di Trump di graziare Arpaio, simbolo del trumpismo estremo sul tema immigrazione, non è detto che la loro influenza sul presidente scompaia. «Del resto i suoi istinti sono di certo più vicini a quelli di Bannon, anche se non sempre riesce a essere conseguente e andare fino in fondo, come sull’Afghanistan: aveva promesso il ritiro e invece manda altre truppe», dice al Corriere Joshua Green, autore di un libro su Steve Bannon («Devil’s Bargain») che secondo molti retroscena sarebbe stata una delle gocce che hanno fatto traboccare il vaso della pazienza del presidente nei confronti del suo luciferino stratega. «Pare si sia infuriato perché pensa di meritare tutto il credito per la sua elezione mentre io dico che se togli dall’equazione Bannon, e quindi la politica nazionalista che lui ha immaginato e il lavoro di anni con gruppi politici e di ricerca per demolire Hillary Clinton, ancora prima che annunciasse la sua ricandidatura, Trump difficilmente sarebbe presidente». Significa che, ammesso che sopravviva al Russiagate e ad altri inciampi, non ha modo di essere rieletto? «Senza Bannon nessuno alla Casa Bianca sa bene quali idee politiche spingere, oscilleranno ancora di più e lui da fuori attaccherà tutti senza limiti, dai generali a Kushner».
Come ci si immagina farà anche il mediaticissimo Gorka (Trump adorava le sue esibizioni televisive). In una lettera al presidente pubblicata dal sito conservatore The Federalist, l’ormai ex consigliere scrive: «Mi è chiaro che le forze che non sostengono le promesse del Maga (Make America Great Again, lo slogan elettorale di Trump, ndr) sono in ascesa alla Casa Bianca. Di conseguenza, il modo migliore e più efficace in cui io possa servirla, signor presidente, è da fuori dalla “Casa del popolo”». Servire? Breitbart, il sito ultraconservatore di cui Bannon è tornato ad essere presidente esecutivo e per il quale Gorka si occupava di sicurezza nazionale, ha già annunciato di volerselo riprendere. È chiaro che i bannoniani si preparano alla guerriglia, e il bello deve ancora cominciare. In una intervista all’ Economist, Bannon ha detto che «aprirà il fuoco» sul leader della maggioranza repubblicana Mitch McConnell, ormai ai ferri corti con Trump. Quanto al presidente: «Non ci rivolgeremo mai contro di lui, ma non lasceremo che prenda decisioni che lo danneggiano».
«Steve è un uomo con una energia e una determinazione infinita e spingerà le sue idee nazionaliste contro qualsiasi nemico senza esitare ad attaccare le persone che si mettono di traverso, quindi non solo i dem o i repubblicani ma anche i membri della famiglia Trump», dice Green, convinto peraltro che il presidente continuerà a consultarsi con il suo ex stratega «primo perché è un suo classico mantenere i contatti con gli ex consiglieri anche dopo averli licenziati, ma soprattutto perché Bannon lo capisce e Trump lo sa». E non è escluso quindi «che non si riformi un qualche tipo di alleanza tra i due alla vigilia del voto».
Si parla molto dei progetti dello stratega con i Mercer, il patron Robert e la figlia Rebekah, ultramilionari che hanno «armato» economicamente Breitbart e finanziato Trump. Robert e Bannon si sono incontrati di recente: della guerriglia farà parte la costruzione di un network ancora più a destra di Fox , che propaghi politiche nazionaliste? «Ho parlato con Steve un paio di volte da quando è stato defenestrato — dice Green — e non ho avuto l’impressione che sia questo il suo progetto. Pensa che la televisione la guardino solo i vecchi e che sia troppo costoso costruire un network da zero. Al centro della sua strategia ci sono il web e le talk radio. Mi ha detto anche che in questo momento è concentrato sull’espansione globale di Breitbart in posti come la Francia, l’Italia, la Germania, dove ci sono politici e movimenti nazionalisti». «Mi ha confessato — conclude Green — che una delle sue frustrazioni rispetto ai mesi trascorsi alla Casa Bianca è di non aver potuto essere più attivo in elezioni come quella francese. È convinto che le sue idee vadano oltre Trump, di essere parte di una sollevazione populista globale». L’Europa è avvisata.
Il Fatto 27.8.17
Attentati, abbiamo o non abbiamo paura?
di Furio Colombo
“Non abbiamo paura”. Come tutte le altre città colpite, Barcellona ha reagito con la consueta risposta che, dalle Torri gemelle in poi, fa il giro del mondo. La frase viene fatta propria con orgoglio dai governi e usata come una bandiera dalla politica per dire: “Non riuscirete a cambiarci” oppure “a piegarci”. Ma piegarci a che cosa? L’atto di terrorismo internazionale che, un Paese per volta (e alcuni già varie volte) stiamo sperimentando, ha uno scopo in sé, vince quando si compie e non aspetta altro che ripetersi, nello stesso luogo o altrove. Si tratta dunque di un sistema di comunicazione che non aspetta risposta e che, se la riceve, la ignora.
Perché si trova, con tutto il suo impianto psichico, altrove. Non ha interesse a dialogare e non è attrezzato per farlo, perché non ha niente da dire e non ha niente da dare. Puoi fare tutte le marce del mondo, lanciare messaggi tipo Je suis Charlie, ma questi ti ritornano come boomerang, senza neppure sfiorare il destinatario. Ciò non vuol dire che il destinatario sia imbattibile o intoccabile. Vuol dire che è altra cosa dal nemico tradizionale (il cattivo islamico che magari ha frequentato la nostra scuola) che continuiamo a immaginare e cerchiamo di afferrare e punire secondo la legge. Non è neanche vero o credibile che il nostro avversario (che, grosso modo ha sempre la stessa faccia, quasi giovane, un po’ sfuocato e con lineamenti non facilmente ricordabili) ami la morte più della vita, anche se molti di loro hanno trovato efficace ripeterlo.
Molte canzoni fasciste parlavano della “bella morte” (“Cosa importa se si muore, basta un grido di valore…”) e la invocavano, senza essere “studenti del Corano”, come si diceva dei Talebani quando combattevano i russi (allora “sovietici”) con le armi americane. E la nostra celebrata “Saga di Giarabub”, l’oasi difesa fino all’ultimo italiano (1942) e quella di Stalingrado, dove è stato necessario uccidere l’ultimo tedesco per vincere (1944). E perché non ricordare il comandante Durand de la Penne, che è saltato in aria e affondato con la nave che aveva minato, per non rivelare ai marinai inglesi, che lo avevano catturato, dove aveva collocato le mine mortali? Testimoniano che i “martiri” della volontà di morte sono esistiti molto prima degli uomini di Al Baghdadi. La specialità, dunque, non è la voglia di morire, ma la guerriglia terroristica, che dà luogo alla più asimmetrica delle guerre. Eppure la capacità di colpire, come lezione e come vendetta, individui scelti sulla mappa oppure occasionalmente adatti a essere vittime (sapendo e calcolando che ogni morto produce, oltre la scossa collettiva, tanti reticolati di dolore personale e familiare) non è una esclusiva della guerra terroristica. Altri eventi, pesanti e crudeli, si sovrappongono alle nostre storie, le nostre attese, le nostre paure. Una è la guerra in Afghanistan (che dura da 16 anni) un vasto contenitore di ogni forma di pena, dal bombardamento all’autobomba, senza escludere i tipi di prigioni, di detenzioni, di esecuzioni.
Uno è la guerra in Iraq, che ha restituito un paese distrutto e smembrato, che non ha né testa né corpo (ha un corpo ferito a morte), non ha classe dirigente e non è in grado di salvare i cittadini dall’arbitrio del potere o di garantire giustizia, può combattere ma non può vincere. E non può liberarsi in alcun modo dalla violenza che dà e che riceve. Uno è la Siria, che non può guarire perché il carnefice è anche presidente del Paese e trattato con rispetto e cautela da rispettabili governi e potenze internazionali. E continua tranquillamente a uccidere mentre riceve funzionari dell’Onu. Uno è lo Yemen, un Paese sul quale è stata riversata la potenza rabbiosa e distruttiva dell’Arabia Saudita, grande amico dei migliori governi umanisti del mondo, e sta spegnendosi sotto le bombe, la fame e il colera (mi riferisco al New York Times del giorno in cui scrivo).
Uno è la guerra in Libia, un Paese frantumato, sanguinante, sospeso sulle sue rovine, mercenario con e senza divisa, con e senza finzioni giuridiche tipo “governo riconosciuto”, che si presta a fare da mattatoio per molti che credevano, dopo il deserto, di attraversare il Mediterraneo. Uno è l’Egitto dei crudelissimi Servizi segreti che, con la deliberata e ostentata morte disumana di Giulio Regeni, ha lanciato un messaggio di potere e controllo che i destinatari, cominciando dall’Italia, hanno fatto finta di non capire. E hanno subito offerto una mano amica alla mano insanguinata. Se questo è il quadro, la figura dei terroristi si ridimensiona. E sarebbe meglio avere paura non solo di uno o dell’altro di essi, ma della pesante minaccia collettiva che grava su tutti e che ho cercato di descrivere.
La Stampa 27.8.17
intervista a Virginia Raggi
“Mi devo occupare dei romani
Sui migranti sbaglia il governo”
La sindaca: basta quote, non si può ragionare con i fogli Excel
Ci sono troppi profughi non censiti, manca una politica nazionale
di Ilario Lombardo
Sindaca Virginia Raggi, dal Viminale fanno notare che in Comune non hanno un interlocutore e che non avete nemmeno risposto al telefono. Vi accusano di latitare, di non aver affrontato il problema di piazza Indipendenza per tempo e di non aver offerto soluzioni alternative sul lungo.
«Il Viminale è un palazzo molto vasto... Posso dirle che con il ministro Minniti ci sono buoni rapporti e ci sentiamo: lo scorso 26 giugno abbiamo dato vita a una cabina di regia sul tema immigrazione. Lo sgombero del palazzo di via Curtatone è strettamente legato al tema dell’accoglienza. Per trovare soluzioni sul lungo periodo vanno affrontate le cause. Io rifiuto la logica dell’emergenza perenne perché porta a soluzioni provvisorie e lascia il problema a chi viene dopo. Non mi interessano le polemiche. Il Comune ha compiuto il proprio dovere e offerto assistenza a tutti coloro che ne hanno diritto, 107 persone - bambini, madri, disabili, anziani non autosufficienti - alle quali i nostri operatori dei servizi sociali hanno garantito ogni tipo di aiuto, tutti i giorni, in strada e nella struttura. A oggi, oltre 50 persone sono state prese in carico nel nostro circuito di accoglienza, mentre altri hanno rifiutato le soluzioni offerte. Non c’è neanche un aspetto su cui siamo stati inadempienti».
Dire, come ha detto lei, che non siete riusciti a fare il censimento nel palazzo suona come un’ammissione di debolezza. Ci spieghi bene perché non siete riusciti, indicando i responsabili. Dal suo post di venerdì pare di capire che i migranti erano minacciati da altri migranti e da frange dei Movimenti per la casa.
«Nei mesi scorsi più volte i nostri operatori, lasciati soli dalla Regione Lazio, hanno tentato di entrare nel palazzo: ci sono numerosi documenti a certificarlo. Sono stati respinti all’ingresso da una parte degli stessi occupanti. C’era qualcuno che non voleva che entrassimo, che vedessimo in che condizioni molte persone fossero tenute: ammassate in stanze per la quali sembrerebbe pagassero anche una sorta di affitto o, meglio, pizzo. Quel palazzo è occupato dal 2013 e ci sono inchieste che hanno rilevato traffici sospetti. Abbiamo più volte sottolineato che non ci veniva permesso di entrare. Su migranti e accoglienza abbiamo già visto che si concentrano spesso le attenzioni della malavita. È un capitolo importante di Mafia Capitale. Noi non ci lasciamo intimorire da chi usa i più deboli per i propri affari illeciti».
Ci sono versioni diverse tra voi e la Prefettura: quando siete stati avvisati dello sgombero? E sapevate dei bambini?
«Negli scorsi mesi abbiamo partecipato con pieno spirito collaborativo ai tavoli con Prefettura e Questura nel corso dei quali si pianificano gli sgomberi. Via Curtatone era una delle emergenze, ma non è il Comune a decidere quando effettuare lo sgombero. Noi curiamo l’assistenza sociale e veniamo avvisati poco prima dell’intervento. Lo sgombero è stato disposto alle 12 del giorno prima: subito abbiamo messo in azione la nostra Sala Operativa Sociale. Quanto alla presenza di 37 bambini, come ho detto, era difficile entrare nel palazzo anche per le forze dell’ordine che hanno generosamente effettuato un censimento in condizioni difficili. In questo censimento mancavano i minori. Ma non credo debba divenire un motivo di polemica tra le istituzioni. Pensiamo a trovare soluzioni».
L’Unicef ha detto: in piazza non c’era nessuno del Comune, li abbiamo cercati e non hanno risposto. L’assessora Baldassarre tra l’altro viene proprio dall’Unicef ed era in vacanza. Cosa risponde a chi come l’associazone dice che, dopo il tavolo del commissario Tronca e il capo della Polizia Gabrielli, sugli sgomberi non c’è più una pianificazione a Roma.
«In piazza c’erano i nostri operatori che hanno assistito centinaia di persone. Le risposte le dobbiamo a chi è in difficoltà, senza vetrine mediatiche, evitando speculazioni politiche sulle persone più fragili. L’assessora Baldassarre sta facendo un ottimo lavoro. Trovare una soluzione in poche ore per oltre cento persone non è da tutti. Il rapporto con le associazioni è importante: con loro c’è un confronto, come dimostra il piano sociale cittadino che mancava a Roma da 13 anni».
A giugno lei è stata accusata di non volersi prendere carico del numero di migranti che spettano a Roma. Disse che erano troppi, ma mancavano ancora 3 mila degli 11 mila destinati alla Capitale. Qual è la linea politica sull’accoglienza e sui migranti del Comune di Roma? Quanto soffrite le divisioni nel M5S?
«Roma ha un carico di decine di migliaia di persone che non sono censite ufficialmente. Io non ragiono per quote, ma considero che ho di fronte a me esseri umani in carne e ossa. Roma accoglie i cosiddetti “migranti fantasma”: sono persone che sono registrate in altre parti di Italia, ma che in realtà vivono nella Capitale. A questi si aggiungono i non registrati e i migranti respinti alle frontiere che vengono a Roma prima di ritentare il viaggio verso il Nord Europa. Affrontare la questione è il presupposto per garantire un’accoglienza di qualità, evitando che diventi un business. Non si può far finta che queste persone non esistano perché non sono riportate in una tabella Excel. Né si può immaginare di dare vita a guerre tra poveri. Manca una politica nazionale adeguata su immigrazione e accoglienza. E questa è la linea di tutto il M5S».
Luigi Di Maio l’ha difesa dicendo che «Raggi si deve occupare prima dei romani». Si ritrova in queste parole? O pensa che Roma debba interessarsi anche di chi a Roma risiede perché rifugiato?
«Luigi ha detto cose di buon senso. Un sindaco deve occuparsi dei suoi cittadini. Sull’accoglienza gli amministratori hanno compiti precisi, ma la politica migratoria è tema governativo. Io chiedo di rivederla, coinvolgendo di più i sindaci che possono dare suggerimenti operativi, in quando impegnati ogni giorno in prima linea. L’Anci dovrebbe farsi sentire di più e ascoltare di più i suoi membri. Occorre maggiore sinergia tra tutti i livelli istituzionali».
Un altro importante leader del M5S, Roberto Fico, in opposizione a Di Maio, ha criticato le violenze della polizia e le responsabilità del Viminale. La pensa come lui o come Di Maio ? Quale visione rappresenta di più il M5S?
«Roberto e Luigi hanno ribadito lo stesso concetto con parole diverse. Mi sembra un tentativo di creare una contrapposizione mediatica tra di loro. Ma questi sono schemi della vecchia politica che mal si applicano al M5S. Noi facciamo gioco di squadra tra sindaci e parlamentari».
Il Fatto 27.8.17
Sgomberi, le domande mai fatte nella fiera dell’ipocrisia
di Antonio Padellaro
Dopo gli scontri di piazza Indipendenza a Roma, su giornali e tv va in onda il triathlon della falsa coscienza nelle classiche prove dello scaricabarile, del gioco delle parti, del tu lo dici e io lo nego.
Quest’ultima disciplina, riservata ai cosiddetti opinionisti, consiste nel dire (scrivere) l’esatto contrario di quanto scrive (dice) il commentatore avversato. Se, per esempio, l’uno s’indigna per lo sgombero improvviso e per le cariche della polizia contro le donne eritree, l’altro risponderà citando il racket che da anni si svolgeva nel palazzo di via Curtatone tollerato da quelle medesime famiglie. E così via, fino all’esaurimento dei lettori. Scaricabarile e gioco delle parti sono gli sport preferiti da ministri, sindaci, prefetti, presidenti di Regione.
In genere, il risultato finale è che tra accuse e controaccuse le responsabilità si dissolvono nel consueto, indistinto polverone e nessuno capisce più niente di quanto realmente accaduto.
In un Paese di normale civiltà (che non è l’Italia) coloro che, nella circostanza, rappresentano le varie istituzioni coinvolte sarebbero chiamati a rispondere alla pubblica opinione in una conferenza stampa, perché no, collettiva.
Proviamo a immaginarla. Al ministro dell’Interno Marco Minniti si potrebbe chiedere come mai la soluzione – di grande buon senso e del tutto condivisibile – di non procedere alla cacciata dei rifugiati da palazzi occupati abusivamente se non è stata garantita loro una sistemazione definitiva, sia stata presa dopo e non prima gli accadimenti. Ci voleva tanto a capirlo?
Dal prefetto di Roma Paola Basilone (e dai suoi predecessori) vorremmo sapere come mai ha mandato la polizia soltanto giovedì scorso quando l’occupazione dello stabile risaliva al 2013 e l’ordine di sequestro e sgombero da parte della magistratura era arrivato già nel dicembre del 2015.
Altra domanda da rivolgere a Minniti e Basilone: ogni tanto vi parlate?
Alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, vorremmo chiedere se risponde al vero quanto sostenuto dalla Regione Lazio. Che cioè nel 2014 furono stanziati 197 milioni di euro per l’emergenza abitativa a Roma (compreso lo stabile di via Curtatone)? Che nel 2016 la Regione sollecitò il Comune a utilizzare i fondi e concesse alla giunta Raggi 40 milioni di euro per interventi immediati? Ma che nei tavoli tecnici in prefettura, il Campidoglio rifiutò ogni alternativa a chi occupa abusivamente?
Al governatore Zingaretti avremmo semplicemente domandato: non ha ragione la sindaca Raggi quando dice che assistiamo alla fiera dell’ipocrisia visto e considerato che il ruolo della Regione, in situazioni di tale gravità sociale, non può consistere nel girarsi dall’altra parte? Da entrambi, infine, vorremmo sapere: per curiosità, che fine hanno fatto quel mucchio di milioni stanziati?
Repubblica 27.8.17
Gli immigrati e il piano Minniti
Se dalla paura può nascere nuova energia
di Eugenio Scalfari
SUL nostro giornale di ieri c’erano molti e ottimi articoli sui vari ma tutti attuali argomenti, a cominciare da quello di Ezio Mauro, su ciò che è accaduto giovedì in piazza Indipendenza, cioè al centro di Roma.
Su questi argomenti tornerò, avendo parlato a lungo questa mattina (sabato) con il ministro dell’Interno, Marco Minniti. Ma prima debbo confessare ai lettori che il tema che più mi ha interessato è stato quello esaminato da Alberto Asor Rosa sul prolungamento della scuola media superiore.
Tutte le materie, secondo lui, debbono estendere il loro insegnamento a quanto di nuovo è accaduto nella cultura italiana nel corso del Novecento; un secolo che la scuola attuale non tratta, fermandosi ai suoi inizi. Eppure i fatti scientifici, letterari, politici accaduti durante quel secolo che ci precede ormai da 17 anni sono di massima importanza. Ci fu una crisi politica ai suoi inizi, poi superata positivamente. Ci fu nel costume della borghesia altolocata la Belle Époque in tutta Europa. Ci fu la Prima e poi, dopo vent’anni, la Seconda guerra mondiale, con la nascita del Fascismo e del Nazismo che provocarono la guerra e poi la persero e caddero ideologicamente e fisicamente. Ci fu, esattamente un secolo fa la Rivoluzione bolscevica con tutto quello che comportò in Russia, in Cina, in Vietnam e in tutto il mondo. Durò settant’anni, poi cadde anche quella.
INSOMMA lo chiamano, non so perché, il secolo breve, ma sbagliano: il Novecento è stato un secolo lunghissimo e va studiato con estrema attenzione per quanto riguarda l’Italia, l’Europa e le Americhe, cioè l’Occidente che più da vicino ci riguarda, anche se ora ci troviamo di fronte a una società globale che coinvolge il mondo intero, a cominciare da quello tecnologico e terminare con quello religioso.
Ha quindi piena ragione Asor Rosa: i giovani debbono estendere a tutto il Novecento la loro cultura per poi specializzarsi, cercare lavoro e vivere in una società tutt’altro che tranquilla, anzi sconvolta da fenomeni emergenziali che turbano profondamente il mondo, le singole nazioni, i ceti sociali, e le singole persone.
Asor Rosa, da buon docente e romanziere, guarda soprattutto alle sue materie che nel Novecento e in Italia sono rappresentate da molti nomi. Tuttavia non posso trattenermi oltre su questo aspetto del nostro Novecento: stanno avvenendo fenomeni sociali di estrema emergenza che richiedono di essere affrontati a causa del dolore che creano e diffondono in tutti i Paesi e nel nostro che più ci riguarda.
Concludo: questa sorta di inquietudine è contenuta in un brano dantesco che descrive quanto sta avvenendo intorno a lui. È il canto VI del Purgatorio. Leggetelo e pensateci.
“ Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!
e ora in te non stanno senza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode di quei ch’un muro e una fossa serra” Mi sembra che il Poeta di otto secoli fa sia maledettamente attuale.
***
Il ministro dell’Interno, Marco Minniti, era reduce da un incontro assai complicato (diciamo così) con i sindaci delle città principali della Libia tripolitana, concluso bene, a quanto mi ha detto. Ma il tema con me era ovviamente del tutto diverso: gli scontri tra “rifugiati” e polizia di giovedì, tipici di una situazione emergenziale esistente in tutto il Paese ma con diversi gradi di intensità.
Naturalmente la polizia dipende dal ministro dell’Interno per ragioni d’ordine pubblico ed è anche tenuta ad attuare le sentenza della magistratura, nel caso in questione la magistratura aveva disposto che un palazzo nei pressi di piazza Indipendenza, abitato da rifugiati da oltre quattro anni, fosse sgomberato e reso ai proprietari. Di qui l’operazione e gli scontri con la polizia.
Chi sono i cosiddetti “rifugiati”? Provengono da ex colonie italiane: la Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia, e hanno perciò un trattamento speciale: sono ospitati in spazi disponibili e vengono anche aiutati a trovar lavoro. Da chi? Dai sindaci di quelle città e anche — se si possono dislocare in comuni della stessa regione — dal governatore della medesima.
Le cose tuttavia non sono andate così. Anzitutto i rifugiati sono aumentati di numero (più che raddoppiati) da altri immigrati ai quali i rifugiati hanno fatto spazio, guadagnandoci qualche euro giornaliero. Quei locali sono stati tempo fa requisiti per quattro anni, dopo i quali i proprietari hanno ottenuto apposita sentenza esecutiva del tribunale e la polizia ha avuto il compito istituzionale di farla eseguire.
Nei suddetti quattro anni prima il commissario e poi il sindaco di Roma avrebbero dovuto trovare altri alloggi e aiutare i rifugiati a trovar lavoro e insomma a campare, ma non hanno fatto nulla. In particolare questo compito sarebbe spettato a Raggi, eletta sindaco oltre un anno fa e quindi in vista della scadenza contrattuale del palazzo in questione, ma Raggi non ha fatto assolutamente nulla. Questa è la tipica situazione di emergenza che incoraggia la malavita di ogni tipo, perfino quella che fa capo all’Isis. In Italia per fortuna la malavita religiosa dell’islamismo Isis non ha ancora operato: la sorveglianza del ministro dell’Interno è estremamente vigile e speriamo che continui così. Ma episodi apparentemente marginali come quello di giovedì scorso sono estremamente sgradevoli e aggiungono emergenza a emergenza e paura a paura.
Fin qui le parole del ministro, il quale ovviamente è consapevole che le sue responsabilità vanno ben oltre le competenze fissate dalla legge. Vanno ben oltre perché Minniti è abituato ad accollarsi il bene pubblico al di là di quanto gli spetta. Ha già preparato un documento con norme appropriate per evitare che la paura si diffonda rendendo il Paese praticamente ingovernabile.
Che cos’è la paura? L’ho chiesto al ministro. Ecco la sua risposta: di fronte a situazioni che rendono la vita pubblica e privata ingovernabile, si diffonde tra i cittadini e nell’opinione pubblica il timore che si vada di peggio in peggio. Ci sono movimenti populisti che alimentano quella paura spingendola verso posizioni antidemocratiche. Ma ci sono altri partiti che spingono invece i cittadini a utilizzare la paura per alimentare politiche positive e pacificative nei confronti dei rifugiati e di quanti chiedono asilo e aiuto.
Il ministro sta formulando un programma generale che partirà dal Viminale come centro operativo, appoggiandosi ai governatori regionali e soprattutto ai sindaci, nonché a una politica europea nei confronti delle immigrazioni.
La paura insomma deve diventare un elemento positivo trasformandosi in energie operative, pubbliche e private. Può perfino trasformarsi in un elemento che rafforzi l’economia dell’Europa e dell’Italia.
A questo proposito Minniti ha avuto parole di consenso verso quanto ha detto Mario Draghi alla conferenza dei banchieri centrali a Jackson Hole: l’offerta di beni e servizi sta aumentando in tutto l’Occidente e in qualche modo in tutto il mondo. In Cina, più dell’offerta conta la domanda e quindi i consumi. Non sarebbe opportuno che anche in Italia l’aumento della domanda si affiancasse a quello dell’offerta? Se i migranti che hanno diritto e restano in Italia fossero utilmente occupati la loro domanda diventerebbe un dato positivo mentre resta in piedi l’attuazione del programma che prevede investimenti in Libia e in tutta l’Africa occidentale, con un reddito che rilanci una parte vitale di quel continente e anche uno sbarco di capitali europei pubblici e privati.
Se tutti questi progetti andassero a buon fine e se la sinistra italiana ne fosse lo strumento politico più interessato, potremmo abolire per sempre i versi danteschi sul bordello italiano e sostituirli col sorriso fulgido di Beatrice nel cerchio più alto del Paradiso dantesco.
Repubblica 27.8.17
Saviano: ecco le dieci bufale sui migranti
Dalla diaria statale alla bella vita negli alberghi: l’operazione verità dello scrittore
ROMA. Ma davvero i migranti incassano 35 euro al giorno dallo Stato, come sostiene un’ondata di indignazione su Internet? Ospite del quotidiano online Fanpage, Roberto Saviano prova a smentire le «dieci bufale» più diffuse sugli immigrati. «Non guadagnano 35 euro al giorno, ma 2,5 per la sopravvivenza quotidiana. Quei 35 euro, o 45 in caso di minori — spiega lo scrittore — sono la cifra pagata alle coop per gestirli». E se è vero che alcune mafie si sono infiltrate nella gestione dei migranti «ci sono moltissime coop oneste», assicura. È falso, poi, che i migranti facciano «la bella vita in alberghi di lusso»: «Come no...», dice mostrando un dormitorio: «Queste sono le condizioni in cui li ospitiamo, decine in una stanza in strutture dello Stato». E non è vero che i migranti siano un costo insostenibile: «Lo 0,2% del Pil, poco più di 3 miliardi; ma fanno guadagnare allo Stato più di 8 miliardi, dati Finanziaria 2016». Né è vero che portino malattie: «Mai registrata un’epidemia partita dai migranti». O che in maggioranza commettano crimini: «Dal 2004 al 2013 sono aumentate del 28% le denunce contro italiani, diminuite del 6% quelle contro migranti». È un’invasione, si ripete in rete? «Nella Ue — dice Saviano — sono il 7%». Ci rubano il lavoro? «Solo il 7% fa lavori qualificati, e con stipendi nettamente inferiori». Inoltre, «versano 8 miliardi all’Inps: ci pagano le pensioni ». L’Italia non può accogliere più nessuno? «Per garantire capacità produttiva e sistema previdenziale è necessario arrivino 1,6 milioni di migranti in 10 anni». Infine, la bufala dello Ius soli «con cui aumenteranno gli sbarchi»: «Serve a dare diritti a bambini italiani per nascita e formazione ».
Repubblica 27.8.17
Emma Bonino.
La leader radicale e il dossier immigrazione: “Nella guerriglia di Roma abbiamo perso tutti. Di Maio e Salvini sono imprenditori della paura”
“Sgomberi, Minniti ha ammesso l’errore cresce l’intolleranza contro tutti i poveri”
di Giovanna Casadio
ROMA. «Nella guerriglia per gli sgomberi a Roma abbiamo perso tutti: la politica, il paese, i migranti stessi». Emma Bonino, ex ministro degli Esteri e leader radicale, soprattutto denuncia «gli imprenditori della paura, da Salvini a Di Maio e non solo».
Bonino, la guerriglia a Roma per lo sgombero del palazzo occupato dai profughi si poteva evitare?
«Mi pare di avere capito dalle dichiarazioni del ministro Minniti che si eviteranno d’ora in poi. E questo è di per sé un giudizio chiaro».
Le sembra una autocritica?
«Una ammissione netta che non è questa la strada. Penso che in quell’episodio dello sgombero a Roma, come in molti altri, anche se di diverso genere, stiamo perdendo tutti. La politica, il paese, i migranti stessi. Il senso dei diritti e dei doveri per tutti. Una politica rigorosa di integrazione può aiutare anche la sicurezza».
Il parroco pistoiese minacciato da Forza Nuova per avere regalato una giornata di piscina a un gruppo di profughi.
Barricate per non ospitare un gruppetto di minori non accompagnati. Gli italiani sono diventati razzisti?
«In parte. Ma certamente sono intolleranti verso chiunque sia altro e diverso. In particolare se povero. Si veda il cartello contro l’handicappato nel centro commerciale di Carugate nel milanese, che nulla ha a che vedere con i colori della pelle, eppure coperto di insulti comunque».
L’emergenza migranti provoca paura, amplificata dal timore che i terroristi islamici arrivino sui barconi?
«Veramente abbiamo visto all’opera dei veri imprenditori della paura, da Salvini a Di Maio e non solo. Eppure se apriamo le pagine di cronaca abbiamo liste lunghissime di atti criminali e violenti, specie contro le donne, compiuti da italiani “bianchi”. Per non aggiungere che la stragrande maggioranza di terroristi abitano e vivono da noi».
Sono diminuiti gli sbarchi. La strategia di Minniti funziona?
«È evidente che meno ne scappano più ne rimangono nei lager libici. L’avevo detto già alla convention di Renzi al Lingotto: attenti, più ne tappiamo in Libia più aumenterà il numero delle persone sottoposte a torture, ricatti, stupri, cosa che sta avvenendo, testimoniata da reportage non solo italiani, ma internazionali e dalle Nazioni Unite. Senza dimenticare che a parte i centri visitabili e gestiti dal Dipartimento del governo libico, ce ne sono decine, in particolare a sud della Libia, affidati alle milizie. Terribili e senza testimoni. Il ministro Minniti nella conferenza stampa di Ferragosto ha detto che questo è il suo “assillo”, usando un eufemismo, perché tutti sono a conoscenza della situazione e bisogna ammetterlo per onestà intellettuale».
La tregua dei flussi ha un prezzo?
«Il prezzo è drammatico e lo pagano “loro”, quelli tappati in Libia. Ma lontani dagli occhi, lontani dal cuore. Noi continuiamo a fare finta di non sapere, magari nella speranza che arrivi l’Unhcr o le Ong umanitarie a tentare di alleviare questi drammi indicibili » Ong finite sotto inchiesta. C’è stato un eccesso di disinvoltura da parte di alcune?
«Non so, c’è una sola inchiesta aperta dalla Procura di Trapani. Comunque in quelle stesse Ong così vituperate recentemente, si spera. Ma succede sempre così, quando la politica annaspa, si chiamano gli umanitari. Lo so bene per esperienza da commissaria europea. Ricordo che nella crisi dei Grandi Laghi a metà degli anni Novanta, con due milioni di profughi ruandesi, la comunità internazionale pretendeva che fossero gli umanitari, medici, infermieri a disarmare a mani nude i rifugiati armati. Ma lo stesso è successo in Afghanistan, Iraq, attualmente nello Yemen, per non dimenticare Srebrenica».
L’ Europa è sempre la grande assente?
«Sono gli stati membri ad essere non solo assenti ma decisamente contrari a una politica estera comune, oltre che a una politica di integrazione comune. Ognuno per sé. Quindi inutile e falso prendersela con Bruxelles. Che pure quando fa proposte – come la ricollocazione di 160 mila rifugiati in due anni – non le attua nessun paese».
Cosa andrebbe fatto?
«Nella campagna “Ero straniero” di Radicali, Arci, Acli, Centro Astalli e molti altri, abbiamo una serie di proposte nella legge di iniziativa popolare. Perché dipende solo da noi. Tanto più che il nostro declino demografico ha bisogno di nuovi arrivi ovviamente legali, impossibili con l’attuale legge Bossi-Fini. So perfettamente che non è facile, non ci sono soluzioni miracolose. Però osservo che centinaia di sindaci (pochi sugli 8 mila) e operatori del settore stanno attuando politiche di inserimento e integrazione. Ma serve ripartire dalla testa e non farsi governare solo dalla pancia».
Corriere 27.8.17
Il Viminale farà requisire gli edifici pubblici vuoti se i Comuni non si muovono
di Ilaria Sacchettoni
ROMA Per evitare vuoti di potere come quello che s’è visto nello sgombero di via Curtatone, con famiglie abbandonate alle aiuole del cento storico, la direttiva a cui pensa il Viminale conterrà una misura forte, quasi estrema. Quella della requisizione di edifici vuoti (pubblici ovviamente) utilizzabili per ospitare nuclei familiari da sgomberare.
Una misura da prevedere laddove le amministrazioni siano riluttanti a farsi carico della situazione. Una regola pensata per le grandi città soprattutto, dove l’emergenza alloggiativa è stanziale e le decisioni faticano ad arrivare. Ma più in generale (e considerato il precedente), un provvedimento ideato per superare l’ostacolo di sindaci inerti o peggio, politicamente ostili. In questo caso la palla passerebbe nelle mani dei prefetti.
La direttiva rafforza significativamente le loro prerogative. E prevede che una volta individuati gli sgomberi più urgenti si provveda ad alloggiare le persone titolate ad avere una casa. Parliamo di migranti regolari non clandestini, ma anche di cittadini italiani sfrattati e inseriti in qualche graduatoria comunale (solo a Roma sono decine di migliaia) per l’edilizia residenziale pubblica. Fra le altre cose bisognerà anche coinvolgere le associazioni di volontariato e la Croce Rossa nel percorso.
Una volta emanata la direttiva (domani) i prefetti sono chiamati a realizzare una fotografia aggiornata della situazione, convocando tavoli per la sicurezza e l’ordine che coinvolgano i rappresentanti comunali e decidano cosa e come fare per liberare edifici soggetti a provvedimenti dei giudici. Le regole basilari sono tre appunto: 1) offrire un’alternativa alle famiglie 2) assicurare la disponibilità di ospedali a farsi carico di eventuali malati 3) garantire la presenza di strutture per ospitare bambini.
Alla fine non siamo lontani dalla direttiva emanata da Francesco Paolo Tronca due anni fa. Il prefetto (non a caso) che amministrò Roma dopo l’uscita di scena di Ignazio Marino aveva già deciso: «Le occupazioni verranno liberate man mano che si renderanno disponibili gli alloggi per l’emergenza abitativa». Quel piano, fra le altre cose, prevedeva lo sgombero di 16 immobili occupati fra i quali via Curtatone. Immobili, precisava, «individuati sulla base di criteri di priorità fissati dal tavolo tecnico istituito presso la Prefettura di Roma in quanto pericolanti, interessati da sequestro o causanti danni erariali». È chiaro che anche quella della requisizione sarebbe una misura temporanea ma almeno garantirebbe il rispetto delle persone sgomberate.
Ieri si è svolto il corteo dei movimenti per il diritto alla casa, al quale erano presenti anche i profughi sgomberati da piazza Indipendenza: «siamo in cinquemila» hanno detto gli organizzatori chiedendo la convocazione di un tavolo in Prefettura per l’emergenza.
Dal centrodestra è pressing contro il ministro Marco Minniti. «Se non procedesse agli sgomberi lo denuncerò per omissione di atti d’ufficio», attacca il leghista Roberto Calderoli.
La Procura, intanto, ha aperto un fascicolo sulla vicenda «subaffitto»: le ricevute trovate durante lo sgombero farebbero pensare a una sorta di «racket» delle occupazioni. Non sarebbe la prima volta.
il manifesto 27.8.17
«Siamo rifugiati, abbiamo diritto ad avere una casa»
di Carlo Lania
ROMA La procura di Roma ha aperto un’inchiesta sul presunto racket degli affitti nello stabile di via Curtatone sgomberato giovedì dalle forze dell’ordine. Un’ipotesi che i rifugiati eritrei che occupavano una parte dei sette piani dell’edificio che affaccia su piazza Indipendenza ieri hanno respinto con decisione. «Non pagavamo per poter dormire in una stanza, i soldi servivano per le ristrutturazioni e le pulizie», hanno spiegato in molti.
Dopo le cariche indiscriminate di tre giorni fa, quando sono stati svegliati dalla polizia e sgomberati a colpi di potenti getti d’acqua dai giardini dove dormivano da alcuni giorni, ieri per i rifugiati eritrei è arrivato il momento per un piccolo riscatto. Sono stati loro ad aprire la manifestazione indetta dai movimenti della casa, e lo hanno fatto con un striscione con cui hanno voluto ricordare a tutti che loro sono «rifugiati e non terroristi». Più di cinquemila le persone che hanno partecipato al corteo che da piazza dell’Esquilino ha attraversato pacificamente il centro della città fino a piazza Madonna di Loreto dove i manifestanti hanno dato vita un sit in e chiesto l’apertura di un tavolo sull’emergenza abitativa tra Regione, Comune e prefetto.
Ma al centro della manifestazione ieri sono stati i rifugiati di via Curtatone, diventati loro malgrado uno dei simboli delle molte occupazioni esistenti a Roma (secondo alcune stime oltre 90). «Vogliamo una casa, vogliamo un tetto, vogliamo la possibilità di poter mandare a scuola i nostri figli», hanno gridato lungo via Cavour. Tra di loro anche una delle donne colpite giovedì dal cannone ad acqua della polizia mentre cercava di recuperare vestiti e documenti in piazza Indipendenza. «Gli ultimi episodi avvenuti nella capitale dimostrano il pieno fallimento delle politiche dell’accoglienza in Italia, dove si ragiona solo per emergenze e in nome del profitto, generando mostri come quello di Mafia capitale», ha spiegato la «Coalizione internazionale dei sans-papier».
Italiani e stranieri hanno sfilato insieme. Presenti tutte le principali realtà delle occupazioni capitoline, dai Blocchi precari metropolitani al Coordinamento cittadino lotta per la casa. Nel corteo anche una delegazione delle 60 famiglie accampate nella basilica dei santi Apostoli: «La nostra colpa è la povertà», è la protesta affidata a uno striscione.
Dopo quello di via Curtatone in teoria nelle prossime settimane a Roma potrebbero esserci altri 15 sgomberi classificati come urgenti in una lista stilata sedici mesi fa dal prefetto Francesco Tronca, all’epoca commissario prefettizio della capitale, all’interno del «Piano di attuazione del programma regionale per l’emergenza abitativa per Roma capitale». Sgomberi che, come indicò Tronca in una delibera, dovrebbero essere eseguiti solo «man mano che si renderanno disponibili gli alloggi per l’emergenza abitativa». La stessa linea adottata ora dal Viminale che dopo gli scontri di giovedì invierà la prossima settimana ai prefetti una circolare con le nuove linee guida per gli sgomberi, indicando come prioritario il reperimento di abitazioni alternative prima di poter procedere con le forze dell’ordine. L’emergenza casa potrebbe però entrare anche nell’ordine del giorno dei lavori del Campidoglio. Stefano Fassina, deputato e consigliere comunale di Sinistra italiana, ha assicurato di voler chiedere alla conferenza dei capigruppo dell’assemblea capitolina di indire un consiglio comunale straordinario per il piano casa.
«Qualcuno sta creando una politica della paura ma non è questa la soluzione», ha detto ieri una portavoce del movimento riferendosi a quanto accaduto nella capitale negli ultimi giorni. L’esito della manifestazione dimostra che però è una politica che si può sconfiggere.
Il Fatto 27.8.17
Sarzana, Renzi si imbuca ma viene respinto
Il sindaco manda inviti su carta intestata alla presentazione del libro del segretario, la Regione lo blocca
di Luciano Cerasa
Venerdì prossimo si aprirà a Sarzana la 14° edizione del Festival della Mente dedicato alla creatività e alla nascita delle idee, con i contributi inediti e originali portati da scienziati, scrittori, artisti. Tra le “menti” che il prossimo 2 settembre dovevano risalire fino alla cittadina nell’entroterra spezzino, insieme ad altri 65 relatori italiani e internazionali, doveva esserci anche lui, Matteo Renzi.
Peccato che si sia scoperto, con il passare delle ore e dopo la sconfessione dell’organizzazione del festival, che si era imbucato. Ad annunciare la presenza dell’ex presidente del Consiglio in uno dei comuni roccaforte della sinistra era stato lo stesso sindaco di Sarzana, il Pd Alessio Cavarra, che aveva pensato bene di “precettare” i suoi concittadini per l’evento parallelo con una bella lettera scritta su carta intestata “Città di Sarzana” e inviata uno per uno a spese del Comune. “Carissima/o, con la presente ho il piacere di comunicarLe che in occasione della XIV edizione del Festival della Mente siamo lieti di ospitare a Sarzana l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi per la presentazione del suo ultimo libro Avanti – Perché l’Italia non si ferma. Sarà l’occasione per affiancare all’approfondimento offerto dal Festival della Mente anche temi di stretta attualità legati alla situazione economico-sociale del nostro Paese”. Come dire: due piccioni con una fava.
Il primo a non prenderla bene è stato l’altro sponsor politico e finanziatore pubblico dell’iniziativa, il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti che, affiancato dall’assessore Giampedrone, ha minacciato di togliere il patrocinio all’incolpevole festival. “Se Renzi vuole presentare il suo libro a Sarzana liberissimo di farlo e benvenuto – dice Toti – ma non a spese del contribuente.” E l’organizzazione è corsa subito ai ripari: “Renzi non l’abbiamo invitato noi ma il Comune” hanno detto, sconfessando pubblicamente un appuntamento che mai per la verità era entrato nel programma ufficiale, ma vi si era furbescamente appoggiato cercando di sfruttarne la vetrina. “È di una gravità inaudita l’utilizzo da parte del sindaco del ruolo istituzionale per cercare di sponsorizzare un’iniziativa a scopo di lucro del segretario del suo partito – va giù duro la segretaria provinciale di Rifondazione Comunista Veruska Fedi al Fatto – il Pd fa la morale agli altri, il sindaco fa il campione di trasparenza sul suo sito ma la verità è che tra un anno a Sarzana ci sono le elezioni e il consenso della maggioranza è in calo perfino qui”.
Un consenso che è sempre stato bulgaro per la sinistra, anche se è entrata in giunta, invitata dal sindaco, anche l’ex candidata del centrodestra. Gli abitanti di Sarzana sono stati tra i pochi in Italia che agli albori del Fascismo cacciarono dal Comune le squadracce che vi impervesavano, con le armi in pugno. Alla fine ha dovuto cedere anche il sindaco. Cavarra si è consultato con Renzi e ha rimandato la presentazione a un’altra occasione: “Questa è censura”.
Corriere 27.8.17
Solo nel 2057 tutti i precari in cattedra «Ma molti non hanno mai insegnato» Tutti i precari in cattedra? Forse, ma tra quarant’anni
di Gian Antonio Stella
Avanti così e nel 2057 le «graduatorie a esaurimento» dei docenti, che dovevano inizialmente esaurirsi cinque anni fa, saranno infine esaurite. Evviva. Una «svista» di decenni. Dovuta non solo al turbo-ottimismo di alcuni protagonisti (Matteo Renzi s’impegnò a settembre 2014 a chiudere la pratica «a settembre 2015»!) ma allo sbracamento del sistema. E all’incontinente prodigalità di certi Tar. Risultato: salvo retromarce, potranno andare in cattedra nelle scuole d’infanzia e nelle «primarie» migliaia di docenti mai laureati.
non solo mai laureati: mai passati ai concorsi imposti dalla Costituzione e spesso mai chiamati, neppure un giorno, a insegnare. E gli scolari che si dovessero ritrovare con insegnanti incapaci? Auguri.
Ed è da qui che bisogna partire: dal panorama attuale del corpo docente. Prendiamo la Capitale. La città con più iscritti alle Gae, le famose liste da svuotare. Scrive Tuttoscuola in una dettagliatissima inchiesta in uscita oggi che, prendendo a esempio solo le materne e le elementari, nonostante i 42/43 anni di età media degli aspiranti maestri, «tra i 6.123 iscritti nella Gae di Roma per la scuola dell’infanzia ben 4.873 docenti, pari al 79,6% del totale (circa quattro su cinque), risultano iscritti con zero punti di servizio: verosimilmente è da ritenere che non abbiano mai insegnato». Mai. Eppure peggio ancora va nelle «primarie»: «Su 5.356 iscritti risultano con zero punti di servizio ben 4.916 (91,8%): nove docenti su dieci è da ritenere che non abbiano mai insegnato». Rileggiamo: mai. «Docenti per caso», li chiama la rivista di Giovanni Vinciguerra.
Ma un Paese come il nostro, che ha solo il 26% di laureati tra i cittadini tra i 30 e i 34 anni (penultimo in Europa davanti solo alla Romania), che ha tre docenti su cento nelle «superiori» con meno di 40 anni contro i 26 di Francia e Germania, i 43 del Belgio e i 46 del Regno Unito, che investe nella ricerca la metà della media Ocse, un terzo della Germania o della Svezia e riceve fondi competitivi su merito e qualità assegnati da Agenzie pubbliche indipendenti pari a un quarantaduesimo della Gran Bretagna, può accettare un pantano così fin dai primi anni di scuola? Come può tenere il passo, ed è una questione di vita o di morte, con un mondo che accelera e accelera e accelera?
Certo, vanno capiti tutti quegli aspiranti al posto fisso, disoccupati o sotto-occupati che si sono messi in coda per entrare nel mondo della scuola. Più ancora quanti si sono ritrovati perfino impossibilitati a vincere ogni concorso perché, fossero pure dei fuoriclasse, di concorsi non ce n’erano, come tra il 2000 e il 2011. Dice la Costituzione che «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso» ma, come accusa il giornale, «leggi e sentenze hanno messo all’angolo» la Carta.
Intendiamoci: quando nel 2007 nacquero le «Gae» assorbendo decenni di graduatorie permanenti, furono istituite con buone intenzioni. Certo, il sistema conteneva già un principio discutibile: chi era dentro era dentro, chi era fuori fuori. A costo di ostruire l’accesso a nuovi docenti. Magari preparatissimi, forti di un concorso vinto, entusiasti, ricchi di fantasia. Si pensò però che fosse più importante mettere un punto. Fissando questo schema: metà dei posti vacanti a chi aveva passato un concorso, metà agli iscritti alle graduatorie ad esaurimento. Per prosciugare infine il bacino dei precari generato da un’incessante catena di sanatorie iniziate con un decreto di Vittorio Emanuele II nel 1859: «In eccezione alla regola del concorso...».
Ma come smaltirli, tutti quei precari in attesa? Allargando le maglie. Al punto che le buone intenzioni sono state via via sradicate e, scrive Tuttoscuola , «la perentorietà della chiusura delle graduatorie ad esaurimento è stata violata più volte a partire dal 2008, per iniziativa parlamentare o per via giudiziaria».
Con quelle famose sentenze che una dopo l’altra accoglievano un po’ tutti i ricorsi. Col risultato che non solo smaltire i «vecchi» precari si è rivelato lentissimo ma «sono stati immessi in ruolo nei vari settori oltre 215 mila docenti (50 mila da provvedimenti del ministro Fioroni, 73 mila del ministro Gelmini, oltre 90 mila nell’epoca Profumo-Giannini-Fedeli), pari a oltre un quarto degli attuali posti di ruolo». Morale: coi ritmi attuali, come dicevamo, serviranno 14 anni per esaurire le graduatorie nelle «primarie» e 41 (quarantuno!) nelle scuole d’infanzia.
Certo, ricorda la rivista, si tratta di «una previsione teorica fatta “a vita lavorativa infinita”: molte insegnanti (nate a cavallo degli anni 1950-60) nell’attesa supereranno infatti il limite massimo di età per essere assunte in ruolo». Di più: sul capo di quasi la metà degli iscritti «con riserva» a queste graduatorie incombe «la decisione che il Consiglio di Stato, a sezioni riunite, assumerà nel prossimo autunno per accertare la sussistenza del requisito di accesso alle Gae». Se il verdetto sarà sfavorevole, quegli iscritti con riserva «verranno definitivamente depennati». Se sarà favorevole, un po’ alla volta gli aspiranti maestri e professori dovranno essere smaltiti tutti.
Anche quelli «recuperati» con la vecchia abilitazione. Che studiarono non 18 ma solo 13 anni, che non sono laureati, non sanno l’inglese, non hanno competenze digitali, non hanno mai fatto un concorso e neppure una supplenza... E magari non aprono un libro dai tempi del diploma. E potrebbero andare in cattedra dopo aver fatto per anni il commercialista o il postino, la contabile o la cuoca. Trovandosi alle prese con materie studiate vent’anni prima. E dimenticate. Un gruppo di deputati propose due anni fa «una verifica sui livelli minimi di preparazione» o «almeno un corso intensivo». Con la possibilità, in caso di plateali carenze professionali dopo un anno di prova, «di rinvio o recessione del contratto. Apriti cielo! La levata di scudi del personale prossimo alla stabilizzazione fu durissima».
Sono rimasti così abissalmente lontani dalle aule, tanti di questi docenti «a esaurimento», spiega Tuttoscuola , che si aggirano tra di noi i fantasmi di circa 1.300 docenti introvabili. I quali sono stati immessi in ruolo ma, dopo tanti anni trascorsi a fare altre cose, non se ne sono manco accorti. Desaparecidos .
Repubblica 27.8.17
L’appello di Asor Rosa e l’urgenza di una riforma: per capire il presente non si può ignorare il Novecento
Perché ai ragazzi non serve un anno di scuola in meno ma cent’anni di libri in più
di Stefano Bartezzaghi
Leggere non è solo quella attività noiosa, ma buona: è saper trovare un senso a quanto si ha davanti
«VAL più la pratica della grammatica»: era tradizionalmente la massima-rifugio dell’incultura (a pari merito con «meglio un asino vivo che un dottore morto »); oggi si impone come insegna quasi eroica della scuola italiana. Negli ultimi decenni la tendenza è stata quella di ritoccare e complicare le diverse leggi e regole che sovrintendono il funzionamento della scuola: quindi, la sua grammatica. Ma se finora la scuola media superiore ha mantenuto e qui e là superato i livelli di decenza è stato invece per la pratica, volontaria e scarsamente retribuita di quei presidi e professori che, come amano ripetere, «ci credono ancora». Quindi sbrigano al meglio incombenze e tortuosità burocratiche e liberano tempo prezioso per fare qualcosa che realmente avvicini la scuola alla vita.
Ieri, su queste pagine, Alberto Asor Rosa ha mostrato come siano inconsistenti gli obiettivi che si vogliono raggiungere aggiungendo due anni all’obbligo scolastico e togliendone invece uno al corso della scuola media superiore. «Non un anno in meno, ma un secolo in più», ha giustamente obiettato. I ragazzi che oggi si diplomano e si rivolgono o all’università o al faticoso accesso al lavoro sanno, eventualmente, qualcosa del secondo Novecento solo grazie alla pratica di qualche insegnante, non certo per merito della grammatica dei programmi scolastici. Non si potrà pretendere che questi cittadini siano poi consapevoli dell’importanza o anche solo della pertinenza dei problemi che agitano la contemporaneità. Ambiente, geopolitica, migrazioni, economia, new media, Europa… E la storia italiana? Chi insegna all’università sa che non può dare per nota alcuna nozione al proposito: non piazza Fontana, non Aldo Moro, non le conseguenze italiane della caduta del Muro di Berlino, non la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi. Si rischia quel che capitò a un collega, che all’esame si sentì dire che Pietro Ingrao era stato un pioniere dell’informatica italiana. A lezione aveva sbadatamente parlato dell’importanza di Ingrao nel Pci, senza pensare all’omofonia con il Pc fatto di
hardware e software, certo più alla portata della platea che lo ascoltava.
Non sono, queste, solo le meste storielle che si raccontano i professori, scuotendo la testa e dicendo «ai miei tempi». Sono il logico risultato di politiche scolastiche e culturali campate per aria, rivolte a vaghi risultati economici e del tutto ignare di (o disinteressate a) ciò per cui sarebbe impensabile abolirla del tutto, la scuola superiore.
Chi la frequenta ha l’età in cui finalmente si può «leggere ». Se ne hanno già gli strumenti e si ha ancora la massima duttilità mentale. Leggere non è infatti quell’attività noiosa ma tanto civile e buona che le campagne a favore «del libro » a volte ritraggono. È saper trovare il senso a quanto ci sta davanti, si tratti di un libro o di qualsiasi altro fenomeno. Da leggere, a scuola, ci sarebbe nientemeno che il secondo Novecento, con la sua storia, la sua arte, la letteratura, la filosofia, la scienza. Non si tratta di una partita fra tradizionalisti e “nuovisti”, cioè di sostituire o meno Albinati a Petrarca o Bauman a Machiavelli. Si tratta, al contrario, di togliere Petrarca e Machiavelli dal museo, mostrando come siano presenti nella contemporaneità anche attraverso le opere e le parole di scrittori, artisti, studiosi, scienziati viventi.
È probabile che un nuovo canone del Novecento, articolato e mirato alla contemporaneità, non possa occupare meno di un anno di scuola superiore. Invece che amputarla sarebbe allora meglio trasformarla e di quell’anno in meno fare il secolo in più: il secolo che manca alla scuola di oggi, malandata nelle strutture ma non nell’intelligenza di chi la fa davvero,
ogni giorno, in aula.
Il Fatto 27.8.17
“Non si legge tutto, ma se vuoi fare lo scrittore studia i classici”
Antonio Pennacchi. Il dibattito sollevato dal “Fatto” sui giovani autori “Il talento non basta, come in tutti i mestieri ci vuole l’apprendistato”
intervista di Silvia D’Onghia
“È necessario leggere tutto un autore? No. È possibile leggere tutta la letteratura? No. Però se vuoi fare questo mestiere, hai un obbligo: leggere il più possibile. Bisogna studiare, perché nessuno nasce imparato”. Antonio Pennacchi non è uno che va troppo per il sottile. Premio Strega nel 2010 con Canale Mussolini, una vita (o quasi, 30 anni) in fabbrica a Latina, una migrazione politica da disilluso, sa bene cosa serve per diventare uno scrittore. Quando gli chiediamo se vuole intervenire nella polemica scatenata su questo giornale da Francesco Musolino (che ha fatto ammettere a dieci giovani autori di non aver letto tutti i classici, provocando irritazione e sdegno da parte di lettori e colleghi), il suo carattere (solo in apparenza) burbero all’inizio lo fa tagliare corto: “Ognuno fa quello che gli pare”.
Pennacchi, quindi uno scrittore può permettersi il lusso di non leggere i classici?
Tutto non si può leggere, non è possibile. Escono migliaia di libri ogni anno. Non ce la si fa, neanche se uno volesse leggere ciò che viene pubblicato nell’ambito di una piccolissima branca. Siamo destinati a restare nell’ignoranza.
Ma qui si sta parlando di classici, non di moderni.
Sarebbe utile leggere tutti i classici o l’intera produzione di un autore classico, ma non basta una vita. E poi c’è da fare un discorso di selezione personale: ci sono le opere che ti piacciono e quelle che non ti piacciono, mica siamo tutti uguali.
Come definirebbe un classico?
Come un’opera o un autore che resistono al passare del tempo, che continuano a essere letti anche dopo il loro tempo.
Quindi delle pietre miliari.
Per questo è necessario leggerli se si vuole fare questo lavoro. La scrittura è un mestiere e, come tutti i mestieri, richiede l’apprendistato. Se lei va a lavorare in bottega, deve imparare a usare mazzetta e scalpello, altrimenti si prende le dita a martellate. E come impara? Guardando chi il mestiere lo sa già fare.
Quindi non è sufficiente avere talento?
Lo diceva anche Mark Twain: l’opera d’arte solo al due e mezzo per cento è opera di talento. Il resto è disciplina, regola, sacrificio, mestiere. E questo si impara. I classici ti insegnano la struttura della storia.
Ma le tecniche di scrittura nel tempo sono cambiate.
È vero che oggi con la tv, con il cinema, con Internet, tutto sembra essersi velocizzato, le storie le vedi anziché leggerle. Ma è un altro linguaggio, quello dell’immagine. Non quello della scrittura. E comunque anche se vuoi raccontare una storia, prima la devi ascoltare.
Facciamo il nome di qualche classico.
E allora dobbiamo partire dagli antichi. Non so se cominciare da Omero o dalla Bibbia, che è un grande romanzo. O da Virgilio.
Quali sono i suoi classici di riferimento?
Gli americani – John Steinbeck, molto più di William Faulkner – e i russi: Le anime morte di Gogol’ non puoi non averlo letto. E poi Stevenson, Melville (non solo Moby Dick), Twain, Jack London, Jules Verne.
Solo stranieri? La letteratura italiana non annovera classici?
Non abbiamo una grande storia del romanzo, abbiamo cominciato a scriverne davvero soltanto nel 900 (dell’800 io salvo I Viceré di De Roberto). I miei punti di riferimento, quelli che ho amato? Fenoglio, Bianciardi, Piero Chiara, il Montanelli de Il generale Della Rovere, Il tempo di uccidere di Flaiano.
A quali libri si è affidato per i suoi romanzi?
L’uomo e la marionetta di Piero Angela per Mammut. E guardi che non scherzo, Piero Angela è una cosa seria. Poi la Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni e la Filosofia della pratica di Benedetto Croce.
Ora le chiedo, se vuole, di stare allo stesso gioco cui si sono sottoposti i giovani autori interpellati da Musolino. Quale classico non ha letto? Ce lo confessa?
(Qualche attimo di silenzio, quasi non volesse rispondere. Poi invece capiamo che sta solo scegliendo un autore). Proust. Mia moglie lo legge, a me non interessa finirlo. A un certo punto ho detto basta. E mica può essere una condanna la lettura! E pure Hermann Broch. Il tempo non ce l’hai per fare tutto. Anche nei classici devi trovare quello che ti piace e, quello sì, te lo devi far tutto.
Lei ha cominciato a scrivere a 36 anni, lavorava in fabbrica, ma è riuscito a pubblicare solo a 44. Prima leggeva molto? E cosa leggeva?
La mia è una formazione da autodidatta. Il mio criterio di selezione, all’inizio, era il prezzo dei libri sulle bancarelle dell’usato. Poi man mano che imparavo a conoscerli, compravo gli autori che mi interessavano.
Leggere quando si è giovani quindi è importante.
I libri che ti formano davvero sono quelli che leggi da giovane.
Perché dopo diventi meno permeabile?
Dopo cambiano il tempo che hai a disposizione – quando sei ragazzo puoi permetterti di leggere anche 12 ore al giorno – e la capacità di assorbimento, non sei più tabula rasa. Io i libri più importanti li ho letti prima dei 25 anni. Certo, poi alcuni vanno riletti più e più volte, perché certe sfumature le cogli solo con il tempo. L’Inferno di Dante bisognerebbe impararlo a memoria: solo quando l’ho fatto mi sono reso conto che alcune allusioni mi entravano dentro meglio. Torniamo al discorso di prima: bisogna studiare. Se vuoi entrare in sala operatoria come chirurgo, devi aver studiato Medicina.
E cosa deve studiare chi vuole fare lo scrittore?
Lettere. Incontro tanti ragazzi, 18-20 anni, che si iscrivono a Scienze della Comunicazione o a Giurisprudenza. Io chiedo: ‘E perché non Lettere?’. Mi rispondono: ‘Scrivere, so già scrivere. Almeno imparo un altro mestiere’. Come se il talento, anche qualora ci fosse davvero, bastasse. Se per scrittura intendiamo l’arte, non il puro intrattenimento ma il tentativo di aprire una finestra nuova sulla visione del mondo e dei sentimenti, se l’arte deve essere un tentativo di allargare gli orizzonti d’attesa del lettore, allora bisogna che tu legga tanto.
Altra domanda provocatoria: non si rischia di essere poi influenzati dalla lettura degli altri?
Credo di no. Se scrivi come ha scritto lui lo ripeti, non dici niente di nuovo. Leggere ti serve per imparare la struttura del racconto e farla tua. A quel punto deve venir fuori quello che hai tu dentro.
Come giudica la giovane narrativa italiana?
Noi siamo in una fase di transizione. Possiamo fare buone cose, soprattutto con le nuove generazioni. Però mi permetto di dare un consiglio ai giovani: mettete al primo posto le storie, quelle che avete dentro e che urgono di venire fuori. La hybris di voler scrivere non può derivare dalla vostra voglia di affermazione nel mondo. Non dovete fare gli scrittori perché così diventate famosi, altrimenti è meglio che andiate a fare i balletti porno…
La Stampa 27.8.17
Sicilia, Mdp gioca la carta Fava
Prove di tregua nel centrodestra
Centrosinistra diviso: Pd e Alfano puntano su Micari Forza Italia, l’ipotesi di un ticket Musumeci-Armao
di Andrea Carugati
A sinistra la partita sembra ormai chiusa. Pd e Alfano con Leoluca Orlando da una parte, Mdp e soci da un’altra. Ci saranno due candidati (per i bersaniani pare ormai certo Claudio Fava) e una sfida aperta alle regionali siciliane del 5 novembre.
A destra è ancora caos, ma i tentativi per evitare una spaccatura dagli esiti letali sono in corso. La speranza, tra chi cerca di portare a sintesi Berlusconi e il tandem Salvini-Meloni, è che alla fine si possa arrivare a un ticket tra il candidato di Fratelli d’Italia Nello Musumeci (che sta già lavorando alle liste) e l’avvocato palermitano Gaetano Armao, graditissimo a Berlusconi (domani presenterà il manifesto del suo movimento «SicilianiIndignati»). Ma anche dentro Forza Italia c’è chi, come il coordinatore di Catania Salvo Pogliese, ha già scelto Musumeci pur di evitare una divisione (il replay del 2012) che «i nostri elettori non ci perdonerebbero». «Si deve convergere sull’unica candidatura che può vantare un reale coinvolgimento civico e popolare. Musumeci è persona di indiscusso valore etico, morale e amministrativo».
Maurizio Gasparri veste i panni del mediatore e lancia un suggerimento a Musumeci: liberati dei consiglieri Fabio Granata e Carmelo Briguglio, pasdaran finiani ai tempi della guerra col Cavaliere. La loro presenza viene considerata come uno dei motivi della diffidenza di Berlusconi. «Alcuni moralisti a fase alterna devono essere allontanati, anche perché non portano alcun consenso», fa notare Gasparri. L’ex ministro Altero Matteoli suggerisce di lavorare su un terzo nome: «Entrambi i candidati facciano un passo indietro». Ipotesi remota, visto che il 20 settembre vanno presentate le liste. Per evitare il bis delle comunali di Roma nel 2016 (quando le divisioni a destra fecero vincere il M5S) la soluzione che si fa strada è il ticket Musumeci- Armao. Ma manca ancora l’ok di Berlusconi.
Nel centrosinistra il divorzio è consumato. Nonostante il pressing di Giuliano Pisapia sui bersaniani per ottenere il sostegno alla candidatura del rettore di Palermo Fabrizio Micari (sponsorizzata da Orlando), le forze di sinistra hanno deciso di correre da sole. E tra domani e martedì indicheranno il nome del candidato. Super favorito il vicepresidente della commissione Antimafia Claudio Fava, ma in pista restano anche Corradino Mineo e il deputato di Si Erasmo Palazzotto. Fava ha già avuto l’ok di Mdp e domani scioglierà la riserva. «La Sicilia è diventata carne da macello per trattative romane tra Pd e Alfano sulla legge elettorale», attacca. «L’errore di Orlando è stato considerare la presenza di Alfano nell’alleanza un dettaglio insignificante». Anche il deputato di Mdp Angelo Capodicasa, considerato una colomba, respinge l’appello di Orlando: «Già a maggio Pisapia disse no ad alleanze con Alfano e questa era la nostra condizione per le regionali, nota a tutti. Adesso lui e Orlando cadono dal pero...». A sinistra si ragiona già sul dopo voto. «Se vinceranno il Pd o il M5S, ma senza maggioranza all’Ars, siamo pronti a valutare i singoli provvedimenti, ma senza entrare in maggioranza», spiega un deputato.
Corriere 27.8.17
Rottura a sinistra, Mdp lancia la candidatura di Fava
In Sicilia i bersaniani da soli. Centrodestra, Armao inizia il tour a caccia di«indignati»
di Giuseppe Alberto Falci
ROMA La notizia arriva in serata: in Sicilia Mdp lancia la candidatura di Claudio Fava a governatore. Una risposta al possibile accordo tra il Pd e Alfano, chiaramente osteggiato dai bersaniani. Una mossa che lascia perplessi anche gli uomini di Pisapia, i quali rispondono: serve unità. Ossia una coalizione ampia.
Intanto anche nel centrodestra il quadro è tutto da definire. Gaetano Armao ha iniziato venerdì ad Agrigento il suo tour per conquistare gli «indignati» di Sicilia. Nel giardino dell’hotel della Valle, caldeggiato e stimato da Silvio Berlusconi che lo vorrebbe alla guida della coalizione del centrodestra in Sicilia, ha conversato per più di un’ora con «liberi professionisti, imprenditori, artigiani». «Incontro solo la Sicilia che lavora, i miei non sono comizi», annota al Corriere mentre ritorna dalla sua seconda tappa a Trapani.
Domani invece sarà a Palermo a presentare il manifesto dei «siciliani indignati». A piccoli passi l’avvocato amministrativista compone «la lista dei siciliani stanchi della vecchia politica».
I suoi indignados in salsa sicula, spiega, si ispirano al movimento spagnolo Ciudadanos : «Ci rivolgiamo alla società civile che vota centrodestra». Preferisce però non svelare le carte: i nomi dei «prescelti» per le liste delle regionali «li scoprirete nei prossimi giorni». Nel frattempo continua a tessere il suo rapporto con il leader di FI. Il quale, giudicato positivamente questo «elegante e colto» professore palermitano, avrebbe detto ai suoi: «È lui l’uomo giusto».
Fra i due c’è un fil rouge , condito «da mail» e «lunghe telefonate». Berlusconi sarebbe rimasto colpito da una recente analisi di Armao. «Al presidente ho illustrato un dato interessante. Alle regionali del 2012, ove si annunciava la mirabolante rivoluzione di Crocetta accompagnata dalla presenza del M5S, si è recato alle urne il 46% dei siciliani. Al referendum costituzionale del 4 dicembre l’affluenza è stata del 56%. Ciò significa che quando si è prospettata l’opportunità di inviare un segnale univoco, i siciliani si sono mobilitati. Ecco puntiamo a quel 10% in più di affluenza». Questo parallelo avrebbe fatto colpo sull’ex premier, il quale avrebbe reagito così: «La chiave di tutto è il 4 dicembre».
Eppure, nonostante la spinta dell’ex premier, Armao starebbe ricevendo una forte opposizione dalla fronda degli ex An all’interno FI. Questi ultimi i spingono per il «destro» Nello Musumeci, a oggi sostenuto da Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Armao però non ne vuol sapere: «Non mi occupo di trattative».
Corriere 27.8.17
La rete di «insospettabili» dem che si schiera a difesa dell’assegno
Da Manconi a Capacchione cresce l’opposizione al testo del collega di partito Richetti
di Alessandro Trocino
ROMA Cesare Damiano, che ha già approcciato timidamente la materia («così si fa macelleria sociale), ora sostiene che questo disegno di legge è stato scritto da «un incompetente». Trattandosi del «compagno» dem Matteo Richetti, renziano, è chiaro che il livello dello scontro dentro il Pd è già piuttosto alto. E il rischio che il ddl sui vitalizi si imbarchi su un’ennesima navetta tra le Camere, per poi colare a picco con la fine della legislatura, diventa sempre più concreto. Anche perché a guidare la lotta contro il provvedimento sui vitalizi non sono personaggi screditati, peones scafati e vecchi arnesi della politica. In prima fila ci sono figure storiche rigorose come Ugo Sposetti, prodiani tutto d’un pezzo come Arturo Parisi, campioni del giornalismo civile come Rosaria Capacchione. Persone integerrime, non sospettabili di battaglie fatte solo per un tornaconto personale.
Il punto è, come si diceva una volta, ideologico. Perché l’ennesima abolizione dei vitalizi (sono già stati cancellati nel 2011, ora si vuole intervenire sul passato) è indigesta a quella parte della cultura politica dem che è aliena alle concessioni simboliche fatte per lucrare consensi facili. I prodiani, per esempio, son compatti nel denunciare lo schema. Se Sandra Zampa ha spiegato che «non si corre dietro alle grillate per recuperare consensi», Arturo Parisi ha ammonito: «È un provvedimento figlio e padre di un pericoloso sentimento antipolitico che nutre ma non sazia la belva che sta divorando la nostra democrazia». Belva denominata dai più «populismo». Che con i suoi tentacoli, aprendo un varco nella rapacità retroattività dello Stato, rischia per Rosaria Capacchione di creare «una voragine pericolosissima».
Quale sia questa voragine, lo spiega Damiano: «Io non ho nessuna contrarierà a un ulteriore taglio dei vitalizi, fermo restando che sono già stati aboliti per il futuro. Ma introdurre il ricalcolo alle pensioni in essere, è un fatto che per il momento riguarderebbe solo i parlamentari. Poi, aperto il varco e fatto passare il principio, potrebbe essere applicato a qualsiasi pensionato, operai Fiat compresi. E com’è noto, i predatori della previdenza sono sempre in agguato». Per dirla con Delrio (che parlava della scissione pd), sarebbe «come la rottura della diga in California: si forma una crepa e l’acqua dopo non la governi più».
E siccome si sa che le procedure parlamentari sono spesso, per parafrasare von Clausewitz, la continuazione dell’ideologia con altri mezzi, le parole possibiliste del capogruppo Luigi Zanda sono parse promettenti ai nemici del ddl. «Approfondire» la riforma vuol dire, tradotto, effettuare qualche cambiamento. E un solo ritocco farebbe ritornare la legge alla Camera.
Luigi Manconi prova a far prevalere un minimo di razionalità politica: «Io sono d’accordo con Zanda che, con molta serietà, dice che bisogna entrare nel merito della questione, che è delicata. Parlarne non è rincorrere il populismo. Anche se finora ha prevalso un dibattito tragicamente demagogico, come lo era chiedere di votare sì al referendum per ridurre il numero delle poltrone. Credo di poter affermare di essere il parlamentare del Pd meno sensibile alla subcultura grillina, che considero un’autentica iattura. Proviamo a entrare nel merito e discutiamo. Per ora mi pare una legge improvvisata e a forte rischio incostituzionalità».
Tra i senatori in molti non si esprimono. C’è chi dice che il ddl «è stato usato come arma di distrazione di massa». Perché il no al ddl sui vitalizi entra a pieno titolo anche nella guerra a Renzi, condotta non solo dalle opposizioni, ma anche da chi cerca di erodere dall’interno quel che resta dello slancio renziano delle origini.
il manifesto 27.8.17
Fava, in Sicilia la sinistra ha un candidato
Regionali. Il vice presidente della commissione antimafia vuole pensarci fino a domani, ma dopo la rottura con il Pd su Alfano Mdp già lo dà in pista in alleanza con Sinistra italiana e Rifondazione
di Domenico Cirillo
PALERMO Cinque anni fa, nell’estate che precedeva le scorse elezioni regionali siciliane, i candidati in campo erano Rosario Crocetta, Nello Musumeci, Giancarlo Cancelleri e Claudio Fava, che poi a un mese dal voto fu costretto a rinunciare perché aveva trasferito troppo tardi la residenza in Sicilia. Questa volta invece, dovendosi escludere un altro errore del genere, Fava come candidato della sinistra ci sarà. E ci saranno anche tutti gli altri: Cancelleri è già in campagna elettorale da settimane per il Movimento 5 Stelle, Musumeci sembra avviato a vincere il derby nel centrodestra contro il candidato civico Armao (che potrebbe fargli da vice), Crocetta ha ripetuto ancora ieri che sente l’obbligo di ripresentarsi, visto il modo in cui il Pd lo ha scaricato. E il Pd in alleanza con Alfano aggiungerà a questa lista il suo uomo, che a meno di colpi di scena a questo punto dovrebbe essere il rettore di Palermo Fabrizio Micari.
Proprio l’alleanza con Alfano è all’origine della rottura tra i democratici e i bersaniani di Mdp e Sinistra italiana. Malgrado i tentativi di Leoluca Orlando di riproporre in regione quell’alleanza larga da Alfano a Fratoianni che lo ha fatto vincere a Palermo. Niente da fare. Fava ha spiegato che «a Palermo c’era Orlando che si ricandidava per cercare una continuità amministrativa, qui invece si tratta di costruire una forte discontinuità con il presidente della Regione uscente, con la maggioranza che lo ha sostenuto e con il ruolo che anche Alfano ha avuto in questa maggioranza». Da una parte e dall’altra la sfida siciliana del prossimo 5 novembre è vista come l’anticipo della sfida delle politiche 2018, la prova generale delle future alleanze nazionali. «Non avevamo avanzato nessuna obiezione verso il candidato Micari, una persona perbene, ma avevamo detto che la coalizione non doveva essere definita in funzione di accordi romani con Alfano», ha spiegato Fava. «Invece – ha aggiunto – il Pd ha fatto della Sicilia carne da macello per trattative romane e questo è inaccettabile». Il riferimento è non solo alle alleanze future per il 2018, ma anche all’intesa su almeno due punti chiave ancora in piedi, due leggi il cui sacrificio suggellerà l’accordo Renzi-Alfano. La prima è una legge quasi fatta, quella sullo ius soli che avrebbe bisogno solo dell’ultimo passaggio al senato ma che Ap ha ottenuto di bloccare, la seconda è la legge elettorale, in teoria tutta da fare ma in concreto abbandonata per le nuove convenienze dei democratici e degli alfaniani, destinati a una formale alleanza al senato.
Il panorama delle candidature che si viene così delineando, oltre a favorire ulteriormente il candidato di Grillo, non risparmia ad alcuno l’accusa di incoerenza. Se dal Pd fanno notare come Mdp sia al governo con Alfano tanto a Roma quanto a
Palermo, e che lo stesso Giuliano Pisapia stia tentando di evitare la rottura tra renziani e bersaniani, da Mdp possono rispondere come proprio Pisapia sia stato tra i primi nella scorsa primavera giudicare Alfano «incompatibile» con il centrosinistra. Lo fa in particolare il leader isolano dei bersaniani, Angelo Capodicasa, che spiega come «a Roma è solo il carattere emergenziale della legislatura a tenerci nella maggioranza con Ap».
Eppure in Mdp non mancano le preoccupazioni per un esito del genere, anche ricordando che cinque anni fa la sinistra-sinistra si fermò alle regionali siciliane al 6%. Scontando però l’obbligata e tardiva rinuncia di Fava. Che questa volta invece ha già avuto il via libera dell’altro candidato in campo a sinistra, l’editore ed ex deputato Ottavio Navarra, da tempo indicato da Rifondazione ma disponibile al passo indietro.
Con Fava, attualmente deputato di Mdp e vice presidente della commissione antimafia, oltre a Mdp e Si ci saranno il Prc, i Comunisti italiani e Possibile. Sembra deciso, anche se ufficialmente Fava si è preso 24 ore per riflettere e scioglierà la riserva domani. Ma ieri sera proprio Capodicasa lo ha dato formalmente già in campo, segnale anche questo della discussione in corso a sinistra
Il Fatto 27.8.17
Bertinotti al meeting di Cl: la differenza tra fede e politica
di Marco Palombi
Al meeting di Comunione e Liberazione, com’è noto, hanno tutto: migliaia di visitatori educatissimi, mezza curia, tre quarti del governo, le meglio imprese italiane che mettono soldi e poi mandano i manager a tenere sermoni compunti, gli artisti e i volontari, le televisioni e la carta stampata, Luciano Violante e le suore laiche. “Non ci manca niente”, si dicevano felici i responsabili durante le riunioni preparatorie, finché uno non s’è battuto la mano sulla fronte: “Ci manca un comunista!”. Sì, ma mica uno di quelli cattivi, che mangiano i bambini, si sono subito detti, ne serve uno educato, che sappia usare le posate: “Ma non c’è quell’amico di don Carròn?”. È una scena che si ripete più o meno ogni anno e alla fine porta all’arrivo a Rimini di Fausto Bertinotti, quello che inviti quando non vuoi essere 13 a tavola. E venerdì l’ex leader di Rifondazione non ha tradito l’attesa ciellina: coccole, battutine, sorrisi, ammiccamenti, forchetta e coltello, Papa Francesco e il subcomandante Marcos. Parole a caso: “Nella storia di Cl la tradizione è viva, mentre certa sinistra se ne è disfatta”; “la cosa che più mi interessa di Cl è la formazione di un popolo: a me ricorda la storia migliore, quella delle feste dell’Unità, dell’organizzazione comunitaria e degli scioperi”; “la cosificazione dell’umanità”; “un pensiero debole produce persone deboli e popoli disarmati”; “la fede è il problema di sapere dove andare”. Ecco, quest’ultima frase ci ha colpito: la fede è sapere dove andare. Ora non ricordiamo: ma quindi è la politica che è sapere dove mandare
Corriere La Lettura 27.8.17
Ecco cos’è l’uomo e cos’è la morte Parla il filosofo Shelly Kagan che ha stregato Yale e poi la rete: Platone sbaglia, pensiamo alla vita
di Cristina Taglietti
«Chiamatemi Shelly, è il nome a cui rispondo. Rispondo anche a professor Kagan, ma le sinapsi ci mettono un po’ di più». Prima lezione a Yale del corso di filosofia morale. Anche adesso che è «grigio e augusto» il professore preferisce farsi chiamare per nome dai suoi studenti: lo dice stando seduto sulla cattedra a gambe incrociate, jeans, camicia a scacchi e Converse ai piedi, mentre introduce un corso che ha per tema la morte. Ventisei lezioni tenute per un semestre nel 2007 che sono state inserite nel programma «Open Yale Courses» e ora si trovano in rete, dove tutti le possono seguire. In migliaia le hanno guardate trasformando in una star questo professore rigoroso che riesce a coinvolgere chi lo ascolta, che abbia o meno una preparazione filosofica alle spalle.
Eppure non c’è niente di semplicistico in queste lezioni. Kagan è un filosofo analitico che affronta il tema surfando sui testi, citando Lucrezio, Cartesio, Hume ma anche narratori come Tolstoj e Julian Barnes.
Perché un corso sulla morte?
«Vorrei poter dire che è stata completamente una mia idea, ma non è così. Prima di Yale ho insegnato a Chicago, all’Università dell’Illinois. Quando arrivai il capo del dipartimento di filosofia mi spiegò che un collega, che se n’era andato, ogni tanto faceva dei corsi sulla morte. Cominciai lì, ma ebbero un successo molto modesto».
Poi è andato a Yale...
«Alla prima lezione arrivarono 300 studenti. Ho subito capito che sarebbe stato un corso popolare. La ragione più ovvia è che tutti si preoccupano della morte, tutti ci pensano. Perlopiù se ne parla in contesti religiosi. Invece è importante chiedersi a quali conclusioni possiamo arrivare se non facciamo affidamento su insegnamenti religiosi o su pretese di rivelazione, ma semplicemente sulla nostra capacità di pensare».
La morte è uno dei grandi temi della filosofia.
«E infatti in un corso introduttivo, dal punto di vista didattico, il tema mi permette di avviare gli studenti verso diverse aree della filosofia. Invece di usare un assortimento casuale di temi, diversi ogni settimana, ne uso uno solo».
Ma il successo è merito dell’argomento che interessa tutti o di come lei insegna? È indubbio che ha un modo di porsi coinvolgente, immediato.
«Il mio modo di insegnare è abbastanza informale e molti mi dicono che questo rende le lezioni accattivanti. Sto per la maggior parte del tempo seduto sulla scrivania e quando arrivo a un passaggio particolarmente interessante salto giù dal tavolo e inizio a muovermi. Non leggo le lezioni, non guardo nemmeno gli appunti. In America sono tutt’altro che un caso isolato anche se mi colloco nel punto più estremo del lato informale dello spettro dell’insegnamento. Ho un tono accorato, cerco di essere coinvolgente ma allo stesso tempo chiaro, cosa che non è sempre facile considerato che alcune questioni dal punto di vista filosofico sono particolarmente complicate. Il mio obiettivo non è insegnare che cosa ha detto questo o quel filosofo, ma insegnare a pensare ad alcune delle questioni più importanti nel modo migliore, permettere agli studenti di decidere da soli che cosa vogliono pensare. Una cosa che molti non hanno mai avuto la possibilità di fare».
Nelle prime lezioni dedica molto spazio a Platone e in particolare al dialogo «Fedone» .
«Discuto le sue teorie sull’immortalità dell’anima, ma anche in questo caso mi interessa decidere se i suoi argomenti sono o meno validi, non farli memorizzare».
Lei dice: «Se la morte è la mia fine, come può essere un male per me morire? Dopo tutto, una volta che sono morto non esisto e se non esisto come può la morte essere un male per me?». Il suo punto di partenza è Epicuro?
«Uno dei temi di cui mi occupo è se e come la morte è un male per noi. Sembra esserci qualcosa di sconcertante in questo. Il rompicapo risale a Epicuro secondo cui la giusta morale da trarre era che la morte non è un male. Molti pensano che questo sia sbagliato, ma dobbiamo immaginare dove il ragionamento è sbagliato. Ed è quello che faccio quando arrivo alla parte centrale del corso, dove discuto anche di Epicuro. Ma non è l’unica cosa e non è nemmeno il punto da cui partono le lezioni. Le lezioni partono con la domanda se abbiamo un’anima».
Eliminare la paura della morte è uno dei compiti della filosofia?
«Questa è l’idea che sta dietro gli argomenti di Epicuro: se la morte non è un male — e come potrebbe esserlo se io allora non esisterò piu? — non c’è nulla di cui avere paura, dal momento che dovremmo avere paura soltanto di ciò che è un male. Anche se io non sono d’accordo con la pretesa che la morte non sia un male, lo sono con l’idea che non dovremmo averne paura, non perché non sia un male ma per altre ragioni che sarebbe troppo complesso spiegare qui. Molti sono in disaccordo con me sul fatto che la paura della morte sia una risposta inappropriata alla morte stessa, a cominciare da mia moglie e dai miei figli, che pensano che io sia pazzo. Naturalmente credo che la morte spesso arrivi troppo presto e che abbiamo motivo di rattristarcene, di rimpiangere di non avere altri giorni di questa vita che può essere bella, significativa e gratificante. È giusto fare tutto ciò che possiamo per posticiparla. Ma ogni rimpianto può essere controbilanciato, o addirittura superato, dalla consapevolezza di quanto siamo stati fortunati a essere nati. Dall’altro lato — c’è sempre un altro lato in filosofia — non credo che sia desiderabile l’immortalità, altro tema controverso».
A questo proposito, nella sua lezione introduttiva espone subito i suoi punti di vista e ammette che cercherà di convincere la sua audience che sono corretti. Quindi: l’anima non esiste; l’immortalità non è un bene; il suicidio, in certe circostanze, è razionalmente e moralmente giustificabile. È un punto di vista materialistico.
«Ci sono molte idee pericolose, confuse e implausibili che le persone nutrono riguardo alla morte e io voglio aiutarle a fare chiarezza. Ma per me è anche più importante che imparino a pensare criticamente, così se alla fine sono in disaccordo con me, e spesso succede, va bene lo stesso. Mi interessa che ciò in cui credono sia basato sull’aver pensato a fondo e vicino alle cose».
Il metodo analitico, l’argomentazione razionale bastano per spiegare la morte?
«Per spiegare la morte per prima cosa dobbiamo capire che cos’è e non mi sembra che questo sia meno suscettibile di un esame razionale rispetto a qualunque altro tema. Naturalmente gli argomenti razionali non sempre persuadono, come tristemente la realtà ci insegna. Ma a cos’altro dovremmo appellarci? Anche chi si rifà agli insegnamenti religiosi cerca di offrire argomenti razionali a supporto. Il dibattito riguarda soltanto quali argomenti sono buoni e quali no».
Uno dei luoghi comuni sulla morte è che ognuno muore solo...
«Mi imbatto continuamente in questa affermazione nei libri, sui giornali, alla tv. Certamente non è vero se inteso letteralmente: le persone muoiono in presenza di altri tutto il tempo. Quindi deve significare qualcos’altro. Ma cosa? Nella lezione considero diverse possibili interpretazioni, ma nessuna risulta essere vera. Penso che sia solo una di quelle idee sulla morte che si dicono senza pensare a che cosa significa».
Il corso è diviso in due parti: la prima è dedicata ai temi metafisici, la seconda a quelli etici.
«La parte metafisica prepara il terreno a quella etica. Nella prima parte quindi esamino che cos’è la morte, se possiamo sopravvivere alla morte dei corpi, se c’è qualcosa di misterioso riguardo alla morte — io credo di no. Arrivo alla conclusione che la morte è la fine e che non esisterò più dopo che sarò morto. È con questa idea che possiamo dedicarci alla questione se la morte è davvero un male e come dovremmo sentirci riguardo a questo o che cosa dovremmo fare. Mi sembra che le reazioni siano interessate e accese riguardo a entrambe le parti. Ma ho ricevuto molte email commoventi riguardo al suicidio da persone che hanno seguito le lezioni video. Un tema che di solito suscita discussioni isteriche mentre io cerco di discuterne con calma e semplicità, affrontando le varie posizioni e cercando di vedere quali argomenti le supportano. Un approccio comune tra i filosofi, naturalmente, ma la maggior parte delle persone normalmente non lo affronta in questi termini».
Nelle sue lezioni ci sono naturalmente molti riferimenti bibliografici, ma quali sono i testi fondamentali per chi si avvicina a questo tema?
«C’è un saggio interessante intitolato Death scritto da Thomas Nagel, che è stato mio maestro. Si trova nella raccolta Mortal Questions . È un testo che ha acceso un revival di interesse presso filosofi anglosassoni e, a differenza di altri, può essere letto anche da non specialisti. Nelle mie lezioni parto dal Fedone di Platone, testo fantastico anche se non sono d’accordo con la maggior parte di ciò che dice. Leggere Platone è quasi sempre straordinario, sopratutto i giovanili dialoghi socratici . Un altro testo che apprezzo molto è Confrontations with the Reaper , di Fred Feldman».
Se togliamo alla morte ogni mistero che ne è della letteratura?
«Non c’è nessun mistero. La mia visione, semplificando, è che siamo solo corpi, fantastiche macchine che possono fare fantastiche cose — innamorarsi, scrivere poesie, studiare le origini dell’universo, giocare a scacchi, creare musica . La morte è più o meno come una macchina che si rompe. La letteratura si occupa della morte nella misura in cui si occupa della vita. I romanzi parlano anche di altro: amore, carriera, amicizia, famiglia, politica. Se fossimo immortali, se la morte non esistesse, la vita continuerebbe ad esistere e ci sarebbe sempre il bisogno di parlarne e scriverne. Ci sarebbe la letteratura anche se non ci fosse la morte».
Qual è il futuro della morte?
«Per pensarci correttamente, dovremmo stabilire se la morte potrebbe essere eliminata o no. Penso sia chiaro che può essere posticipata (i biologi ci stanno lavorando) in modo che le nostre vite possano diventare anche molto più lunghe di quelle che sono ora. È possibile eliminare completamente la morte? Presumibilmente i nostri cervelli finiranno per consumarsi, ma supponiamo che possiamo coltivare cervelli sintetici su cui caricare i nostri ricordi, le nostre paure, i desideri e le credenze. La persona che si sveglia da quell’operazione sarei ancora io? Ciò pone domande complicate che hanno a che fare con le basi metafisiche dell’identità personale. È un altro argomento di cui discuto nelle prime lezioni. I filosofi non sono d’accordo sulla risposta. Ma se la persona che si svegliasse non fossi io, ma solo qualcun altro che erroneamente pensa di essere me, allora potrebbe essere che non possiamo rimandare per sempre la morte. Se è così, il futuro della morte è lo stesso del suo stato attuale: viviamo e moriremo. Il nostro obiettivo, data questa verità, è capire quali tipi di vita vale la pena vivere».
Repubblica 27.8.16
Il senso di Pavese per il tempo perduto
Lo scrittore si uccise il 27 agosto 1950. La scrittrice francese Annie Ernaux racconta la sua storia attraverso la lettura dei suoi libri. Perché, dai racconti a “La bella estate”, l’elemento tragico nasce dagli incidenti ordinari della vita: come il sorriso di una ragazza indirizzato a un altro
di Annie Ernaux
Testo di Annie Ernaux, illustrazione di Manuele Fior
C’è la spiaggia, i vigneti, il sole, c’è tutta la bellezza del mondo. E la crudeltà, la violenza, la solitudine e la morte. Ma sempre, all’inizio, la festa. “A quei tempi era sempre festa”, con queste parole comincia La bella estate. La festa è dappertutto, se ne sente la musica da dietro le colline, dai cortili delle cascine e dalle sartorie, è la festa che si fa attorno a una chitarra con un po’ di vino, che va avanti tutta la notte, nelle stanze degli studentati o, appunto, sulle colline, nel calore dell’estate. Perché è anche sempre estate. O semplicemente la festa di vivere, quando si è giovani e si fa il proprio ingresso nel mondo. Ma la festa non ha luogo, oppure riesce male. La Ginia de La bella estate perde ogni illusione finché non le resta altro da fare che sprofondare nella festa pagata della prostituzione. La Rosetta di Tra donne sole incontra la morte in fondo alla sua dolce vita, mentre Clelia, una volta conseguito l’agognato successo sociale, scopre che “ le cose si ottengono, ma quando non servono più”. In Pavese la festa è la forma del tragico, una forma straziante, nella quale l’immagine della felicità è lì, presente, e al contempo perduta in partenza.
Ciò che c’è di terribile nell’opera di Pavese è che il tragico sembra nascere dal funzionamento naturale della vita, dagli incidenti più ordinari, una bacinella d’acqua gettata in strada dalla finestra, il sorriso che la ragazza con cui si sta ballando indirizza a un altro uomo nella sala. Quando e se sopraggiungono, il fallimento, la violenza e la morte ne risultano quasi neutralizzati, livellati, inclusi nel corso dell’universo. Leggere Pavese significa trovarsi a un tavolino all’aperto di un bar, d’estate, con le macchine che passano, la pelle delle donne che luccica da lontano, senza sapere più bene da quanto tempo si è lì seduti, e perché. Sul giornale si parla di un attentato, di fatti di cronaca. Le cose sono lì, ma a distanza, nella loro opacità.
Non ho mai provato altrove questo strano sentimento di essere trascinata in una realtà che non potrebbe essere nient’altro rispetto a ciò che è, di cui non si può volere che sia null’altro. Effetto di una scrittura trasparente, una scrittura che non dà sfoggio di sé ma tende a far vedere o sentire. A “presentare senza descrivere”, per dirla con lo stesso Pavese. Una scrittura che mostra, senza analizzare né giudicare, che procura esattamente la sensazione procurata dalle cose nel momento in cui le si vive, prima ancora che siano interpretate dall’intelligenza e dalla memoria. In un racconto breve, Gli anni, un uomo è a letto di fianco all’amata. La sera prima lei l’ha lasciato, gli ha detto che al mattino se ne sarebbe dovuto andare. L’infelicità informe e indicibile dell’uomo è espressa soltanto attraverso i pochi scambi di battute tra i due, l’ultima colazione fatta assieme, i gesti della donna, il suo modo di limarsi le unghie. Impressione meravigliosa e desolante di un universo in cui a esistere sarebbero soltanto cose, comportamenti, sensazioni, ma non parole.
Questa disperata ricerca del reale si compie attraverso la coscienza e la sensibilità di un solo personaggio. Ci si trova rinchiusi nel presente di Ginia o del Pablo di Il compagno, e, come nella vita, si ignora ciò che accadrà in seguito, così come il senso di ciò che si sta vivendo. Ginia attraversa la sua prima estate da ragazza nel piacere e nel turbamento, senza valutare la portata dei suoi desideri, delle sue frequentazioni. Tutto ciò che c’è di ammirevole in Pavese risiede in questa sospensione del senso e in questo imprigionamento in un presente senza vie di fuga. Tecnica, se mai si può utilizzare questo
termine, che rimanda a un’impossibilità di raggiungere l’Altro ( Il mestiere di vivere: “Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco”). Alla fine, ad aver senso è solo la vita vissuta, il presente accumulato, e il racconto giunto al termine. Nei testi di Pavese quasi mai succede qualcosa, c’è solo il tempo. E questo tempo conduce lentamente non tanto, come in Proust, alla rivelazione o alla conoscenza, bensì alla constatazione del fallimento, alla solitudine. Eccezionalmente, ne Il compagno, all’azione. Più spesso, alla morte.
Il 27 agosto 1950 Pavese si è suicidato in una camera d’albergo di Torino. Ho verificato – credo che si tratti di quel genere di cose che si fanno quando si ama appassionatamente l’opera di uno scrittore –, quell’anno il 27 agosto cadeva di domenica, giorno di festa.
Il Sole Domenica 27.8.17
Spagna: cosa resta dopo il fanatismo
Il romanzo «Patria» di Fernando Aramburu sull’Eta è una descrizione sottile della degenerazione morale che la lotta armata provoca in una società, corrodendone valori, istituzioni e rapporti umani
di Mario Vargas Llosa
Devo aver letto decine di articoli sull’Eta, e molti saggi, ma solo Patria, il romanzo di Fernando Aramburu, mi ha fatto vivere, da dentro, non come testimone distante ma come un carnefice e una vittima tra gli altri, gli anni di sangue e orrore che ha patito la Spagna con il terrorismo dell’Eta. Il romanzo ci affascina, ci rapisce con la sua magia verbale, con le sapienti alterazioni della cronologia e dei punti di vista, fino a convincerci che la sua non sia una storia scritta, ma vita pura e semplice, e che noi vi siamo immersi e la viviamo al pari dei suoi personaggi. Non leggevo da tempo un libro così convincente e commovente, concepito in modo così intelligente, una finzione che è una testimonianza eloquente di una realtà storica come lo sono state, ai loro tempi, il romanzo di Joseph Conrad L’agente segreto , sugli anarchici londinesi dell’Ottocento, o La condizione umana di André Malraux, sulla Rivoluzione cinese.
L’azione si svolge in un paesino senza nome, vicino a San Sebastián, dove due famiglie, fino ad allora molto unite, diventano a poco a poco nemiche, mutando l’amicizia in odio, per colpa della politica. O meglio, della violenza travestita da politica. All’inizio, si direbbe che tutti gli abitanti appoggino la sovversione; come sembrerebbero indicare le scritte sui muri, gli striscioni, le manifestazioni davanti al Municipio per chiedere la liberazione dei prigionieri, le tangenti rivoluzionarie che i possidenti pagano a Patxi, il padrone della taverna, discreto dirigente politico dell’Eta, gli insulti e il ribrezzo che suscitano gli spregevoli «spagnolisti». Ma a mano a mano che entriamo nell’intimità delle famiglie, e le udiamo parlare a bassa voce, senza testimoni, capiamo che molti abitanti nascondono i propri sentimenti perché hanno paura, un terrore che li segue come un’ombra. E non è una paura ingiustificata, perché la cricca di quelli che invece ci credono, dei convinti, è una terribile macchina di morte, implacabile quando mette in atto le sue rappresaglie, come dimostrano in modo inconfutabile i cadaveri che di tanto in tanto compaiono per le strade. Ne è la prova Txato, un imprenditore volenteroso e onesto che, oltre alla sua famiglia, adora giocare a mus (gioco di carte, Ndt) e andare in giro la domenica sulla sua bicicletta. L’Eta pretende sempre più soldi e lui glieli dà, per vivere in pace, ma le richieste aumentano e, quando superano una certa cifra, smette di dare. Allora tutti i muri si riempiono di scritte in cui Txato è chiamato traditore, venduto, vigliacco, miserabile. La gente smette di salutarlo; il ripugnante parroco del paese, don Serapio, gli consiglia di andarsene. Finché, una sera piovosa, qualcuno gli spara cinque colpi alle spalle.
Nel corso degli anni la sua vedova, Bittori, andrà al cimitero a parlare con il suo cadavere, a raccontargli le vicende della sua famiglia distrutta e il suo dubbio angosciante su quale uomo dell’Eta lo abbia ucciso: è stato Joxe Mari, il figlio della sua intima amica Miren, a cui il povero Txato aveva insegnato ad andare in bici quando era bambino e a cui comprava sempre i cioccolatini? Joxe Mari, personaggio agghiacciante, giovane forzuto, ignorante e un po’ bestiale, non diventa terrorista per ragioni ideologiche – la sua competenza politica non va oltre la convinzione che la Spagna sfrutti l’Euskal Herria (Paese Basco, ndt) e che soltanto la lotta armata possa portare all’indipendenza – ma per amore del rischio e per una vaga attrazione verso i personaggi violenti. Seguiamo da vicino la sua formazione come terrorista, nella clandestinità della Bretagna, la noia di fronte alla teoria e l’eccitazione durante le lezioni pratiche in cui gli insegnano a fabbricare bombe, a preparare imboscate e a uccidere rapidamente. Siamo con lui, dentro di lui, quando commette il suo primo omicidio, quando la polizia lo cattura e lo tortura, e durante i lunghi anni di una prigionia dalla quale, forse, non uscirà vivo.
I personaggi di Patria non sono eroi eponimi né grandi infami, ma esseri normali, in alcuni casi poveri diavoli, che non susciterebbero il minimo interesse in altre circostanze. Le figure più interessanti non sono tali perché possiedono virtù eccezionali, ma per la ferocia con la quale la violenza fisica e morale si abbatte su di loro, condannandoli a una quotidianità fatta di ipocrisia e di silenzio in questo «paese di gente che tace», e per la stoica rassegnazione con la quale sopportano la propria sorte, senza ribellarsi, sottomettendovisi come se fosse un terremoto o un tornado, cioè una tragedia naturale inevitabile.
L’atmosfera in cui trascorrono queste vite è uno dei grandi pregi del romanzo: pesante, opprimente, ripetitiva, minacciosa. Il tempo si muove appena, a volte si ferma. L’effetto è dato da una struttura narrativa audace, fatta di piccoli episodi che non si succedono cronologicamente ma con salti avanti e indietro, che violentano la sequenza temporale, allontanati o avvicinati per stabilire tra loro un contrappunto chiarificatore, una cronologia in cui spesso le conseguenze precedono le cause e il passato e il futuro si mescolano fino a divenire un presente che fonde ciò che è accaduto e ciò che accadrà. Il lettore non si perde in questi salti temporali; al contrario, si impregna di questa eternità istantanea – l’elemento aggiunto – in cui paiono accadere le vicende della storia.
Il romanzo è scritto con un linguaggio nel quale il narratore e i personaggi si discostano o si fondono, un punto di vista sottile e complesso, in cui i mutamenti si succedono in modo impercettibile, confondendo ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo, il mondo dei fatti e quello delle emozioni e delle fantasie, le cose che avvengono davvero e le reazioni che queste suscitano nelle menti. Il romanzo costruisce in questo modo una totalità autosufficiente, la prodezza maggiore di un romanziere.
Il libro, una storia triste e insieme affascinante, è anche una presa di posizione chiara, una condanna netta della violenza, dei fanatismi e dell’ignoranza che la provocano. E una descrizione sottile della degenerazione morale che la violenza provoca in una società, corrodendone i valori, inimicando e svilendo le persone, distruggendo le istituzioni e i rapporti umani. Ma evita, saggiamente, le disquisizioni ideologiche, limitandosi a mostrare, attraverso episodi asciutti e coinvolgenti, come, non volendolo e non rendendosene conto, una società di persone sane, senza niente da nascondere, è trascinata a poco a poco, a furia di concessioni, nella complicità e a volte nelle peggiori viltà.
Quando Patria finisce, l’Eta ha rinunciato alla lotta armata e ha deciso di agire soltanto in ambito politico. È un passo avanti, naturalmente. Ma si intravede una qualche soluzione al problema di fondo, a questo dannato nazionalismo? Il libro è più pessimista di quanto avrebbe voluto l’autore. Nel finale, le due ex amiche, Miren, la madre del terrorista, e Bittori, la madre dell’uomo ucciso, si abbracciano, riconciliate. È l’unico episodio di questo bel romanzo che non mi è parso vita vera, ma pura finzione.
(traduzione di Federica Niola)
*Premio Nobel per la letteratura 2010
© mario vargas llosa, 2017.
world press rights in all languages reserved to ediciones el país, s.l.
Fernando Aramburu, Patria , traduzione di Bruno Arpaia, Guanda, Milano, pagg.640, € 19, in libreria da domani
Aramburu sarà a Festivaletteratura di Mantova
il 9 settembre alle 14.30 alla chiesa di santa Paola con Wlodek Goldkorn e a Torino al Circolo dei Lettori l’11 settembre alle 18 con Michela Murgia
Il Sole Domenica 27.8.17
Guido Rossi, avvocato difensore del pensiero critico
di Armando Massarenti
«La professione dei filosofi non è quella di fare qualche cosa, ma di osservare ogni cosa. Essi, per questa ragione, sono spesso capaci di combinare insieme le proprietà degli oggetti più distanti e disparati». Adam Smith grazie a questa sua capacità ha fondato la moderna scienza economica. Guido Rossi, il grande avvocato-manager che ci ha lasciato lunedì scorso all’età di 86 anni, aveva posto quella sua citazione in esergo del suo libro Perché filosofia, uscito nel 2008, che riassume il senso del suo insegnamento all’Università San Raffaele di Milano, quasi a sottolineare due cose apparentemente contrastanti: da un lato l’astrattezza in cui consiste l’attività filosofica, e dunque la sua apparente e quasi costitutiva, inutilità; dall’altro, quando è buona filosofia, la sua straordinaria concretezza, per cui essa si trova all’origine di quasi ogni processo che ha portato alla crescita della conoscenza e della civiltà. Quella di Rossi è una filosofia che deve molto allo spirito dell’Illuminismo settecentesco, quando era evidente quanto l’onestà intellettuale e l’amore per la conoscenza avessero una forte valenza pratica e civile. L’oggetto della filosofia, scriveva un autore amato da Rossi, Isaiah Berlin, «consiste in larga misura non nei contenuti dell’esperienza, ma nei modi in cui a questa si guarda, nelle categorie permanenti o semipermanenti nei cui termini l’esperienza è concepita o classificata». «Guardare non solo ai contenuti, ma ai modi dell’esperienza, alle condizioni di possibilità», commenta Rossi. «Potremmo definire la filosofia un’arte dello sguardo, che, come dice ancora Berlin, fornisce gli occhiali con cui guardiamo il mondo, ma anche lo spunto per cambiarli, quando con essi non riusciamo più a vederci chiaro». Alla filosofia «spetta il compito, spesso difficile e tormentoso – per riferirci ancora alle parole di Berlin -, di districare e portare alla luce le categorie e i modelli nascosti nei cui termini gli esseri umani pensano (ossia il loro uso di parole, immagini e altri simboli), di rivelare ciò che v’è in essi di oscuro e contraddittorio, di discernere i conflitti tra l’uno e l’altro che impediscono la costruzione di maniere più adeguate di organizzare e descrivere e spiegare l’esperienza (...); e quindi, a un livello ancora più ’elevato’, di esaminare la natura di questa stessa attività (epistemologia, logica filosofica, analisi linguistica), e di portare alla luce i modelli nascosti che operano in quest’attività di secondo livello, filosofica». I più grandi filosofi dunque non sono quelli che vivono fuori dal mondo, ma quelli che cercano nuovi punti di vista per dare risposte ai problemi più concreti e urgenti della contemporaneità. «Se sono riuscito nella mia professione di avvocato ciò è avvenuto anche per merito di questa continua curiosità, che non mi ha mai abbandonato e che mi ha permesso di custodire la scintilla filosofica dentro il mio lavoro», scrive Rossi dopo aver raccontato di quando, studente di Giurisprudenza a Pavia, «mi recavo per metà del tempo alle lezioni di diritto, ma per l’altra metà seguivo lezioni di filosofia» approfittando del passaggio di personaggi come Giulio Preti, Ludovico Geymonat, Enzo Paci, Remo Cantoni, mentre di Milano il ricordo va a una lezione su Socrate di Antonio Banfi e negli Usa a quella di un giovane e brillante Noam Chomsky. «Non bastasse – aggiunge Rossi –, a Oxford, mentre preparavo il mio primo lavoro di tesi sul diritto fallimentare inglese, non perdevo occasione per seguire lezioni su Frege, Russell, Wittgenstein e Carnap». Rossi lamenta che in Italia «la filosofia del diritto sia ridotta a esame secondario per le Facoltà di giurisprudenza, dove è soprattutto pensata come teoria generale del diritto e dove, per esempio, viene relegato il pensiero di Hans Kelsen, e completamente ignorata nei corsi di formazione professionale. Ed è impressionante che lo stesso avvenga nelle Facoltà di filosofia». Più economia e più diritto a filosofia, dunque. Ma anche più filosofia, cioè più consapevolezza epistemologica, in tutte le possibili facoltà, a partire appunto da quelle di economia e di diritto. Guido Rossi - in consonanza con ciò che è stato molte volte ripetuto in questa rubrica, di cui era un estimatore - condivideva l’idea della necessità di sviluppare al massimo grado il «pensiero critico» che sta alla base di ogni buona filosofia. Non foss’altro che per ragioni legate alla sopravvivenza stessa della nostra democrazia, la quale, come sostiene Amartya Sen, non consiste solo in una votazione ogni 4 o 5 anni, ma nella reale possibilità di sviluppare una discussione pubblica libera, competente, critica e informata. Cioè, in un parola, di essere tutti almeno un po’ filosofi.
Il Sole Domenica 27.8.17
Miti greci
L’esperienza dei misteri
La pervasività dei riti di iniziazione nel mondo antico mostra che è forse l’unica forma religiosa vissuta con reale convinzione
di Maria Bettetini
Ulisse dorme, i Feaci lo riportano a Itaca ricco di doni. Sbarcano, lo lasciano vicino a un porto sacro a Forco e all’antro delle ninfe Naiadi. Una breve notazione di paesaggio, potrebbe sembrare questo riferimento a una sorta di caverna «oscura e amabile». Ma come sappiamo da Porfirio, come la tradizione ha tramandato, questi pochi versi del XIII libro dell’Odissea, separano il viaggio dal ritorno in patria e ne sottolineano il valore simbolico.
L’antro delle ninfe Naiadi ha infatti due porte, una, verso Borea, adatta agli uomini, l’altra, verso Noto, riservata agli esseri divini, «la via degli dèi» (XIII, 137). La prima è voltata a nord, da dove le anime possono solo scendere per finire prigioniere dei corpi. La seconda, verso sud, apre all’ascesa che trasforma le anime degli iniziati in esseri divini.
Con La via degli dèi Davide Susanetti intende mostrare la pervasività, nel mondo greco, ma anche egizio e latino, dell’idea di iniziazione ai Misteri, forse l’unica forma religiosa vissuta con convinzione e per scelta dagli antichi. Esiste uno schema di base che Susanetti ritrova nei miti primigeni come nelle opere letterarie e filosofiche: lo racconta come si raccontano «le storie», le favole, senza note o digressioni specialistiche, chiedendo al lettore solo una discreta conoscenza di queste opere e di questi miti.
I racconti dell’inizio, dunque. Si parli di Iside e Osiride, o di Dioniso e Persefone, l’inizio è sempre un’unità che ricompone una dispersione. Il corpo di Osiride, o quello di Dioniso ucciso dai gelosi Titani, o neikos, l’odio che secondo Empedocle di Agrigento allontana tra loro i quattro elementi primordiali, finché philìa, l’amore di amicizia, non riesce a riportarli insieme. Nel variare dei racconti, Dioniso è figlio di Persefone e di suo padre Zeus, che l’aveva generata unendosi a Demetra. Un parto incestuoso, accompagnato alla tragica vicenda del rapimento di Demetra da parte di Ade, il dio degli inferi. Ma Dioniso è anche figlio di Semele e Apollo, che hanno ricevuto da Atena il suo cuore, strappato al corpo dai Titani che lo hanno ucciso e lo hanno fatto a pezzi, per poi mangiarlo. Dai sette Titani inceneriti per punizione, nascerà l’uomo, un po’ bestia, come i giganti senza controllo, un po’ dio, come Dioniso di cui i giganti si sono cibati. Questo morire e tornare a vivere è il percorso dell’iniziato, lo stesso di Ulisse che dorme e riprende coscienza ormai a casa.
Dappertutto si legge che ai misteri orfici (da Orfeo, che nell’Ade discese) si giunge non grazie allo studio e allo sforzo individuale, ma grazie alla sottomissione volontaria, però passiva, a una forma di morte. Chi non cerca e non accetta l’iniziazione potrà essere punito in questa vita, come il re Penteo delle Baccanti, dilaniato dalle donne della città, tra le quali sua madre, possedute da Dioniso e da lui accecate: Penteo aveva rifiutato il culto di Dioniso, ritenendolo un’inutile superstizione, un culto nuovo quindi insulso o sospetto.
Certo saranno puniti nella prossima vita, quando lasciato questo mondo non avranno alcuna consapevolezza di ciò che è davvero, non sapranno quindi scegliere altro che la dimenticanza del passato per ritornare a imprigionarsi in un corpo, nella migliore delle ipotesi, oppure a patire in eterno l’oscurità di Ade, a ripetere quindi il tremendo pensiero di Achille, che avrebbe preferito mille volte essere uno schiavo (una cosa, quindi) nella luce, piuttosto che essere, com’era, un principe con inutile principato negli inferi.
L’iniziato, invece, sa. Sa perché ha subito l’iniziazione, vi si è sottoposto. In qualche maniera è morto ed è rinato, come l’intero mondo è stato mangiato dal primo fra gli dèi, Zeus, nel divorare i genitali di Urano, e da lì è rinato come cosmo, realtà ordinata. Sappiamo poco però dei riti di Eleusi. Non sappiamo in che cosa consistesse questa “morte”, perché tutto ciò che conosciamo è frammentario, tratto da canti per loro natura oscuri e simbolici, o da riferimenti contenuti in testi filosofici o letterari, che dovevano essere colti dagli iniziati, quindi che davano per scontato ciò che vi era di sottinteso e che nascosto doveva rimanere alle orecchie degli estranei. Nella scuola pitagorica, per esempio, sappiamo che i nuovi arrivati erano sottoposti a un esame, se ammessi trascorrevano i primi tre anni in mezzo a «fratelli» impegnati a farli sentire delle nullità.
Raggiunto un buon grado di distacco da sé, i successivi cinque anni dovevano essere cinque anni di silenzio assoluto. Colui che subiva l’iniziazione doveva quindi arrivare a disprezzare se stesso e la propria volontà, ritenere ovvio che non gli si chiedesse un’opinione. Solo così, secondo Pitagora - se mai è davvero esistito - la parte migliore dell’uomo, quell’anima superiore alla mente e al corpo, poteva aspirare a divinizzarsi conoscendo ciò che sanno gli dèi. Nel caso dei Pitagorici, quella philìa che tiene armonicamente legate tra loro tutte le cose e che si esprime attraverso la legge del numero.
È appassionante ritrovare questo stesso movimento di morte e resurrezione, o abbassamento ed elevazione, in Parmenide, Eraclito, Platone: la caverna buia da dove si può uscire alla luce, la palinodia d’amore del Fedro, la condizione dell’anima del Fedone, in generale la figura di Socrate, brutto fuori e attraente dentro, come le Sirene, come l’oro nascosto, secondo la struggente descrizione di Alcibiade nel Simposio. Ma anche nelle Metamorfosi o L’asino d’oro dell’africano latino Apuleio, dove Lucio passa attraverso la trasformazione in asino per diventare poi sacerdote di Iside. Nella favola di Amore e Psiche, con l’amore al buio, l’errore, la fatica delle prove, la divinizzazione di Psiche, dell’anima, appunto. Il neoplatonismo, se possibile, estremizza la condizione umana: per Plotino siamo pietra grezza da cui togliere per ottenere un agalma, un’immagine divina. Tutto deve essere lasciato per raggiungere l’Uno, ciò che non è nemmeno un’ipostasi, perché è al di là dell’essere e dello stare. Giamblico e Proclo sottolineeranno ancora di più la necessità di non dedicarsi alla sapienza umana, ma di praticare quella divina.
Il teurgo sarà l’uomo dedito a compiere riti e gesti sacri, che sacro lo rendono. Da qui, si potrebbe pensare, da un lato la mistica in tutte le forme di platonismo, da Agostino di Ippona a Meister Eckhart. D’altro lato, l’alchimia, che si basa proprio sull’idea di universo come vivente con una sola anima, con la quale si può imparare a interagire, e infine a identificarsi. Si tratti di raggiungere l’estasi o la pietra filosofale, con gli opportuni distinguo, una simile storia del permanere di un’idea ha solo il rischio di far dimenticare quanto di grande, e anche terribile, ha compiuto l’uomo fin dalla preistoria con l’uso della ragione, di quel mathein, studiare, tanto aborrito dagli iniziati ai misteri eleusini.
Il Sole Domenica 27.8.17
Piccolo tour tra gli dèi
di Armando Torno
Un frammento di Pindaro asserisce: «Non è possibile, con una mente umana, scandagliare i propositi degli dei». Eraclito si esprimeva in termini analoghi meditando sui confini dell’anima, che sono introvabili, per quanto si percorrano le sue vie.
Sono due testimonianze autorevoli della religiosità greca proferite tra poesia e filosofia. Altre le offrivano la tragedia o l’arte. Lo spirito degli elleni rifletteva il soprannaturale, rivelando un mondo dove gli dei parlavano sovente attraverso i poeti. Un solco profondo, tuttavia, divideva gli uomini dalle divinità: il tentativo di superarlo era considerato hybris, superbia, orgogliosa tracotanza. E come tale punito.
Eppure in Grecia ognuno poteva partecipare al divino secondo le possibilità che la sorte gli aveva concesso. In una religione vivente di miti e senza dogmi, il dialogo con gli dei era continuo. Omero non scrisse libri ispirati, o considerati tali; tuttavia i suoi poemi si possono ritenere una sorta di Bibbia della religione greca. Descrivono le azioni, i capricci, le emozioni delle divinità; ne evocano le storie, narrano come l’Olimpo interagisca con i mortali e sappia mutare il loro destino. Alla poesia omerica non è negato l’accesso alla struttura del mondo olimpico. Pindaro, d’altro canto, sceglie di soffermarsi sui fatti che hanno generato i miti quasi di scorcio, sembra desideri disporre gli elementi che alimentano la storia intorno a un’immagine centrale. Un esempio? Basterà ricordare la prima Nemea per Cromio di Siracusa, vincitore alla corsa dei carri, dove si narra - senza alcun collegamento all’attualità - il mito di Eracle. Seppure neonato, strozza nella culla i serpenti mandati da Era. La scena che rampolla dai suoi versi è paragonabile a un dipinto: i presenti sono colmi di terrore e altri accorrono in armi, la madre Alcmena abbandona seminuda il letto, il padre putativo Anfitrione (quello vero è Zeus) con la spada sguainata cerca di intervenire. Tutto ciò rappresenta il nucleo della vicenda, mentre il piccolo Eracle stringe in pugno i rettili strozzati. È chiamato Tiresia, l’indovino, colui che nell’Odissea sarà consultato da Ulisse nel regno dei morti, dove conserva ancora il dono profetico. Egli subito predice che Eracle impiegherà la sua forza eccezionale per il trionfo del bene voluto da Zeus. Morale: il mito illustra come si deve realizzare la propria natura secondo giustizia.
C’è da perdersi nella religione greca. È troppo vasta, mutevole nelle narrazioni degli dei, fascinosa nelle soluzioni, disponibile agli abissi mistici. Parole quest’ultime, che con una certa libertà ci vengono alla mente leggendo La via degli dei, un libro scritto con notevole mestiere, documentato, un vero viaggio nella sapienza greca, nei suoi misteri, nei percorsi di iniziazione. Si deve a Davide Susanetti, professore di letteratura greca all'Università di Padova.
Susanetti illustra i misteri, conduce il lettore negli itinerari simbolici fra Platone, Plutarco e Porfirio; è attento agli incantesimi, parla degli arcani dell’amore (tra Platone e Apuleio), si sofferma sull’opera divina. Illustra il gioco dei simboli con il loro potere, le attività demiurgiche, la filosofia misterica, le ascese solari. Chiudono il saggio le parti sui segreti ermetici e le pratiche alchemiche. Si comprende meglio, tra l’altro, il significato del drákon ourobóros, il serpente che si morde la coda. E qui si apre un universo. Scrive Susanetti: «È una delle immagini predilette dagli adepti dell’alchimia. In essa si racchiude un aspetto essenziale della loro arte sacra. Il serpente, che muta la sua pelle, è antico simbolo di immortalità e di rinnovamento, figura di potenze che si nascondono nella terra, ma che si legano, contemporaneamente, ai misteri del cielo». Il rettile che si rivolge su se stesso forma con il proprio corpo un cerchio, il quale simbolicamente «contiene e abbraccia tutte le cose». Un passo che si legge nella raccolta degli Antichi alchimisti greci (Susanetti utilizza l’edizione di Berthelot e Ruelle in tre tomi, 1887-88) recita: «L’Uno è il Tutto e il Tutto è grazie a questo e per questo, e se l’Uno non contiene il Tutto, il Tutto è nulla». Qualcuno potrebbe attribuirlo a Plotino.
Cicerone nelle Leggi ha scritto che il lascito più prezioso di quel mondo sono stati i misteri di Eleusi. Grazie alle iniziazioni misteriche, afferma il grande romano, «noi abbiamo conosciuto i principi della vita nella loro essenza». Il libro di Susanetti è una guida per meglio comprendere questi e altri aspetti di una civiltà che visse di riflessi divini. I quali abitavano negli oracoli o nel culto di Dioniso, negli eroi o nelle anime comuni.
Davide Susanetti, La via degli dèi. Sapienza greca, misteri antichi e percorsi di iniziazione , Carocci Editore, Roma, pagg. 262, € 24
Il Sole Domenica 27.8.17
Scienze psicosociali
Democrazie personalizzate
Per Platone, politica e morale sono due facce della stessa medaglia e il governo giusto è solo quello dei filosofi, che sanno cosa è la giustizia. Aristotele, invece, preferisce discutere la politica come dimensione dell’esperienza sociale indipendente dall’etica
di Gilberto Corbellini
Per Platone, politica e morale sono due facce della stessa medaglia e il governo giusto è solo quello dei filosofi, che sanno cosa è la giustizia. Aristotele, invece, preferisce discutere la politica come dimensione dell’esperienza sociale indipendente dall’etica. Non tanto perché le forme della virtù siano irrilevanti, ma in quanto, se si ha di mira il bene generale, è disfunzionale decidere una forma di governo partendo da doti etiche personali. Meglio chiedersi sotto quale tipo di legge (costituzione) sarebbe preferibile vivere. Sono dovuti trascorrere quasi due millenni, ed è occorsa la provocazione di Macchiavelli (ma quale etica, è tutto lecito in politica!), per rendersi conto che i valori della convivenza civile si possono stabilire concordemente, per vie democratiche, attraverso leggi nelle quali tutti si riconoscono e che sono uguali per tutti; piuttosto che lasciarli decidere, i valori, dai politici che di volta in volta per le loro personalità/capacità intercettano i favori popolari. La selezione naturale non poteva prevedere che per la convivenza civile nelle innaturali società moderne si dovessero inventare lo stato di diritto, il libero mercato, l’epistemologia scientifica, il rispetto degli estranei, i diritti umani, etc. Le sensibilità per questi valori non sono innate, come provano le scienze cognitive. Scaturiscono da processi storico-sociali che hanno manipolato, provvisoriamente, predisposizioni psicologiche individuali polimorfiche, dando luogo a repertori e combinazioni di profili comportamentali, quindi preferenze valoriali e infine orientamenti politico-ideologici, che si combinano e ricombinano nei gruppi umani per rispondere a continue e diverse sfide o instabilità dettate da dinamiche ecologiche in senso lato.
La psicologia della personalità è un terreno fertile per studiare e ragionare delle basi comportamentali della politica e per capire quali forme di organizzazione della convivenza umana sono più congeniali alle disposizioni individuali e sociali umane. In un denso e lucido libro, Gian Vittorio Caprara e Michele Vecchione argomentano che la democrazia è un’«impresa morale che si fonda ampiamente sulla moralità pubblica dei suoi cittadini», e che la divaricazione ideologica tra destra e sinistra o tra liberali e conservatori intercetta tratti fondamentali della personalità, che nell’evoluzione della cultura politica occidentale si strutturano preferibilmente attraverso questa tipologia di identificazione politica, in ragione dei valori morali e politici associati a questi piani. Non è di personalizzazione della politica nel senso tradizionale che parla il libro, cioè delle caratteristiche psicologiche dei leader votati dagli elettori e che sembrano contare sempre più, ma di come i tratti e i valori delle personalità dei cittadini concorrono al funzionamento di un sistema politico. Nondimeno si parla anche del fatto, corroborato da studi empirici, che le somiglianze di personalità tra politici ed elettori giocano un ruolo nelle scelte di voto.
Il libro espone dati, analisi e proposte fondate su due influenti paradigmi della psicologia della personalità e della psicologia sociale umana: il modello dei Big Five e la tassonomia dei valori umani fondamentali di Shalom H. Schwartz. I cinque “grandi” tratti selezionati nei primi decenni del secondo dopoguerra sulla base di studi lessicali e analisi fattoriali, come noto, sono: apertura mentale (quanto una persona è inventiva e curiosa piuttosto che cauta e conservatrice), amicalità (quanto una persona è fiduciosa, altruista e cordiale, piuttosto che egoista e sospettosa) coscienziosità (quanto è efficiente e scrupolosa, piuttosto che superficiale e disattenta), estroversione (quanto è energica e socievole, piuttosto che solitaria e chiusa) e, infine, stabilità emotiva (quanto è vulnerabile alle emozioni negative come l’ansia o l’angoscia, o tende alla depressione, piuttosto che sicura di sé e fiduciosa). Numerosi studi dicono che le personalità caratterizzate da apertura e socievolezza tendono a essere progressiste, mentre quelle coscienziose, sono conservatrici. Qualche ricerca trova che le persone che spiccano come amicali tendono a essere di sinistra in economia e di destra nelle politiche sociali, mentre vale il contrario per gli emotivamente instabili. L’estroversione non produce effetti preferenziali. Esiste anche una letteratura che usa i Big Five per mappare geograficamente i tratti di personalità prevalenti in diverse aree degli Stati Uniti, spiegando in questo modo, cioè come concentrazione di persone con tratti simili, gli orientamenti ideologici e i comportamenti di voto costanti, per i repubblicani o per i democratici, in diversi stati.
Non è questa la sede per discutere i limiti del fortunatissimo modello dei Big Five, che non ha una base teorica e trova però alcune conferme a livello neurobiologico, ma non genetico. Ora, i tratti non danno informazioni a livello motivazionale: sono differenze individuali dimensionabili per quanto riguarda delle tendenze a mostrare schemi di azioni, affetti e pensiero coerenti. L’israeliano Schwartz ha quindi costruito, partendo dalle ricerche dell’olandese Geert Hofstede sulle dimensioni delle differenze culturali e valoriali transnazionali, una tassonomia di dieci valori riscontrabili nelle principali culture, i quali funzionano come credenze, desideri o scopi che hanno effetti motivazionali per la persona: autodirettività, stimolazione, edonismo, realizzazione, potere, sicurezza, conformità, tradizione, benevolenza, universalismo. Questi valori strutturano in quattro gruppi che definiscono l’apertura al cambiamento (primi due), l’autoaffermazione (successivi tre), la conservazione (successivi tre) e l’auto-trascendenza (ultimi due), e sono tra loro interconnessi e sovrapposti. In che misura le dinamiche relazioni tra i valori correlano con o predicono orientamenti ideologici e scelte elettorali?
Schwartz, Caprara e Vecchioni hanno suggerito otto “nuclei valoriali politici” che definiscono preferenze socio-economiche e culturali che contano per le persone in quanto espressione sul piano ideologico della loro visione morale: equità, libera concorrenza, morale tradizionale, legge e ordine, patriottismo fanatico, libertà civili, accettazione degli immigrati, interventismo militare. Esaminando prima due elezioni politiche italiane, 2006 e 2008, e quindi testando le preferenze valoriali e politiche in altri paesi europei, anche post-comunisti, gli autori hanno trovato che le ideologie tradizionali sono ancora i migliori predittori di voto, anche se i dati consigliano di guardare oltre la divisione destra-sinistra e progressisti-conservatori, per cogliere complessivamente i determinanti valoriali delle scelte politiche. Infatti, al di là di chiare differenze si notano comunanze tra i votanti. Per esempio, autodirettività e universalismo sono apprezzati più che potere e realizzazione nella maggior parte dei Paesi studiati, non solo come prevedibile da chi è di sinistra/progressista, ma anche per chi è di destra/conservatore.
Per quanto riguarda gli atteggiamenti politici, gli elettori di sinistra/progressisti sono per politiche di equa distribuzione delle risorse e delle opportunità e per le libertà civili (di agire e pensare), mentre quelli di destra/conservatori preferiscono politiche attente ai valori familiari e religiosi tradizionali, all’applicazione della legge e liberiste in economia. Ma questi ultimi danno un’importanza a eguaglianza e libertà civili non molto distante da chi è dell’ideologia opposta.
Per gli autori «i dati suggeriscono che gli atteggiamenti e le scelte politiche degli elettori dipendono meno che in passato dal menu offerto loro dai partiti e dai politici. Oggi i cittadini sono agenti proattivi, le cui priorità largamente dettano il tipo di menu che i partiti politici e i politici dovrebbero servire. Di fatto, più i cittadini sono consapevoli dei loro diritti, specialmente della libertà di esprimere le loro opinioni, più le rappresentazioni mentali di sé e le visioni del mondo personali dettano le loro scelte individuali». Il che dovrebbe suscitare ottimismo per il futuro della democrazia nella misura in cui un buon sviluppo della personalità si trasferisce nel buon funzionamento della democrazia. Ma nonostante le messe di dati e modelli utili che offre alla riflessione, il libro non spiega perché si dovrebbe essere ottimisti.
Gian Vittorio Caprara, Michele Vecchione, Personalizing Politics and Realizing Democracy , Oxford University Press,
New York, pagg. 420, $ 58