venerdì 25 agosto 2017

Corriere 25.8.17
Facciamo decidere l’elettore
di Aldo Cazzullo


L a politica italiana apre una lunga campagna elettorale con il retropensiero che le elezioni non serviranno a nulla, e i giochi si faranno dopo in Parlamento. Si considera inevitabile, come un destino, che il voto popolare non consegni nessuna maggioranza e quindi nessun governo, e tocchi alle alchimie di Palazzo inventare qualche formula o riportare il Paese alle urne.
È un atteggiamento irresponsabile, come ha denunciato il 29 luglio scorso il direttore del Corriere Luciano Fontana. Il 2018 sarà un tornante della storia. L’Europa è chiamata a superare definitivamente la crisi economica, governare le migrazioni, fronteggiare il terrorismo islamico, costruire l’unità in un momento di eclissi della leadership americana. A queste sfide epocali l’Italia rinuncia a rispondere. La Francia ha scelto un leader giovane e gli ha dato cinque anni di pieni poteri. La Germania si prepara a rieleggere per un altro quadriennio la sua Cancelliera. La Spagna ha un governo traballante ma cresce a ritmi più che doppi rispetto ai nostri. In Italia ai segni di dinamismo della società produttiva, in particolare a Milano e nel resto del Nord, non corrisponde la consapevolezza dei partiti e dei loro leader. Eppure il Paese è da ricostruire, come dopo la guerra. Settant’anni fa, forze divise sul piano ideologico seppero trovare regole comuni. Oggi non c’è traccia di un analogo senso di responsabilità.
Certo, si intuisce che si sta preparando un accordo per introdurre un premio di maggioranza alla coalizione vincente.
N é Renzi né Berlusconi sono entusiasti, perché non hanno gran voglia di costruire alleanze (per non parlare di Grillo, che alleanze non ne fa); però nel centrosinistra e nel centrodestra molti premono perché i due tradizionali campi vengano in qualche modo ricostruiti. Ma neppure il premio sarebbe sufficiente a dare una maggioranza di governo. Il problema, come hanno scritto Angelo Panebianco il 7 agosto ed Ernesto Galli della Loggia lunedì scorso, è il sistema proporzionale. Che toglie potere agli elettori per consegnarlo alle segreterie. Che fa del presidente del Consiglio un re travicello in balia delle onde. Ma il proporzionale non è stato scelto dal popolo italiano, anzi; quando gli elettori furono chiamati a esprimersi con il referendum del 1993, in 29 milioni — l’82,74% — votarono per abolirlo. La partecipazione fu altissima: oltre il 77%. Nacque allora la riforma elettorale che porta il nome dell’attuale capo dello Stato.
Con i collegi uninominali si votò tre volte. Due volte, nel 1994 e nel 2001, vinse il centrodestra. Avrebbe vinto anche nel 1996, se non avesse voluto una riforma elettorale sbagliata. Probabilmente vincerebbe anche l’anno prossimo. Non è vero che con tre poli neppure il maggioritario designa un vincitore. Nel 2005 Blair ebbe la maggioranza assoluta con il 35%, con i conservatori al 32 e i liberaldemocratici al 22. Anche in Italia nel 2006 si misurarono tre poli: Prodi conquistò la maggioranza sconfiggendo Berlusconi di misura, con la Lega al massimo storico. Il maggioritario con i collegi uninominali, oltre a creare un legame tra elettori ed eletti, incoraggia e rafforza la tendenza che si crea prima del voto, e che a giudicare dagli umori del Paese potrebbe premiare appunto il centrodestra.
Ma il fondatore del centrodestra italiano, Silvio Berlusconi, il maggioritario non lo vuole. Forse perché il centrodestra come l’abbiamo conosciuto non esiste più. Forse perché Berlusconi preferisce governare con Renzi anziché con Salvini, con un riformista di centro anziché con un lepenista. Ma la prospettiva di un accordo farebbe perdere voti sia a Forza Italia, sia al Pd. Mentre il voto amministrativo, dove si eleggono direttamente i sindaci, conferma che agli elettori le coalizioni e il maggioritario non dispiacciono. A sinistra come a destra.
Una legge con una quota di collegi uninominali appare oggi molto difficile. Ma sarebbe utile al Paese, e forse anche conveniente per più di una forza politica. Certo, i collegi uninominali bisogna vincerli. Occorrono candidati presentabili e radicati sul territorio. Molto più comodo scrivere di proprio pugno la lista dei propri eletti, per poi giocarsi la partita al tavolo delle trattative.

il manifesto
L’Eritrea e la rimozione del passato coloniale italiano
Corno d'Africa. La fuga disperata dal «paese caserma» dove i nomi delle torture sono italiani
di Alessandro Leogrande


Il violento sgombero degli eritrei in Piazza Indipendenza non mette in luce solo l’incapacità della giunta Raggi di affrontare una seria e organica politica di accoglienza dei rifugiati, anche quando questi sono donne e bambini residenti in città da molti anni.
Pone in risalto l’evidente rimozione del passato prossimo e meno prossimo che si riproduce ogni qualvolta ci si trova di fronte alle migrazioni dal Corno d’Africa.
ANCORA UNA VOLTA, si finisce per definire genericamente africani, quando non «invasori», profughi che provengono specificamente dalle ex colonie italiane. Una tale rimozione si produsse, ad esempio, anche in occasione del terribile naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando a morire furono 360 eritrei su 368 vittime complessive. Da cosa scappavano gli eritrei morti a Lampedusa? Da cosa scappano gli eritrei di piazza Indipendenza? E perché, soprattutto in questi anni, gli eritrei scappano in massa?
SONO QUESTE LE DOMANDE che dovrebbero precedere ogni seria riflessione sulle politiche di accoglienza nei confronti di rifugiati che si sono lasciati alle spalle una delle dittature più feroci al mondo. Ma tali domande raramente trovano una risposta.
Gli eritrei (che continuano a essere da anni uno dei principali gruppi nazionali che raggiungono l’Italia dalla Libia) fuggono da un regime che ha privato il suo popolo di ogni libertà civile e politica, che ha imposto il servizio militare obbligatorio, e a tempo indeterminato, per ogni eritreo – uomo o donna che sia – che abbia compiuto 18 anni.
    In pratica, il paese si è trasformato in una immensa caserma-prigione da cui (non solo) ragazzi e ragazze provano a fuggire. Sfidano la morte probabile durante il Grande Viaggio pur di lasciarsi alle spalle la certezza di una intera vita governata dal regime
CHI VIENE RIACCIUFFATO e rispedito indietro, in quanto disertore, finisce direttamente nei gulag nel deserto. Sono almeno diecimila i prigionieri politici vecchi e nuovi. Che tutto questo poi sia stato edificato da Isaias Afewerki, il leader di quello che fu il Fronte popolare per la liberazione dell’Eritrea, un’organizzazione laica e socialista, è doppiamente grave. Come raccontato da molti esuli, ex militanti del Fronte popolare, l’attuale caserma-prigione è stata generata dal fallimento di una lunga lotta di liberazione.
La frattura si è prodotta nella seconda metà degli anni novanta, allorquando gli oppressi di ieri, dopo aver ottenuto l’indipendenza, hanno adottato gli stessi metodi dei precedenti oppressori (quelli dell’occupazione etiopica e, per certi versi, ancor prima, quelli dell’occupazione italiana terminata nel 1943).
OGGI NEI GULAG ERITREI, come accertato da una Commissione d’inchiesta dell’Onu, si pratica sistematicamente la tortura. Qualche anno fa, mi è capitato di incontrare un rifugiato eritreo che era stato detenuto in un campo alle porte di Asmara e di ascoltare dalla sua viva voce il racconto delle violenze subite.
Le torture subite avevano nomi italiani: Ferro, Otto, Gesù Cristo. Improvvisamente ho capito che quei nomignoli si erano tramandati di dominazione in dominazione, dai carcerieri di ieri a quelli di oggi. Per giunta, ho appreso poco dopo, alcuni degli attuali campi di internamento sorgono esattamente laddove sorgevano i vecchi campi coloniali.
    Così, quando si parla dell’esodo dal Corno d’Africa si produce una doppia rimozione, del presente e del passato. Tale doppia rimozione produce quel misto di indifferenza e fastidio che è alla base di uno sgombero privo di reali soluzioni alternative come quello di piazza Indipendenza.
Ieri pomeriggio, intorno alle 15,00, la piazza era presidiata dai blindati della polizia mentre dal palazzo ormai vuoto, che aveva ospitato negli ultimi anni gli eritrei, sventolava un tricolore lacero e stinto. Chissà da quanto stava lì, al primo piano del palazzo. Che tutto questo sia avvenuto a meno di cento metri da Piazza dei Cinquecento, il piazzale che fronteggia la stazione Termini, intitolato ai soldati italiani caduti nella battaglia di Dogali (in Eritrea, nel 1887), una delle pagine nere del nostro colonialismo, reinterpretata negli anni successivi come una sorta di italica Little Big Horn, è una coincidenza che ha il sapore del cortocircuito.

il manifesto 25.8.17
Chi soffia sul fuoco della paura
di Norma Rangeri


Una donna anziana ferita, bambini terrorizzati, immigrati finiti in ospedale, poliziotti con scudi e manganelli all’inseguimento tra le persone ferme ad aspettare l’autobus. E’ in sintesi il bilancio dello sgombero avvenuto ieri a Roma, in un luogo centrale della città come piazza Indipendenza. La cronaca dei mezzi della polizia che arrivano all’alba e scatenano gli scontri usando gli idranti è un pessimo segnale.
Purtroppo questo ennesimo episodio di ostilità verso persone costrette a dormire accampate nei giardini, e tutte con il permesso di soggiorno, è lo specchio di un clima alimentato da mesi. Iniziato con quella che potremmo definire la “politica dei respingimenti” del ministro degli interni verso le Ong. Un clima segnato da episodi di ordinario razzismo nella quotidianità del Belpaese, registrati ogni giorno ovunque, con esempi di sindaci, compresi quelli del Pd, protagonisti di comportamenti di ordinario leghismo. Come è avvenuto anche ieri in provincia di Piacenza con la scritta «no ai neri, no all’invasione» con cui sono stati accolti i minori non accompagnati provenienti da molti paesi africani.
Se è necessario ricorrere alla polizia contro migranti regolari a cui la prefettura ha tolto il palazzo che occupavano da anni, con famiglie e bambini iscritti alle scuole del quartiere, vuol dire che si passa alle maniere forti con i più deboli, con i più poveri. Il ministro Minniiti che ieri ha assistito alla messa per le vittime del terremoto, a Pescara del Tronto, non ha niente da dire?
Non che le dichiarazioni e gli annunci servano a molto, in genere finiscono nel sacco stracolmo delle promesse governative che proprio oggi, anniversario del terremoto di Amatrice, tutti possono vedere quale valore abbiano e di che razza di impegni si tratti.
Ma oltre alla responsabilità del ministero degli interni c’è anche quella di chi governa oggi la Capitale. La giunta Raggi, che alle prime piogge autunnali vedremo galleggiare sulle pozzanghere di Roma, è alle prese con troppe patate bollenti.
Troppi scontri di potere per avere il tempo di occuparsi (lo sfratto del palazzo era in essere da molti mesi) del problema. Al Campidoglio tiene banco la girandola degli assessori, la sindaca Raggi ce ne ha appena regalato uno di Livorno per mettere le mani nel bilancio della capitale, mentre per gli immigrati di piazza Indipendenza la soluzione offerta dal comune si dovrebbe tradurre nello smembramento delle famiglie in due centri di accoglienza alla periferia della città.
Naturalmente la situazione generale è complicata dal fatto che seppure i somali e gli eritrei di piazza Indipendenza volessero andarsene in un altro paese non potrebbero farlo perché glielo impedisce il Regolamento di Dublino. Tuttavia il modo in cui il governo e il comune rispondono ai muri europei non può, non dovrebbe e essere quello dell’emergenza. A meno che non sia strumento di una politica cinica quanto miope, la politica della paura con il suo vasto, frequentato, ambito mercato politico. Condivisa da pentastellati, leghisti, berlusconiani, piddini senza troppe distinzioni tra governo e opposizione. Le elezioni sono ancora lontane ma si cerca la migliore posizione ai nastri di partenza. E l’immigrazione corrisponde al colpo di inizio corsa. Ci sono quelli che bastonano gli ambulanti sulle spiagge, e ci sono gli idranti di chi pensa di governare l’ordine pubblico scatenando lo scontro di piazza contro gli invasori. manganelli, idranti contro sassi, con una bombola lanciata da una finestra. E’ una violenza sconsiderata che non promette niente di buono.
Oltretutto contro persone che fuggono da guerre e siccità, sarebbe da sconsigliare un così insensato spreco di acqua, proprio in una città coperta da sterpaglie, con le risorse idriche in rosso e le fontane a secco.

La Stampa 25.8.17
Roma, è braccio di ferro sul salvataggio di Atac
“Posti di lavoro a rischio”
Mazzillo: io epurato, ma collaborerò da militante
di Federico Capurso


L’azienda del trasporto pubblico romano è in ginocchio, ma «deve essere tenuta in vita a tutti i costi», sostengono i vertici del Movimento 5 stelle. E la via d’uscita è tracciata già da alcune settimane: «Faremo come a Livorno, dove abbiamo già salvato l’azienda dei rifiuti», ripetono come un mantra.
Da queste due frasi passa tutta la strategia del M5S per Atac. Nei «costi» preventivati rientra Andrea Mazzillo, ex assessore al Bilancio di Roma, e la sua «epurazione», come lui stesso l’ha definita. Considerato il più avverso in giunta alla ricetta scelta dai Cinque stelle nazionali per salvare Atac e quindi scaricato “a sua insaputa” dalla sindaca di Roma. Il voler «fare come a Livorno» si traduce invece con l’arruolamento di Gianni Lemmetti, che lascia l’assessorato al Bilancio toscano per approdare in Campidoglio, in sostituzione di Mazzillo.
Liberata la strada e scelti gli uomini, si può procedere. Il piano, al quale si è iniziato a lavorare da alcune settimane, prevede il ricorso al cosiddetto «concordato preventivo in continuità»: una procedura di fallimento guidata dalla magistratura. Il servizio di trasporto nella Capitale verrebbe garantito, così come l’erogazione degli stipendi ai dipendenti. Mentre i debiti da saldare sarebbero discussi con i creditori e pagati solo in parte.
La procedura del concordato impone che ad amministrare l’azienda continui ad essere il debitore, e quindi Atac. Norma che va nel verso giusto per il Campidoglio. Nel 2019 il servizio del trasporto romano sarebbe dovuto infatti essere messo a gara pubblica. E Atac, nelle condizioni in cui è attualmente, avrebbe fatto difficoltà persino a concorrere. In questo modo, invece, con un piano di ristrutturazione che andrà ben oltre il 2019, Raggi potrà mantenere pubblico il servizio, scongiurando l’arrivo di privati se non per una soglia del 10% (che già esiste). Un obbiettivo dichiarato in campagna elettorale raggiunto, per assurdo, grazie ai conti in rosso dell’azienda. Altro obbligo previsto è quello di cedere l’attività, pur continuando ad amministrarla, oppure di scorporarla in altre società più piccole. Quest’ultima sembrerebbe l’opzione preferita: due o tre imprese con compiti e debiti ripartiti. Alla base di tutto, dovrà essere presentato un business plan con i costi e i ricavi previsti negli anni a venire. Impresa non da poco, visto che l’ultimo bilancio pubblicato da Atac risale al 2015. Per trovare le risorse e le coperture necessarie, inizialmente si era pensato di vendere alcuni immobili dell’azienda ad altre partecipate del Campidoglio (come Acea) per mantenerne indirettamente la proprietà. Adesso, però, sembra che l’idea di metterli all’asta, aprendo ai privati, possa essere preferibile in termini di liquidità immediata.
Il concordato nasconde però i suoi rischi. Atac ha infatti un miliardo e mezzo di debiti. Di questi, 429 milioni di euro sono crediti vantati dal Comune, già messi a bilancio dal Campidoglio e che «con il concordato rischiamo di perdere», mette in guardia Mazzillo. Non tutti, ma almeno in parte. Difficile che le casse di Roma riescano a digerire un’operazione del genere, sostiene ancora l’ex assessore al Bilancio: «Il pericolo è di passare dal commissariamento di Atac a quello del Comune». E se è vero che gli stipendi verrebbero garantiti, non è altrettanto sicuro che si riesca ad evitare un taglio del personale. Dei tredicimila dipendenti complessivi, solo i settemila autisti avrebbero maggiori garanzie di mantenere il posto. Un punto sul quale Mazzillo ha sollevato seri dubbi, anche con Luigi Di Maio «che si era dimostrato sensibile al tema», sostiene l’ex assessore romano. Rispetto al «sacrificio in termini di posti di lavoro- dice Mazzillo - bisogna trovare una soluzione in bonis per preservare anche le famiglie». Per questo, l’assessore epurato si propone come collaboratore esterno alla giunta, «da semplice attivista», per aprire un tavolo di confronto su Atac.

Corriere 25.8.17
Il pasticciaccio brutto dell’Atac
Tutti i dubbi sul supermanager M5S
di Federico Fubini


Appare in violazione delle norme anticorruzione il cumulo di cariche di Simioni
N on deve sentirsi invidiato, al mattino quando si reca in ufficio: né dai suoi collaboratori, né dai manager di aziende normali quale un tempo era anche lui.
Paolo Simioni, nato a Valdobbiadene in provincia di Treviso poco meno di 57 anni fa, ha appena ricevuto uno degli incarichi più apparentemente donchisciotteschi d’Italia. Deve risanare Atac, la società del trasporto pubblico locale di Roma che versa in crisi finanziaria e di liquidità con oltre 1,3 miliardi di debiti, dopo un decennio (quasi) ininterrotto di bilanci in rosso. A Simioni, un laureato in Ingegneria civile con il massimo dei voti, non manca l’esperienza alla testa di aziende complesse. Soprattutto quando queste si trovano alla frontiera fra il settore pubblico e il mercato. Per anni è stato amministratore delegato di Save, la società a partecipazione pubblica che controlla gli aeroporti di Venezia, Treviso e Verona. Prima ancora, in alleanza con Ferrovie dello Stato, ha guidato Centostazioni Spa. È questa sua storia, a quanto sembra, ad avergli guadagnato il rispetto di figure determinanti del Movimento 5 Stelle come Davide Casaleggio e lo stesso Beppe Grillo .
Ma con Atac né il curriculum né gli sponsor possono bastare. Per ridare ossigeno all’azienda del Comune di Roma — magari attraverso un parziale, ordinato e legale default sul debito — serve tutta l’influenza possibile. Simioni ha fatto passi avanti: il 31 luglio Virginia Raggi, il sindaco pentastellato di Roma, l’ha nominato nuovo presidente e amministratore delegato di Atac. Dall’esterno, un giornale che segue M5S senza ostilità preconcetta come Il Fatto Quotidiano ha visto nella sua nomina una mossa dei leader nazionali del movimento («Casaleggio governa Roma da Milano», è il titolo del primo agosto scorso).
All’interno dell’azienda la carica di presidente e amministratore delegato ha però un valore preciso: può gestire con la sua firma un concordato preventivo che porti a un accordo con i creditori. Si tratta del potere che era mancato a Bruno Rota, il quale da marzo a luglio aveva gestito Atac come direttore generale prima di dimettersi. Quindi il 10 agosto Simioni si rafforza ancora di più, perché il consiglio di amministrazione dell’Atac lo nomina anche al posto che era stato di Rota: direttore generale.
Ora il manager ha tutti i poteri. Resta una domanda: è legale?
Rispondere con certezza è impossibile perché l’Anac, l’autorità anti-corruzione guidata da Raffaele Cantone, non si è pronunciata né risulta sia stata consultata dal comune di Roma o dall’azienda. Ma la normativa non sembra dalla parte di Simioni, in particolare quella legata alla più recente legge anti-corruzione. Uno dei decreti di quel pacchetto, il 39 approvato l’8 aprile del 2013, all’articolo 12, comma primo proibisce il cumulo di altre poltrone da parte di un presidente e amministratore delegato di una società di proprietà di un comune. Si legge: «Gli incarichi dirigenziali negli enti di diritto privato in controllo pubblico sono incompatibili con l’assunzione o il mantenimento della carica di presidente e amministratore delegato nello stesso ente di diritto privato in controllo pubblico». Insomma non si può fare allo stesso tempo il presidente (o amministratore delegato) e il dirigente. Poco sotto poi si precisa: «Gli incarichi dirigenziali (...) sono incompatibili con la carica di componente degli organi d’indirizzo negli enti di diritto privato in controllo pubblico di comuni di oltre 15.000 abitanti». Non si può sedere in consiglio d’amministrazione ed essere dirigente della stessa società pubblica.
Si potrebbe sospettare che esistano eccezioni, ma non sembra sia così. Un parere del 2014 della Civit, la stessa autorità per la trasparenza di recente ribattezzata Anac, è netto: non si può essere sia dirigenti che amministratori delegati di una municipalizzata. Non è chiaro perché Atac, Raggi e Simioni abbiano rischiato una violazione così vistosa delle norme anti-corruzione. Di certo Simioni fino al mese scorso guadagnava 240 mila euro lordi l’anno — il massimo possibile nel settore pubblico — con il suo incarico di «coordinamento» delle partecipate del comune di Roma. Invece il ruolo di presidente dell’Atac valeva appena 79 mila euro. Solo un compenso da direttore generale in teoria poteva permettere a Simioni di risalire fino a 240 mila, anche in un’Atac vicina al default. Ma è impossibile sapere con certezza quanto guadagna con quest’ultima nomina il manager veneto: a varie richieste di fare chiarezza in proposito, ieri in pieno orario d’ufficio, l’Atac non ha risposto.

Il Fatto 25.7.17
Lemmetti: da Livorno a Roma, la sfida del concordato in Atac
Il precedente - Aamps, portata in Tribunale da Nogarin, ora è in utile. Mentre l’azienda del trasporto romano ha un rosso da 1,3 miliardi
di Andrea Managò


Nella storia di Aamps, la municipalizzata dei rifiuti di Livorno, c’è uno spaccato delle inefficienze più diffuse nelle oltre 5.500 aziende partecipate dagli enti locali in Italia. Conti in rosso a fronte di un servizio poco efficace e personale amministrativo spesso “in quota” politica. Più una singolare particolarità: un’indagine della Procura cittadina – a carico tra gli altri del sindaco M5S Filippo Nogarin e del suo ex assessore al Bilancio Gianni Lemmetti (passato mercoledì alla stessa carica in Campidoglio) – per bancarotta fraudolenta senza che l’azienda livornese dei rifiuti abbia mai dichiarato fallimento. Con il documento del Tribunale che declina l’ipotesi di reato al futuro “in Livorno, alla data di omologazione del concordato preventivo, ovvero del fallimento di Aamps”.
La vicenda. A fine 2015, invece di procedere a una nuova ricapitalizzazione, la giunta Nogarin (in carica dall’anno precedente) ha scelto la via del “concordato preventivo in continuità” per la municipalizzata dei rifiuti, gravata da debiti per 42 milioni di euro. Tra consigli comunali infuocati, proteste dei lavoratori e polemiche incrociate, col sindaco che parla di “situazione disastrosa lasciata in eredità dal Pd” e l’opposizione dem che replica “butta la palla fuori dal campo”, ad aprile 2016 arriva l’apertura del fascicolo di inchiesta. Poi lo scorso 10 marzo la sezione fallimentare del Tribunale di Livorno ha riconosciuto “l’assoggettabilità” di Aamps al concordato preventivo. Ovvero: i conti consentono la prosecuzione dell’attività e ora la municipalizzata potrà congelare i suoi debiti e spalmarne il pagamento fino al 2021. Il piano prevede, oltre alla liquidazione integrale dei crediti privilegiati, il pagamento dall’80% in su del credito chirografaro (cioè quello non assistito da garanzia o pegno) entro un massimo di 5 anni.
Non solo: il lavoro di pulizia contabile quest’anno ha dato i primi frutti producendo una riduzione della tariffa dei rifiuti del 2% per gli immobili fino a 70 metri quadri. L’Aamps inoltre ha chiuso il bilancio 2016 con 2,3 milioni di euro di utili e nel nuovo piano industriale ha inserito un programma di 56 nuove assunzioni associato alla riduzione della tariffa media Tari pro-capite da 224 a 186 euro entro il 2021.
Tra i protagonisti di questo percorso, che al momento sembra premiare la scelta del sindaco Nogarin, il suo ormai ex assessore al Bilancio Gianni Lemmetti, da ieri ufficialmente in Campidoglio come titolare del Bilancio al posto di Andrea Mazzillo, che ha bollato la revoca della sua delega da parte di Virginia Raggi come “un’epurazione fatta con una modalità inaccettabile”. Per ora Lemmetti si limita solo a una frase di circostanza: “Sono stato chiamato qui dalla sindaca per mettermi a disposizione, datemi la possibilità almeno di salutare i miei colleghi”.
La principale missione che gli verrà affidata è quella di replicare il concordato anche in Atac, la malandata azienda di trasporto pubblico della Capitale. Certo, la sfida è di proporzioni ben differenti, perché se Aamps conta poco più di 300 dipendenti, Atac ne annovera 11.700. Per non parlare del versante contabile: qui i debiti ammontano ad 1,3 miliardi. Mazzillo è caduto proprio per la sua contrarietà al progetto di portare i conti dell’azienda alla revisione del Tribunale, oltre che per le critiche ai vertici nazionali M5S.
Sulla partita dei trasporti si gioca una buona fetta della riuscita dell’esperienza pentastellata alla guida della capitale, perché, assieme allo smaltimento dei rifiuti, rimane uno dei servizi pubblici più carenti. Per conoscere i conti capitolini serve tempo, il Campidoglio ha centinaia di centri di spesa, che spesso non dialogano tra loro. Tempo però che Lemmetti non avrà a disposizione perché la Giunta ha l’obiettivo di instradare il concordato entro settembre. Già la prossima settimana è attesa la seduta del cda di Atac per votare il bilancio 2016, primo passo per certificare i conti aziendali e avviarli lungo la strada del concordato preventivo.

La Stampa 25.8.17
E in Turchia arrivano gli autobus per sole donne
Nelle città più religiose si fa strada la separazione di genere
di Marta Ottaviani


Nella «Yeni Türkiye», la Nuova Turchia, sempre più devota, di Recep Tayyip Erdogan, iniziano a proliferare i luoghi per sole donne. Mezzi di trasporto, alberghi, feste, persino scuole e ricevimenti ufficiali. Una tendenza che per il momento si sta manifestando soprattutto nelle città più conservatrici dell’Anatolia, dove Erdogan e il suo Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, che guida il Paese dal 2002, hanno il bacino di voti più importante. Ma che sembra sempre più il risultato di un’agenda politica precisa.
L’ultimo scandalo, solo in ordine di tempo, viene dalle città di Malatya, dove dal mese prossimo entreranno in funzione gli «autobus rosa». L’idea era stata suggerita nel lontano 2002 dalle donne del Partito Islamico della Felicità (Saadet Partisi), una formazione fondata dal padre politico di Erdogan, Necmettin Erbakan, ma era stata rapidamente bocciata in quello che, solo 15 anni fa, era un altro Paese. A giugno, il Comune di Bursa, una delle città più religiose del Paese e con un glorioso passato ottomano, aveva annunciato l’introduzione di vagoni in metropolitana per sole donne. L’iniziativa ha provocato la protesta da parte dell’opposizione, ma la replica dell’amministrazione, ovviamente targata Akp, è stata che il provvedimento era stato varato per «soddisfare una richiesta della cittadinanza».
Sembrano lontani i tempi in cui la formula «haremlik-selamlik», letteralmente locali divisi per donne e uomini, sembrava solo un’idea imprenditoriale per attirare turisti dal Medioriente. Correva l’anno 2007, la Turchia sembrava navigare con il vento in poppa verso la piena democratizzazione e verso l’ingresso in Unione europea. L’allora premier Erdogan era acclamato da molti come un sincero riformatore e i timori dell’opposizione laica sembravano, nella migliore delle ipotesi, esagerati. Ma era già possibile vedere i primi segnali di una società che stava cambiando. Nelle maxi strutture sulla costa mediterranea, con piscine, spa e discoteche rigorosamente separate, ci andava anche la nuova borghesia religiosa che ha preso sempre più potere economico in Turchia durante l’era Erdogan. Oggi in tutte le principali città sono presenti ristoranti dove donne e uomini mangiano in sale diverse e saloni per le feste, soprattutto matrimoni e sunnet (la circoncisione) che prevedono la separazione dei sessi.
Del resto, ormai, è arrivata anche «la benedizione» delle istituzioni. A maggio, il presidente del Parlamento, Ismail Kahraman, lo stesso che il mese prima aveva dichiarato che la nuova costituzione «non doveva essere laica», ha organizzato due iftar, la cena che rompe il digiuno del Ramadan, una per i deputati uomini e l’altra per le colleghe donne.
Dai primi segnali di separazione dei sessi non si salva nemmeno la scuola. A ottobre dell’anno scorso, a Mersin, nel Sud del Paese, in una scuola media, il preside aveva dato ordine che le studentesse e gli studenti non sedessero una di fianco all’altro. In un liceo di Konya, la città più religiosa della Turchia, dove si trova la tomba del Sufi Mevlana, sul sito di un liceo è stata pubblicata l’avvertenza che «nell’anno scolastico 2017-2018 le lezioni proseguiranno con le ragazze separate dai ragazzi». Il sindacato scuola (Egitim-Sen) ha parlato di «situazione vergognosa e di laicità in pericolo».

La Stampa 25.8.17
Il Brasile cede l’Amazzonia ai mercanti globali dell’oro
Via libera del governo Temer alle trivelle nell’area protetta di Renca: “Faremo ripartire il Paese”. Gli ambientalisti: “Sarà una catastrofe”
di Lidia Catalano


Un’immensa riserva naturale dell’Amazzonia si prepara a diventare nuova terra di conquista dei cercatori d’oro. Il via libera porta la firma del presidente brasiliano Michel Temer, che mercoledì ha abolito la National Reserve of Copper and Associates (Renca), aprendo la strada alle trivellazioni in un’area ricca di minerali e metalli preziosi che si estende per oltre 46mila chilometri quadrati, a cavallo degli Stati settentrionali di Amapa e Para.
«La misura punta ad attrarre investimenti nel Paese e a creare nuovi posti di lavoro, nel rispetto della sostenibilità ambientale», ha dichiarato in un comunicato il ministero per l’Estrazione e l’Energia, precisando che nove aree della riserva, incluse quelle abitate dalle popolazioni indigene, «continueranno ad essere tutelate».
L’ira degli ambientalisti
Ma le rassicurazioni non sono bastate ad alleviare i timori degli ambientalisti, secondo cui l’attività di estrazione mineraria nella zona porterebbe a «esplosioni demografiche, deforestazioni, distruzione delle risorse idriche, perdita di biodiversità e creazione di conflitti territoriali». Secondo un recente rapporto del Wwf, la principale area di interesse per l’estrazione di rame e di oro si trova proprio in una delle aree protette, la Riserva Biologica di Maicuru, «popolata da comunità indigene di varie etnie che vivono in isolamento» e una corsa all’oro nella regione potrebbe «creare danni irreversibili a queste culture». «È più grande attacco all’Amazzonia degli ultimi 50 anni - ha denunciato il senatore dell’opposizione Randolfe Rodrigues - neppure la dittatura militare o la costruzione dell’autostrada trans-Amazzonica riuscirono a produrre una tale devastazione».
Secondo i dati dell’Inpe, l’Istituto di ricerca sull’Ambiente brasiliano, tra agosto 2015 e luglio 2016 sono andati perduti circa 8000 chilometri quadri di foresta Amazzonica, pari a oltre cinque volte l’area di Londra. Nell’arco di appena dodici mesi il tasso di deforestazione è cresciuto del 29 per cento: per ritrovare cifre simili bisogna tornare al 2008. Il governo Temer assicura che le trivelle saranno autorizzate ad operare soltanto in un’area pari al 30 per cento del’ex riserva naturale, la cui superficie totale supera per estensione la Danimarca. Fondata nel 1984 sotto l’allora dittatura militare, la riserva di Renca fu nominata area protetta per consentire le estrazioni minerarie solo alle compagnie di Stato. Il governo brasiliano ha accompagnato il cambio di passo con la promessa che l’apertura ai privati dopo 33 anni di interdizione «porterà enorme ricchezza nel Paese e contribuirà ad estirpare le attività di estrazione illegale in Amazzonia».
Ma secondo gli ambientalisti e l’opposizione la mossa rientra nell’aggressiva strategia di sfruttamento delle risorse minerarie messa in campo da Temer. Il presidente - su cui pende una pesante accusa di corruzione nell’ambito di un’inchiesta che ha già portato in carcere dirigenti statali e delle principali multinazionali brasiliane del settore petrolifero - ha infatti in programma di dare il via libera alle trivellazioni di compagnie nazionali e straniere in 20.000 siti minerari distribuiti in 400 parchi nazionali.
«Lula da Silva and Dilma Rousseff erano molto più attenti a salvaguardare il nostro patrimonio naturale», lamentano gli attivisti, mentre il governo insiste sull’importanza di questa spinta per trascinare il Brasile fuori dalla più grave crisi economica dell’ultimo secolo. «Nessuno ignora l’importanza dell’attività mineraria per risollevare il Paese», è la replica di Michel de Souza, coordinatore di Wwf Brasile. «Ma se il governo tirerà dritto senza valutare le conseguenze sull’ambiente e sulle comunità locali andremo incontro a una catastrofe annunciata».

La Stampa 25.8.17
Carlo Petrini
“Il danno è irreparabile vanno fermati adesso”
“Distruggeranno un patrimonio e creeranno servi della gleba”


Carlo Petrini, come cambierà il mondo con questo decreto per lo sfruttamento minerario dell’Amazzonia?
«È un punto di non ritorno. Quando si creano ferite così profonde nel territorio, a livello dei suoli, le conseguenze diventano irreversibili. Dobbiamo fermarci finché siamo in tempo».
Il governo brasiliano sostiene che le foreste e le riserve delle popolazioni indigene saranno salvaguardate. Lei ci crede?
«No, sono le solite parole abusate, che hanno perso ogni significato. C’è questo termine: sostenibilità. Ritorna sempre. Quando lo senti in bocca a un governo o alle multinazionali bisogna fare molta attenzione. Sostenibilità viene dal sustain, il pedale del pianoforte che fa durare una nota più a lungo. È questo che chiediamo: di far durare il più a lungo possibile le riserve naturali. Non sono infinite. Dove c’è distruzione e deprivazione del territorio non c’è sostenibilità possibile».
Lei conosce quella regione. Da lì arrivano molti contadini di Terra Madre. Può raccontarla?
«Sono stato diverse volte in Amazzonia. È grande come metà dell’Europa. È il più immenso tesoro che l’umanità abbia a disposizione: un tesoro per la maggior parte ancora sconosciuto. Questa nuova industria estrattiva occuperà una zona vasta come la Danimarca. Ed ha un limite naturale: quando avrà finito, intorno resterà il deserto. Pezzo dopo pezzo, perderemo il tesoro».
Il senatore all’opposizione brasiliana Randolfe Rodrigues dice che si tratta del più grande attacco all’Amazzonia degli ultimi cinquant’anni. Esagera?
«Forse ha calcato un po’ la mano, ma sicuramente è un altro passo verso l’autodistruzione. Da un’attività estrattiva di quel genere consegue l’insediamento di villaggi minerari con popolazioni disperate. Tutto torna indietro, a quanto pare. Siamo di nuovo a Marcinelle. Il lavoro del minatore è il più faticoso ed umiliante in assoluto. A queste concentrazioni di poveri minatori dovranno portare l’acqua. Costruiranno case scadenti, creeranno delle vie. Taglieranno foreste».
È finita l’epoca di Chico Mendes, il sindacalista che lottò tutta la vita contro il disboscamento dell’Amazzonia. Lei cercherà di fare qualcosa di concreto?
«Certamente. Tutte le associazioni si stanno muovendo. Anche Slow Food Brasile e Terra Madre. Il movimento Sem Terra, il Wwf e Via Campensina, la più grande associazione contadina del mondo. Anche le organizzazione indigene sono sul piede di guerra, tutte. Partiamo da questo dato, che sembra quasi incredibile: in Brasile il 2,8% dei proprietari terrieri possiede il 56% dei terreni agricoli. E ancora: l’1% delle aziende agricole occupa il 45% della superficie totale. Siamo ai servi della gleba. Non si è ancora risolto il problema delle masse dei contadini poveri. Non solo non vogliono dividere la terra. Intendono andare a estrarre risorse, vogliono impoverirla. E la decisione arriva da un presidente completamente squalificato e plurinquisito come Temer».
Proprio lui sostiene che questa decisione, attraendo nuovi investimenti, porterà soldi e sviluppo.
«È una favola che va decodificata. Di quale sviluppo stiamo parlando? I depauperamenti dei territori, dell’agricoltura e della biodiversità sono sempre forme distruttive. Non di sviluppo. Lì sta il paradigma. Non ci sarà una distribuzione delle ricchezze. Non ci saranno bene comuni. Centinaia di migliaia di persone non avranno alcun ricavo. L’industria estrattiva distruggerà territori, creando nuovi schiavi. Come già succede in Africa per i minerali che servono ai nostri telefonini».
Perché quello che succede in Amazzonia è importante anche qui?
«Perché quell’immenso polmone verde mantiene l’equilibrio del pianeta. Pulisce l’aria del mondo. Ne usufruiamo anche noi. E forse, un giorno, sarà giusto pagare un dazio. Siamo in una situazione in cui il rispetto dell’ambiente è ormai una questione sovrannazionale. Riguarda tutti. L’Italia, la Cina, gli Stati Uniti. Non è possibile continuare a danneggiare l’ambiente, non è possibile non ragionare in termini globali».
Quale sarebbe, secondo lei, la priorità?
«Riuscire a capire una volta per tutte che sviluppo e ricchezza, specialmente nei Paesi poveri, devono sempre essere in accordo con la produzione alimentare, la produzione primaria di cui tutti abbiamo bisogno. L’estrazione dell’oro va nelle mani di pochi, questo dice la storia della umanità. L’agricoltura è un bene universale. Per questo va difesa la terra, la dignità dei contadini e il tesoro della foresta amazzonica, il grande polmone verde del pianeta».

La Stampa 25.8.17
Così si regredisce all’epoca coloniale
Il rilancio economico ignora la Terra


la decisione del Brasile è gravissima, perché porterà alla distruzione di altre centinaia di ettari dell’Amazzonia, che è non solo il più grande polmone verde del mondo, ma ha anche una ricchezza inestimabile in biodiversità ed è la casa di tante comunità indigene, i cui diritti verranno violati. Purtroppo, l’America Latina, invece di cercare seriamente altre vie di sviluppo, sta tornando all’estrazione su vasta scala, come in epoca coloniale, con profonde ricadute anche sulle economie locali e sui livelli di corruzione.
Le attività di estrazione, anche utilizzando le migliori tecnologie a disposizione, provocano inevitabilmente profonde e inguaribili ferite ecologiche, spesso compensate mediante la protezione di altre zone di particolare valore ambientale. Tuttavia, nella giungla tropicale, l’impatto più grave non sono tanto i segni lasciati in loco dalle miniere quanto la costruzione di arterie di comunicazione che finirebbero per attirare migliaia di «campesinos», contadini senza terra che comincerebbero a estirpare grandi porzioni di bosco per lavorare il legname e poi stabilire parcelle per il loro sostentamento. Dopo questa colonizzazione arriverebbero anche le aziende di allevamento su vasta scala simili a quelle che, in passato, hanno introdotto la loro produzione di carne in altre zone dell’Amazzonia.
Non dobbiamo ingannarci ancora: l’esperienza internazionale degli ultimi decenni ci insegna che la costruzione di autostrade e altre infrastrutture necessarie per l’estrazione mineraria e petrolifera porta all’inevitabile distruzione e degrado sia degli ecosistemi sia delle culture e comunità indigene. I governi dovrebbero affrontare con trasparenza la questione della ricchezza naturale nell’Amazzonia: fin dove sfruttare le sue risorse e fin dove conservare la sua biodiversità e i suoi ecosistemi, di vitale importanza per la regione, l’umanità e la stabilità nel pianeta?
Evidentemente, vista l’ultima decisione dell’amministrazione brasiliana, i governi regionali sembrerebbero essere convinti che vale la pena correre il rischio di sacrificare tutta questa ricchezza in cambio del miraggio di essere trascinati dalla locomotiva dell’estrazione mineraria verso la terra promessa della prosperità economica.
(Testo raccolto da Pablo Lombò)

La Stampa 25.8.17
Theodor Herzl, il sogno diventato start-up
Nell’agosto 1897 si riunì a Basilea il Primo Congresso Sionista. Ispirandosi al Risorgimento italiano, il suo animatore guardava alle radici bibliche per forgiare l’ebreo nuovo, non più disposto a subire violenze e disprezzo
di Lea Luzzati


«Se lo volete non sarà un sogno» è la frase che ne disegna la storia: una proposizione ipotetica che in principio aveva tutti i connotati dell’utopia assurda, ma che a poco a poco prese corpo, sostanza, realtà. «Se lo volete non sarà un sogno», disse Theodor Herzl in occasione del Primo Congresso Sionista, 120 anni fa, nella quieta Basilea, e lo ripeté sino alla fine della sua breve vita.
Nato a Budapest in una famiglia ebraica assimilata e profondamente acculturata, il fondatore del movimento risorgimentale ebraico si ritrovò giovane corrispondente per la Neue Freie Presse a Parigi, nella tempesta dell’infame processo Dreyfus che, se condannò il povero e fedele ufficiale francese all’esilio, regalò invece a lui una disincantata folgorazione: l’antisemitismo è inguaribile e si radica anche nelle società evolute, a dispetto dei Lumi e dei diritti civili quasi universalmente riconosciuti. Per gli ebrei l’unica soluzione di sopravvivenza e dignità è la conquista di una «completezza» nazionale e di una autonomia politica. Il ritorno a una patria. I figli d’Israele dovevano diventare «un popolo come gli altri», riavere tutto ciò che definisce una nazione: terra, bandiera, autodeterminazione. A questo obiettivo Herzl dedicò il resto della propria vita - ma morì a soli 44 anni, nel 1904, senza fare in tempo a vedere nella Shoah la più drammatica conferma del suo pessimismo e nella nascita dello Stato d’Israele, dove dal 1950 riposano le sue spoglie, la realizzazione di quello che non rimase un sogno.
Tempi di pogrom
Cento e venti anni fa a Basilea il movimento sionista si riunì con l’obiettivo di dare una autonomia politica e civile al popolo ebraico disperso ai quattro angoli del mondo e vittima in quegli anni di sfoghi di violenza e persecuzioni: i pogrom che imperversavano nell’impero zarista mietevano vittime e costringevano alla fuga migliaia di anime. Come bene esempla il titolo del libro di Herzl che teorizza seppure in forma narrativa la nascita del futuro Stato - Altneuland, «nuova vecchia terra» - il sionismo guardava al passato remoto, tornava alle radici bibliche della storia, a quando gli israeliti avevano un regno sulla propria terra. Ma per contro aveva come obiettivo quello di forgiare un ebreo nuovo, non più disposto a chinare la testa passivamente davanti alla catena di avversità, odio e disprezzo che avevano segnato gli ultimi duemila anni. Un ebreo nuovo capace di riprendere - in primo luogo fisicamente con il lavoro manuale - il contatto con la terra.
E in fondo tutta la storia del sionismo, che prende il nome da una collina di Gerusalemme, Sion, evocata con nostalgia dagli esuli della prima Diaspora deportati in Babilonia, è un cammino sul filo in equilibrio tra passato e futuro. Da Theodor Herzl, che aveva nel Risorgimento italiano il suo primo e fondamentale modello politico, a David Ben Gurion, padre della patria che sempre propugnò il cammino verso Sud, verso il deserto del Negev dove secondo lui stavano il futuro del popolo e le risorse materiali e mentali per edificare la storia, tutta l’epopea del sionismo è segnata sia da un richiamo alle radici lontane sia dalla ricerca di un futuro libero, aperto.
Il Primo Congresso Sionista, tenutosi a Basilea dal 29 al 31 agosto 1897, avvia un processo interno ebraico: si creano organizzazioni, si definiscono i lineamenti di una educazione alla rinascita nazionale. Theodor Herzl e gli altri esponenti del movimento si dedicano a una fervida attività politica e diplomatica in cerca di un focolare nazionale per i figli d’Israele. Il sionismo è dunque un insieme di iniziative politiche, culturali ed economiche volte alla rinascita nazionale per il popolo ebraico. È anche e forse soprattutto un insieme di ideali intrinseco all’ebraismo, cui la modernità può dar voce. Nulla di artificiale, anzi: è l’autentico spirito dell’ebraismo che si confronta con la storia.
Lo Stato d’Israele
Cinquant’anni esatti dopo il Primo Congresso Sionista, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite approvano a maggioranza una risoluzione che prevede la creazione di due Stati «palestinesi»: uno ebraico e uno arabo. Nella Palestina sotto mandato britannico c’era infatti da generazioni una società ebraica strutturata, attiva, consapevole: uno Stato di fatto, dotato di istituzioni politiche, sistema educativo, servizi. Nel maggio del 1948 nasce lo Stato d’Israele. Da allora esso vive il conflitto. Ma ancora una volta, al di là delle questione politiche e fermo restando il diritto dei palestinesi arabi a un’autonomia nazionale, la storia ebraica si è caricata del solito «sovratesto» distorto per colpa del quale «sionismo» è diventato una parolaccia, la definizione di un’ideologia del male, sinonimo di razzismo, come è detto nella risoluzione Onu 3379 del novembre 1975.
Un ideale ancora vivo
Se è vero che dal 1897 in poi, e anche prima, il movimento sionista ha conosciuto diverse espressioni, lo è altrettanto l’evidenza che col razzismo non c’entra per nulla. Da Martin Buber a Zeev Jabotinsky, da Rav Kook a Abraham Yehoshua - e con loro tantissimi intellettuali e uomini di politica - in tutte queste voci il sionismo si configura come un ideale di «normalizzazione» ebraica capace di conservare quel portato umanistico che si trova espresso nella Bibbia e in tutta la tradizione d’Israele.
Lo Stato ebraico esiste da quasi 70 anni, è una realtà costruita su un ideale. Eppure, malgrado abbia raggiunto il suo scopo, l’ideale sionista è ancora vivo. Non solo nel guidare le recenti immigrazioni di ebrei (dalla Russia, dalla Francia, dall’India), non solo nella memoria di quei fondatori sparsi per il Paese (come ad esempio il nucleo italiano di molti kibbutzim storici, da Netzer Sereni a Ruchama), ma anche nel suo essere la più autentica declinazione dell’ebraismo contemporaneo. Nel quotidiano confronto, non sempre liscio ma sempre costruttivo, tra Diaspora e realtà nazionale israeliana. Nel paradosso che fa oggi di questo paese dalle radici ancestrali in cui si parla la stessa lingua dei Profeti e dei Patriarchi la «start-up nation» proiettata verso le più avveniristiche tecnologie. Nel suo essere parte dello scacchiere politico e culturale del presente, con le sue energie intellettuali, con la sua spinta di vita.

Repubblica 25.8.17
La festa teatrale a Cetona per i “90 anni di solitudine” “Mi ha telefonato Mattarella, sarà uno scherzo?”
Il non-compleanno di Guido Ceronetti
di Laura Montanari


CETONA (SIENA) Gli scappa un sorriso quando dice: «Non me li aspettavo gli auguri del presidente». È così esile, così fragile dentro questi suoi novant’anni, Guido Ceronetti. La camicia gli sta larga, i pantaloni pure, il corpo è magrissimo e spigoloso, la pelle quasi trasparente. «Non credevo proprio che mi telefonasse Mattarella ». Fa una pausa e, raggiunto da un dubbio improvviso, strizza gli occhi per la luce che entra nel suo studio come un fastidio: «Speriamo non sia uno scherzo… a me sembrava proprio il presidente della Repubblica».
Suona il telefono, suonano alla porta. Entrano ed escono amici e conoscenti dalla casa di Cetona, paese della campagna senese fra gli ulivi e i casali: «Sono venuto qui trentaquattro anni fa». “Qui” è una piccola strada del centro, a due passi dalla piazza. Una piccola anticamera e subito lo studio e una brandina: «Permesso, auguri Guido» gli dice un’amica che arriva da Pistoia. Lui si muove a fatica, con un deambulatore, sorretto da altre mani e braccia, fa soltanto i passi necessari nelle stanze zeppe di libri e di fotografie. «Prima facevo lunghe passeggiate e scrivevo, scrivevo. Adesso per muovermi ho bisogno degli altri e mi pesa tantissimo tutto questo: alla fine della giornata conto i passi che ho fatto e sono quelli per arrivare fino alla Posta o al massimo fino al panificio». Tutto lì, quasi un cortile. «Scrivere scrivo ancora, ma con fatica. E mi ripeto… è passato il tempo dell’ispirazione, insomma non mi piaccio».
Cetona ha festeggiato ieri questo poeta, scrittore, drammaturgo, giornalista che un giorno ha lasciato la sua Torino per ritirarsi nel borgo toscano. Cetona gli ha organizzato una festa di compleanno senza clamori, con uno spettacolo messo in scena dal Teatro dei Sensibili che fondò con la moglie Erica Tedeschi negli anni Settanta. Un gruppo di attori - il nucleo principale è quello che ha incrociato nel 2002 al Piccolo di Milano - è venuto apposta in Toscana per festeggiare il maestro. E Ceronetti non solo ha scelto personalmente i testi, le poesie, le ballate, tratti dalle sue raccolte Deliri disarmati, Trafitture di tenerezza e Ballate dell’Angelo ferito, ma quando è arrivato, fra gli affreschi e i blocchi di travertino della cinquecentesca piccola chiesa della Santissima Annunziata, ha chiamato a raccolta gli attori e cambiato la scaletta: «Questo sì, questo no» con una penna e un tavolo pieno di fogli. Ha scelto i testi più ironici, quelli in cui si ride amaro. Posti tutti occupati, ingresso libero, un centinaio di persone dentro la chiesa, altre fuori in piedi, per un reading dal titolo: 90 anni di solitudine.
Le locandine erano affisse nei negozi, al bar, alla mescita di vini, alla vetrina del fioraio. Non c’è un teatro da queste parti, Cetona si arrangia con quel che ha. «Non voleva una vera e propria festa di compleanno - spiega Luca Mauceri del Teatro dei Sensibili - allora abbiamo pensato a uno spettacolo alla Ceronetti mescolando parole e musica». E qualche brano recitato dallo stesso scrittore. Un titolo, 90 anni di solitudine, pieno di tristezza: «In parte è un calembour per ricordare i cent’anni di solitudine di García Márquez - racconta il festeggiato - in parte è per ricordare che la solitudine è quella di ciascun uomo, eterna, immutabile. È difficile da capire quando si è giovani, ma è una condizione dolorosissima, anche fatale. È il fardello con cui si nasce».
Niente torta, niente pranzo di compleanno, solite verdure, pasto frugale vegetariano e biodinamico. Per regalo ha ricevuto un mazzo di fiori dal Comune, rose bianche e gli abbracci della gente: villeggianti e del paese. Sulla porta di casa ha affisso un biglietto: «L’ospite più gradito è quello che meno fa uso di cellulare ». Durante lo spettacolo legge un inedito: «Non c’è più un pazzo che sia un vero saggio. Un normale che sia un vero pazzo…». Parla della tecnologia come di un’invasione molesta: «Scrivo da sempre a mano, poi siccome a volte io stesso fatico a capire la mia calligrafia, mi aiuta una collaboratrice che ribatte i miei testi al computer. Non amo però la tecnologia, i cellulari ci portano sempre in un altrove e mi pare che siamo tutti meno liberi, più rintracciabili, più controllati». Fra le sue battaglie, un cruccio resta quello per l’ambiente: «La Terra è caduta in mano all’uomo che è l’animale più nocivo che esista - dice con il pessimismo che lo accompagna in questo tempo - Così tutto finisce in un tragico, ineludibile oltraggio alle cose. Stiamo facendo danni che non siamo in grado di riparare. Come fare non lo so, non ho soluzioni ». Ha ricevuto tanti auguri nel giorno dei suoi 90 anni, ma lui stesso che augurio si fa? Ci pensa un momento, alza gli occhi piccoli, azzurri: «Soltanto quello di una fine dolce».

Il Fatto 25.8.18
I treni bidone scartati in Ue presi da Ferrovie per l’Italia
Affaroni. Belgio e Olanda si fecero ridare da Ansaldo Breda la caparra annullando il contratto perché difettosi. Trenitalia ne ha presi 17 (su 19)
I treni bidone scartati in Ue presi da Ferrovie per l’Italia
di Mattia Eccheli


Trenitalia ha approfittato di un saldo di fine corsa ad alta velocità. O che almeno sembra tale. Perché i 19 Fyra V250 prodotti dalla Ansaldo Breda e ripudiati dalla High Speed Alliance olandese e dalla Sncb belga che li avevano ordinati da oltre 40 mesi si trovano all’Interporto di Prato dove rischiano di arrugginire. Il costo della transazione è top secret, ma 17 dei convogli della partita rifiutata dalle società del Nord Europa entrerebbero in servizio a costi “stracciati”. Sul supplemento della Gazzetta Ufficiale europea dell’11 agosto si legge di un “acquisto di opportunità effettuato approfittando di un’occasione particolarmente vantaggiosa ma di breve durata, ad un prezzo sensibilmente inferiore ai prezzi di mercato”.
I convogli contestati saranno destinati alle linee nazionali esclusivamente su quelle rotte dove le condizioni lo consentono (binari con poche curve e pianeggianti) e quindi, almeno fino a quando non saranno terminati i lavori appena appaltati sulla Napoli-Bari, sembra escluso l’utilizzo in Puglia. Il colosso guidato da Barbara Morgante conta di implementare il servizio provando anche rilanciare il Made in Italy: i Fyra V250 dispongono delle omologazioni per circolare in tutta Europa. Secondo la Railway Gazette entro il giugno del 2018 i primi quattro elettrotreni dovrebbero cominciare a circolare.
Trenitalia non commenta, ma nei forum circolano cifre attorno ai 6 milioni di euro a convoglio, ovvero 102 milioni. Una cifra più verosimile appare quella vicina ad un terzo del valore del contratto da 450 milioni stipulato e poi disdetto nei Paesi Bassi ed in Belgio perché i convogli avrebbero perso pezzi e si sarebbero arrugginiti precocemente.
Secondo alcuni dei protagonisti dell’epoca lo smacco fu soprattutto politico, perché il governo italiano non difese la propria società. E, infatti, la Ansaldo Breda spiegò che “il disservizio (contestato per via di una manutenzione non corretta, ndr) è stato il pretesto per bloccare la fornitura”. Col senno del poi già la data fissata per l’entrata in servizio del primo Fyra V250 sembra infelice: il primo aprile del 2007. Slittata di due anni, la prima consegna non viene accompagnata da grandi applausi, perché in Olanda si riscontrano problemi tecnici ed il “recapito” definitivo viene posticipato a fine 2012. La breve storia degli elettrotreni dura qualche settimana: dopo meno di 40 giorni arriva la decisione del ritiro definitivo. Quei convogli, per i quali la Ansaldo Breda (nel frattempo ceduta alla Hitachi Rail Italy, che ha perfezionato la cessione) è costretta a restituire la caparra, Trenitalia li ha acquistati senza una gara d’appalto. Un affare, insomma. Che include la manutenzione per 5 anni, che si può prorogare per un altro lustro. I restanti due Fyra del lotto ripudiato verranno utilizzati per gli eventuali pezzi di ricambio.
I Fyra sono già stati testati nel Belpaese nel 2014, in particolare sulla linea Milano-Torino. Adesso dovrebbero potenziare i collegamenti ad alta velocità. Tra le molte cose da capire ci sono rotte, denominazioni (Frecciargento o Frecciarossa) e aggiornamenti.
L’acquisto estivo di Trenitalia non sarà disponibile immediatamente, anche se i tempi di attesa sono ridotti rispetto a quelli “abituali”, che oscillano fra i 3 ed i 4 anni. A parte i primi quattro elettrotreni, attesi per il prossimo giugno, gli altri 13 potrebbero iniziare a circolare nell’estate del 2019.
Fabbricati a partire dal 2004, arrivano sulle rotaie 15 anni dopo. Realizzati con specifiche per i paesi del Nord Europa, i convogli dovranno venire adattati alle esigenze italiane. Il loro aspetto definitivo, anche degli interni con i livelli di servizio (pare tre: standard, premium e business), potrebbe venire esibito a Milano fra il 3 ed il 5 ottobre a Expo Ferroviaria. Fra le modifiche che Trenitalia avrebbe in mente, riferisce il Railjournal, ci sarebbero quelle al “muso”, dei pantografi e del sistema europeo di controllo (Ects). Probabile anche un intervento sugli impianti di condizionamento, che erano tarati per climi diversi da quello dello Stivale.

il manifesto 28.8.17
Sinistra e legge elettorale, partiamo dai fondamentali
di Alfiero Grandi


La sinistra che cerca una prospettiva unitaria dovrebbe partire dai fondamentali. Se c’è accordo su questi il passo avanti è possibile. Partiamo dal referendum del 4 dicembre 2016.
Nel 2013 la sinistra ha pagato un prezzo per non avere raccolto la spinta dei referendum vittoriosi del 2011. Grillo capì l’errore e si intestò la vittoria più di quanto non avesse meritato sul campo.
La vittoria del No ha impedito la manomissione della Costituzione. Il problema ora non è se si era schierati per il No, quanto riconoscere che andava sconfitto un disegno accentratore e autoritario.
Partire dal referendum è importante perché riguarda il futuro democratico del nostro paese, la sua qualità, il diritto di avere diritti come scrisse Rodotà, contro la normalizzazione pretesa dai processi di globalizzazione.
È un errore sottovalutare la spinta potente alla base del tentativo di modifica della Costituzione. Ci sono centri di potere finanziari e politici che chiedono da anni di cambiare le Costituzioni dei paesi del sud Europa e dell’Italia in particolare, perché troppo influenzate dalla sinistra. I documenti sono noti. Banche di affari, centri di decisione finanziaria ed economica, multinazionali, ritengono la partecipazione democratica, forse la stessa democrazia, una perdita di tempo. E premono affinché le decisioni che a loro interessano siano adottate con le stesse modalità delle aziende. Ci sono settori politici che si adeguano, ma la sinistra deve opporsi.
La globalizzazione vera è questa: decisioni planetarie adottate in pochi e ristretti centri di potere economico. La pressione per modificare la Costituzione ha questo retroterra di poteri e di cultura e punta ad adottare decisioni rapide e inappellabili. Per questo l’attacco è destinato a tornare malgrado il voto del 2016 e sarà più determinato, più incisivo di quello tentato da Renzi. Si parla apertamente di cambiare non solo la seconda parte della Costituzione (Galli della Loggia) ma anche la prima (Panebianco). Finora era mancato il coraggio di prendere di petto l’insieme della Costituzione. Ora non più. Per questo la legge elettorale è centrale e deciderà del nostro futuro democratico. Nella Costituzione non c’è la legge elettorale. Questo ha costretto la Corte a intervenire più volte per ridare coerenza costituzionale alle leggi elettorali. È una garanzia che non ci ha impedito di votare tre volte con il Porcellum prima che venisse dichiarato incostituzionale. Nel 2018 si tornerà a votare ma non si sa con quale legge. Allo stato si voterà con due leggi che sono il risultato di due diverse sentenze della Corte su leggi diverse. Il parlamento, eletto con una legge incostituzionale, dovrebbe sentire il dovere di approvare una legge elettorale coerente per camera e senato. Purtroppo è un parlamento composto da nominati dai capi partito. I partiti sono ridotti a dependance dei loro capi. Un disastro che ha già reso il parlamento debole, senza credibilità. È evidente che in un nuovo parlamento di nominati, imbelle e subalterno, riprenderanno disegni neoautoritari, presidenzialisti, tali da ridurlo a sede di ratifica. Mentre oggi la nostra Costituzione mette il parlamento a fondamento dell’assetto democratico.
Per evitare questa regressione e per garantire che i principi della prima parte vengano attuati e non svuotati è necessario che i parlamentari vengano scelti direttamente dagli elettori.
È inaccettabile che i capi partito decidano da soli se e quale legge elettorale approvare. La camera il 6 settembre riprenderà l’esame della legge elettorale. Occorre un’iniziativa forte per impedire che vengano usati nuovi pretesti per fare saltare tutto e per evitare che torni dalla finestra quello che il referendum ha bocciato. Il 2 ottobre abbiamo convocato un’assemblea nazionale alla camera per lanciare, come l’11 gennaio 2016 per il No, una campagna di informazione e di mobilitazione per impedire anzitutto il sequestro delle decisioni. L’attenzione dell’opinione pubblica sulla legge elettorale non è paragonabile a quella sulla Costituzione, anche per un’opera di depistaggio e di informazione confusa. La sinistra alla ricerca di una sintesi dovrebbe farne un punto centrale, superando posizioni subalterne verso le forze che oggi sono maggiori anche perché il loro ruolo non viene messo in discussione.
*Vice presidente Coordinamento democrazia costituzionale