Corriere 24.8.17
L’addio al Pd di Lerner: grave disarmo sui diritti umani
di Melania Di Giacomo
ROMA Gad Lerner lascia il Pd e per annunciare la decisione sceglie un editoriale su Nigrizia , storica rivista dei missionari comboniani dedicata «all’Africa e al Mondo Nero», proprio per rimarcarne il motivo che lo divide ora dal partito nel quale aveva militato sin dalla sua nascita. «L’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza — scrive il giornalista — costituisce per me un ostacolo non più sormontabile». In realtà l’addio non stupisce: da tempo critico con la gestione del segretario Matteo Renzi, l’ex direttore del Tg1 si era avvicinato a Campo progressista di Giuliano Pisapia. Al suo fianco aveva presentato «Insieme», la manifestazione del primo luglio in piazza Santi Apostoli a Roma, tenendo a battesimo il tentativo di nuova casa comune della sinistra.
Al suo ex partito Lerner imputa «un vero e proprio disarmo culturale» e «una impressionante subalternità psicologica alle dicerie sparse dalla destra», definendo ormai «un ostacolo insormontabile» la politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza. Prima c’era stata, elenca, «la revoca dell’operazione Mare Nostrum», poi «la mancata abrogazione del reato di immigrazione clandestina», «la promessa non mantenuta sullo ius soli temperato». Provvedimento che lo stesso Pisapia, due settimane fa, aveva definito un’urgenza per «chi è di sinistra e di centrosinistra». Ma «la goccia che ha fatto traboccare il vaso — prosegue Lerner — è la campagna di denigrazione mossa contro le Ong», «la promulgazione di questa inedita oscena fattispecie che è il ”reato umanitario”».
Se ne va nel silenzio dei renziani. Per la minoranza invece «pone un tema enorme». A dare ragione a Lerner è Barbara Pollastrini, esponente della minoranza. «I diritti umani — afferma la vicepresidente del Pd — sono la premessa e il senso della sinistra e di un partito democratico. Oggi la realpolitik pare dominare sulla dignità e sul valore di ogni essere umano. Sarà un autunno importante per il centrosinistra».
il manifesto 24.8.17
«Subalternità alla destra sui migranti», Gad Lerner lascia il Pd
Addio al Pd. Il giornalista, tra i 45 fondatori del partito democratico dieci anni fa, rieletto di recente nell’assemblea nazionale, ha stretto rapporti con l’ex sindaco Pisapia
di Rachele Gonnelli
L’emorragia di personalità di spicco dal Pd renziano continua in quest’agosto torrido anche dal punto di vista politico. É appena finita l’eco della porta sbattuta da Vasco Errani ed ecco quella di Gad Lerner, che lascia il partito con parole di fuoco contro la politica di Minniti e soci sulle migrazioni, in primis per le accuse denigratorie contro le ong che salvano i migranti in mare e il rinvio alle calende greche dello ius soli.
Il giornalista, nato a Beirut in una famiglia di ebrei libanesi e arrivato in Italia da immigrato bambino, ha deciso di comunicare la sua decisione di disconoscere la creatura che ha contribuito a far nascere dieci anni fa ( è tra i 45 fondatori del Pd) con un articolo in cui parla di «disarmo culturale» e «subalternità psicologica alle dicerie sparse dalla destra». Il testo si pone come un «bilancio di fine legislatura su una materia, quella dei diritti umani e di cittadinanza, dei rapporti presenti e futuri tra le due sponde del Mediterraneo che – argomenta – considero di importanza cruciale».
Lerner non ha mai fatto mistero in questi ultimi tre anni di trovarsi a disagio nel Pd di Renzi. Dal 2010, del resto, ha legami sempre più stretti con Giuliano Pisapia, iniziati – da milanese – con la campagna elettorale a sindaco della città quando ancora Pisapia era il campione di Sel nell’alleanza bersaniana Italia Bene Comune.
Pur avendo a suo tempo scartato l’idea di seguire gli scissionisti bersaniani – «non consideravo motivi sufficienti di divorzio le riforme istituzionali e il Jobs act», spiega – e disposto a ingoiare più di un rospo pur di salvaguardare «l’unità dentro un partito grande e plurale», si è visto costretto a tornare sui suoi passi «a malincuore» a causa di una involuzione politica sui «valori fondativi» del partito.
Con Pisapia i rapporti non si sono mai interrotti e lo scorso 1 luglio era stato proprio Gad Lerner a fare da speaker sul palco di Piazza Santi Apostoli all’assise di lancio del raggruppamento dell’ex sindaco. Sono passati solo due mesi da allora, due mesi che di solito sono «di buco» per la politica, ma non quest’anno e soprattutto non su un tema come l’immigrazione. Con la derubricazione dello ius soli pur «temperato» mentre si gonfiava l’ondata cattivista piddina fino alla prefigurazione di quello che Lerner chiama «l’indedita oscena fattispecie che è il reato umanitario» e alle esternazioni recenti di Luciano Violante sul Corsera.
«Per me – spiega Lerner – la goccia che ha fatto traboccare il vaso è la campagna di denigrazione mossa contro le ong impegnate nei salvataggi in mare. Culminata in accuse di complicità con gli scafisti e tradotta nella pretesa governativa di sottometterle a vincoli non contemplati dal diritto internazionale né dai codici di navigazione». Una campagna in cui la tesi – Lerner la definisce «ideona bellicosa» – di Matteo Salvini di respingere con la forza i profughi, viene ripresa e ripetuta infinite volte «da leader di opposti schieramenti, dal centrodestra al centrosinistra ai grillini» per poi parlare di emergenza «percepita» – come fa il ministro dell’Interno Marco Minniti ndr – , anche se «smentita dalle cifre, alimentata dai giornaloni».
Non è un’emergenza migranti ma una emergenza elezioni, sostiene l’ex direttore del Tg1, di Otto e mezzo e dell’Infedele. E sceglie, non a caso, la sua rubrica fissa sul settimanale cattolico Nigrizia per vuotare il sacco. La rubrica, intitolata a l’idiot savant Giufà della tradizione marrana, per l’occasione è diventata l’editoriale della rivista. «Non per provocazione – scrive Nigrizia – ma perché coglie con precisione un problema». Tra i commenti sul sito più di un lettore tra cattolici del Pd, approva.
Repubblica 24.8.17
Il Paese Spezzato
di Guido Crainz
C’È qualcosa che ferisce nella divisione che sembra attraversare il Paese in queste ore, dopo la tragedia di Ischia. Con la contrapposizione esasperata dai social fra parti diverse e contrapposte, fra Nord e Sud. Con chi dice che lo Stato non dovrebbe pagare la ricostruzione delle case abusive o di quelle costruite dai camorristi, e con le urla contro i “giornalisti sciacalli”. E con una polemica politica che è incentrata non sull’analisi ma sulle colpe da rinfacciare all’avversario. Né sembrano esservi stati in queste ore
veri moti di solidarietà.
È difficile nasconderselo, sembra emergere un Paese che reagisce alle difficoltà e alle tragedie sentendosi vittima e al tempo stesso irresponsabile (nel senso proprio di non responsabile, privo di colpe perché privo di doveri civili). E un ceto politico che usa anche le tragedie come arma contundente di un giorno o di un mese contro il “nemico”.
Eppure proprio l’abusivismo edilizio ci permetterebbe una riflessione pacata quanto amara sulle radici di molti degradi attuali: ci permetterebbe di cogliere quel momento della nostra storia recente in cui la legge ha iniziato a diventare un po’ meno legge. Certo, si può risalire più all’indietro (magari scorrendo le pagine de La speculazione edilizia di Calvino, che ci parla del “miracolo economico” degli anni Sessanta e della Liguria) ma forse le radici più prossime della deriva attuale stanno proprio in quegli anni Ottanta ai quali per tanti versi il nostro presente rinvia. Fu invocato allora per la prima volta l’“abusivismo per necessità”, ed eravamo nel pieno dell’era Craxi: fu un suo governo infatti a decidere un enorme condono edilizio. Eppure il panorama era devastato e devastante già allora: Cesare De Seta ne tracciava una mappa che andava dalle “pendici brulle ed arse del violaceo ‘sterminator Vesevo’” al “cuore verde dell’Umbria e alle sponde del Trasimeno”, e poi alle grandi città del Sud e del Nord. Furono 3.900.000 allora le domande di sanatoria, panorama eloquente di un’aggressione al territorio che quel condono venne definitivamente a sancire, se non a incentivare. E la vera opposizione a quella legge, i veri ostacoli che essa dovette affrontare non vennero dalla voce ancora flebile dell’ambientalismo ma — tutto all’opposto — dalla forza prorompente di un “abusivismo popolare” che considerava troppo esosa la tassa prevista dalla sanatoria. In Sicilia e altrove — soprattutto nel Mezzogiorno — le proteste si moltiplicarono e culminarono con una grande manifestazione nazionale a Roma: l’“abusivismo per necessità” fu allora il cavallo di battaglia dei molti sindaci che le promossero, minacciando dimissioni in massa (volevano “stralciare” anche la norma che escludeva dal condono le zone a rischio sismico ). Oggi sembra paradossale ma essi furono sostenuti con decisione dal Partito comunista, e non di rado ne facevano parte (non mancarono proteste interne ma contarono poco). Un Partito comunista che era ancora grande e nazionale ma che nei rivolgimenti degli anni Ottanta stava smarrendo la bussola e cercava confusamente di ritrovarla negli attacchi al “nemico” (Craxi, allora). A completare il quadro, e a far cadere la divisione fra Nord e Sud, è sufficiente poi ricordare le grandi difficoltà incontrate in tutta Italia nello stesso periodo dalla “legge Galasso” per la tutela dell’ambiente. Essa imponeva alle Regioni di mettere a punto un piano per evitare ulteriori guasti: alla scadenza fissata solo tre lo avevano predisposto, e l’opposizione alla legge fu corposa e variegata, “sociale” e politica.
Sono stati molteplici dunque gli attori che hanno innescato la deriva attuale: una deriva in cui l’illegalità sembra diventata la nostra regola. E in cui — annotava qualche anno fa Barbara Spinelli — tutto sembra “tremare in comtemporanea: terra e politica, senso dello stato e maestà della legge”. Certo, è un processo che ha avuto delle accelerazioni più intense: le corruttele profonde che furono all’opera nel terremoto dell’Irpinia hanno danneggiato il Mezzogiorno molto più dei comizi di Bossi, ma fu allora l’Italia nel suo insieme ad essere in gioco. E così è oggi, perché questa più generale partita si può vincere solo essendo nazione. E ricostruendo con ostinata, disperata tenacia un perimetro di regole.
La Stampa 24.8.17
Il partito unico dei condoni
Italia, abusive 1,2 milioni di case
E dal 1985 più di due milioni di richieste di sanatoria: solo 28 mila già respinte
Sono un milione e 200 mila le case «fantasma» in Italia. Ogni anno a fronte di migliaia di nuovi abusi, viene demolito soltanto un edificio su dieci. E dal 1985 sono state avanzate più di due milioni di richieste di condono: solo 28 mila sono state respinte.
di Marcello Sorgi
È inutile rimpiangere o versare lacrime da coccodrillo: siamo un popolo di abusivi. E abbiamo avuto e continuiamo ad avere una classe dirigente - non tutta ma neppure esclusivamente locale, come quella di Ischia e della Campania - che in nome della «necessità» ha incoraggiato e legittimato l’abusivismo negli ultimi trent’anni e più, dal 1983, quando il governo Craxi annunciò per la prima volta un decreto per rilegittimare le costruzioni abusive, con l’obiettivo di risanare, almeno in parte, i conti pubblici, a oggi.
Se poi di condono in genere, e non solo edilizio, si vuol parlare, si può risalire indietro di altri dieci anni, al 1973 del IV governo Rumor che varò una delle tante sanatorie fiscali (allora non c’era la fantasia di definirle «scudo»). Di lì in poi, la cadenza subì un’accelerazione: 1982, governo Spadolini e nuovo condono per gli evasori; 1985, entrata in vigore del già citato provvedimento del governo Craxi; 1991, nuova sanatoria fiscale del VI governo Andreotti; 1995, doppio condono, edilizio e fiscale, del governo Dini; 2003, nuova doppietta, stavolta di Berlusconi, che replica nel 2009 con la norma per agevolare il rientro dei capitali, cosiddetti «scudati», illecitamente portati all’estero.
Complessivamente, secondo un calcolo della Cgia di Mestre, giudicato ottimistico da altri osservatori tecnici, i condoni di qualsiasi tipo degli ultimi tre decenni avrebbero portato nelle casse dello Stato 104,5 miliardi di euro, meno di quanti ne sottragga (anche in questo caso la stima è limitata) l’evasione fiscale in un solo anno. A conti fatti, un pessimo affare, anche se c’è chi dice, non si sa se per celia o sul serio, che bisognerebbe aggiungere, ricalcolandolo in valuta di oggi, il ricavato in sesterzi del primo, primissimo condono, voluto nel 119 dopo Cristo dall’imperatore romano Adriano.
Ma al di là della convenienza economica inesistente per i governi, e dei rischi per le popolazioni di abitanti di case edificate illegalmente, in spregio alle più elementari regole di sicurezza, è interessante anche ricostruire la genesi politica di questo genere di provvedimenti, varati sempre senza quasi opposizione - anzi, in una sorta di regime di unità nazionale - e riproposti, rimodellati e ampliati localmente, come appunto è accaduto in Campania per la legge del governatore De Luca (impugnata dal governo Gentiloni di fronte alla Corte Costituzionale) e come stava per accadere in Sicilia per le case al mare costruite sulla battigia. Se si esclude una piccola pattuglia di coraggiosi giornalisti come Antonio Cederna, Mario Fazio, Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo, associazioni povere di mezzi come, ma non solo, Italia Nostra, e i Verdi, ma non tutti, nessuno ha fatto battaglie vere contro l’abusivismo. Ai tempi dello storico decreto Nicolazzi - il ministro dei Lavori pubblici di Craxi che concepì la prima sanatoria nazionale e ne reiterò il decreto per 21 volte, anche per dilatarne i tempi di efficacia -, in Parlamento, formalmente, si opponeva il Pci. Ma nelle piazze era il sindaco comunista di Ragusa Paolo Monello a guidare le manifestazioni degli abusivi «per necessità». Monello, antesignano dell’esponente marxista leninista Gennaro Savio - che portò in piazza 600 dei 27 mila abusivi di Ischia nel 2010, minacciando di far saltare le elezioni regionali e ottenendo dall’allora ministra Mara Carfagna e dal candidato, poi eletto governatore della Campania, Stefano Caldoro la promessa di un nuovo decreto per bloccare le demolizioni - era stato il primo a coniare gli slogan più espliciti e efficaci della lotta contro l’antiabusivismo, tipo «Il popolo costruisce, il governo demolisce», oppure «No all’adeguamento antisismico», che sarebbe quasi un invito al suicidio legalizzato, stando ai terremoti verificatisi, dopo Belice, Friuli e Irpinia, nel periodo successivo, dall’Umbria all’Abruzzo al Centro Italia, con migliaia di vittime, senza-tetto e case crollate anche con scosse di media entità, alle quali, come a Ischia, avrebbero dovuto invece resistere.
Nell’isola ultima colpita da un sisma, dal 1981 al 2006 sono stati costruiti oltre centomila vani abusivi; nel solo 2004 e soltanto nel Comune di Forio sono stati sequestrati 200 cantieri fuorilegge; una famiglia ischitana ogni 2,5 (in pratica quasi tutte, considerando cuginanze e parentele di secondo grado) ha chiesto il condono. Nel resto d’Italia nei quindici anni tra il 1982 e il ’97 i nuovi manufatti abusivi sono stati quasi un milione (970 mila). Un’enormità del genere non ha eguali in Europa, forse perfino nel mondo.
E dopo il pentapartito e i comunisti negli Anni Ottanta, i marxisti-leninisti nei Novanta e il centrodestra all’inizio del millennio, sono ora i 5 stelle, in Sicilia, a unirsi al partito unico nazionale dell’abuso. Lo ha fatto, pur vantandosi di aver fatto prima demolire una palazzina da 700 metri quadri di un mafioso, il sindaco stellato di Bagheria Patrizio Cinque, autore di una delibera comunale che tenderebbe a dare abitabilità provvisoria alle costruzioni abusive occupate per necessità; e lo hanno fatto, negli stessi termini, il candidato governatore M5S della regione Giancarlo Cancelleri, spalleggiato dall’aspirante premier Luigi Di Maio, negli stessi giorni in cui il sindaco Angelo Cambiano, l’unico a battersi davvero per l’abbattimento delle orrende villette costruite sulla spiaggia siciliana di Licata, veniva fatto fuori in consiglio comunale da una maggioranza trasversale e riceveva la solidarietà dei comici Ficarra & Picone, protagonisti del film «L’ora legale» che sembra una parodia della sorte del primo cittadino, ma è stato notevolmente superato dalla realtà. Così che non c’è alcun dubbio sul fatto che - chiunque vinca le regionali del 5 novembre - il prossimo condono partirà dalla Sicilia.
Corriere 24.8.17
I migranti e la svolta ignorata, calano i migranti
di Paolo Mieli
Sarà anche a causa (o per merito) di qualche «ex capo mafioso» di Sabratha che ha smesso di aiutare gli scafisti e — per legittimarsi con il governo di Tripoli — adesso anzi li ostacola, ma quel che sta accadendo nei mari libici ha dell’incredibile: ad oggi il numero dei migranti sbarcati nel mese di agosto sulle coste italiane è di 2.859 contro i 10.366 dell’anno scorso. Sono diminuiti di ben più del 72%. Davvero clamoroso. E pensare che le cose in primavera sembravano essersi messe al peggio: ad aprile gli arrivi erano cresciuti a 12.943 contro i 9.149 del 2016. A maggio erano aumentati ancora: 22.993 a fronte dei 19.957 dell’anno scorso. A giugno lo stesso: 23.526 contro 22.339. Infine quei due giorni maledetti, 27 e 28 giugno, nei quali di profughi ne giunsero diecimila. Diecimila che sbarcarono pressoché contemporaneamente da venticinque navi in altrettanti porti italiani. Poi un nuovo mega sbarco di oltre quattromila persone il 14 luglio.
Ci si aspettava un’estate davvero complicata. Tragica per i migranti, prima di tutto, dal momento che — con quei ritmi di fuga dall’Africa — sarebbe stato assai probabile che un’alta percentuale di uomini, donne, bambini avrebbe trovato la morte in mare. E assai impegnativa per il nostro Paese che avrebbe dovuto accoglierne in quantità alle quali non era preparato. È in quel momento che si è avuta la svolta.
U na svolta iniziata qualche giorno prima delle celeberrime disposizioni del ministro dell’Interno Marco Minniti che impegnavano le navi di soccorso delle Ong ad accogliere a bordo agenti inviati dall’autorità giudiziaria. Tant’è che già nel mese di luglio — nonostante i 4 mila del 14 — i migranti giunti nel nostro Paese erano scesi dai 23.552 del 2016 a 11.459. Cosa è successo? Alcuni personaggi equivoci, come quelli peraltro non identificati di Sabratha, hanno giudicato conveniente mollare i trafficanti al loro destino. Si poi è messa in moto la Guardia costiera libica alla quale l’Italia aveva riconsegnato quattro motovedette riammodernate assieme ad una cinquantina di agenti addestrati alla scuola della Guardia di finanza di Gaeta. E la famosa nave che (su richiesta del presidente Fajez Serraj) abbiamo mandato in acque libiche — invio a causa del quale il generale Haftar ci ha minacciato di ritorsioni armate — funge adesso da officina di riparazione delle motovedette di Tripoli. Un programma che va avanti: entro l’estate di motovedette ne consegneremo altre sei; così come continueremo ad addestrare altro personale della loro Guardia costiera. E la Guardia costiera, sia ricordato a sollievo di chi guarda all’intera vicenda ispirato da autentici principi umanitari, non solo ha reso molto meno facili le attività dei trafficanti di profughi ma ha sottratto ad un destino di sventura (e alcuni a «morte certa», parole che prendiamo da documenti delle Nazioni Unite) diecimila disperati in fuga dall’Africa.
La complessa operazione ha avuto un’altra insperata conseguenza. Invece di crescere a dismisura e di andarsi a stipare in dimensioni straripanti nei centri di accoglienza del nord libico, i migranti che quest’estate hanno raggiunto la costa settentrionale africana, sono diminuiti. La notizia che il trasbordo dalle imbarcazioni degli scafisti a quelle delle Ong era stato reso più complicato, ha avuto, ad ogni evidenza, un effetto deterrente. Anche perché, a seguito dell’incontro di Minniti con i «tredici sindaci» (capitribù ai quali è stata offerta una prospettiva economica alternativa al coinvolgimento nel traffico di esseri umani), hanno cominciato a funzionare alcune attività di frontiera a sud della Libia. Ad un tempo è aumentata — con effetti positivi — la sorveglianza dell’Onu (tramite Unchr) sui centri di accoglienza. E ben cinquemila profughi hanno accettato di tornarsene nei Paesi d’origine grazie anche ad un incentivo economico. Il tutto sotto la sorveglianza delle Nazioni Unite.
Ci si può fidare al cento per cento dell’Onu? Sottovalutiamo la disponibilità della milizia di Sabratha a cambiare nuovamente bandiera? Abbiamo risolto una volta per tutte — almeno per quel che ci riguarda — il problema delle migrazioni? Possiamo escludere che negli ultimi giorni di agosto o in settembre si abbia qualche brutta sorpresa? No. È evidente. Ripetiamo: no. È però accaduto che qualcuno si sia finalmente e provvidenzialmente mosso contro i signori del traffico migratorio. E che qualche risultato si cominci a vedere: gli sbarchi ridotti del 72%, la Guardia costiera libica che ha salvato diecimila persone, cinquemila profughi che accettano il «rimpatrio volontario assistito».
Molti dimenticano che l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti fu preceduta da una vera e propria guerra cinquantennale della Royal Navy inglese contro gli «scafisti» di allora. Dopo che con lo Slave Trade Act (1807) fu reso illegale il commercio degli schiavi, le navi britanniche ingaggiarono nei mari una battaglia contro i trafficanti che si protrasse fino al 1865, l’anno in cui, con la vittoria del Nord abolizionista, si concluse in America la guerra di secessione. Oggi concordiamo sul fatto che senza quella spietata guerra ai negrieri, la strada per l’abolizione della schiavitù sarebbe stata molto più lunga. L’analogia con quella lontana offensiva contro i trafficanti di esseri umani è stata colta — prendiamone nota — da due personalità alle quali, quando si tornerà a parlare di questo agosto 2017, si dovranno riconoscere meriti particolari: Gualtieri Bassetti e Bernard Kouchner. Bassetti è da poco tempo il presidente dei vescovi italiani e nel momento in cui il mondo cattolico appariva incline a criticare in termini aspri la politica del governo sulle Ong, ha pronunciato — il giorno di San Lorenzo, a Perugia — un notevole discorso nel quale ha richiamato la comunità cristiana ad una guerra senza quartiere contro «la piaga aberrante della tratta di esseri umani» e alla pronuncia del «più netto rifiuto a ogni forma di schiavitù moderna». Riferimenti evidenti alla lunga battaglia della marina inglese di cui si è appena detto. Ancora più esplicito è stato Kouchner l’uomo che nel 1971 fondò Medici senza frontiere, l’Organizzazione non governativa che adesso non ha firmato il Codice di condotta proposto da Minniti e ha ritirato le proprie navi dai mari antistanti la Libia. Kouchner, pur riconoscendo la liceità delle obiezioni di Msf, ha spiegato quanto sia fondamentale la lotta «inesorabile» ai trafficanti, ha definito senza mezze misure «sbagliata» la decisione di chi come Msf si è chiamato fuori dalle operazioni di soccorso, e ha riconosciuto all’Italia (ma anche alla Germania di Angela Merkel) di aver in questi frangenti «salvato l’onore dell’Europa». Dopodiché ha esortato le Nazioni Unite a farsi valere per impedire che i campi di accoglienza in Libia diventino (o continuino ad essere) dei lager. E a trasformare in qualcosa di più ambizioso il piano per la restituzione dei profughi ai Paesi di provenienza. L’Europa in questo piano ha già investito 90 milioni, l’Italia 20, la Germania 50. Altri soldi forse verranno ancora. Funzionerà? Quel che è certo è che nel Mediterraneo non si è avuta la catastrofe umanitaria da molti annunciata; anzi, sono diminuiti i morti oltreché, in proporzioni clamorose, gli sbarchi. C’è la possibilità che qualcuno, anche uno solo, di quelli che avevano trattato questo capitolo dell’attività governativa alla stregua di una riproposizione delle pratiche persecutorie del nazionalsocialismo, sia indotto da ciò che è poi accaduto, a riconsiderare le cose dette e scritte? Improbabile. Ma se qualcuno volesse dar prova di onestà intellettuale, questa sarebbe l’occasione giusta.
La Stampa 24.8.17
L’obbligo di affascinare gli studenti
di Andrea Gavosto
Al meeting di Rimini la ministra Valeria Fedeli ha rilanciato il tema dell’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni, pur evitando di fissarne tempi e modi: saggiamente, visto che ormai la legislatura sta volgendo al termine e si tratta di una delle questioni che più hanno diviso l’opinione pubblica lungo tutta la storia repubblicana.
Oggi, l’obbligo di frequentare la scuola termina a 16 anni, mentre, fino a 18, tutti i ragazzi hanno il diritto di ricevere un’istruzione anche se lavorano – e i datori di lavoro hanno il conseguente dovere di fornirla. Questa ambigua formulazione è il frutto di un compromesso, raggiunto nel 2007 dal governo Prodi, dopo almeno quattro tentativi falliti di riforma, fra le due anime che da sempre si fronteggiano: quella della sinistra storica, che spinge perché tutti gli studenti siano tenuti a frequentare un istituto scolastico fino alla maggiore età, e quella cattolica, che ritiene che l’obbligo di istruirsi possa essere assolto anche attraverso la formazione professionale o percorsi individuali di scuola-lavoro.
Alla luce di questo percorso travagliato, ha senso riproporre oggi un tema potenzialmente così divisivo? In assoluto, sì. Sappiamo infatti che nei prossimi decenni il lavoro è destinato a cambiare profondamente: la globalizzazione prima, l’automazione poi, stanno facendo scomparire un numero crescente di occupazioni di routine, basate su un modesto livello di competenza: dai lavori amministrativi a quelli manuali ripetitivi, fino ai servizi alle persone. Per contro, con l’intelligenza artificiale si aprono grandi prospettive per chi ha raggiunto saperi avanzati in ambito tecnico e scientifico, per chi riesce a far emergere la propria creatività, per chi è in grado di inserirsi in ampie reti sociali, per chi, infine, possiede l’abilità manuale necessaria a produrre oggetti nuovi. Studiare bene, e più a lungo, diventa quindi un passaggio obbligato per avere la certezza di un lavoro pieno e gratificante. Del resto, studi effettuati in Svezia ci confermano che l’estensione dell’età dell’obbligo porta a migliori condizioni lavorative, anche se in proporzione minore rispetto all’aumento del tempo scuola quotidiano.
Il rischio però è che l’allungamento per decreto dell’obbligo scolastico a diciotto anni possa servire a poco, se non cambia profondamente la didattica nella scuola, come riconosce la stessa ministra. Oggi, il 13,8% dei giovani italiani non ottiene un diploma di scuola superiore, contro una media europea del 10% (e con picchi al 20% in alcune regioni meridionali). Difficile pensare che un sedicenne o un diciassettenne che non ha più voglia di sedere sui banchi di scuola possa davvero acquisire nozioni importanti per il suo futuro, per il solo fatto che qualcuno lo obbliga a frequentare fino alla maggiore età: al massimo, ridurremo la statistica sulla dispersione, ma non miglioreremo il livello degli apprendimenti. Sarebbe molto diverso se la spinta a completare la scuola superiore venisse non dall’alto, ma dal basso, dal riconoscimento degli stessi studenti che, senza una formazione adeguata, ci si condanna alla disoccupazione o a lavori di serie B. Ma per arrivare a questo, occorre che i docenti riescano a cambiare il modo di insegnare, appassionando, orientando e coinvolgendo tutti gli studenti, anche quelli più difficili.
*Direttore Fondazione Agnelli
L’Apocalisse può attendere
Guido Ceronetti
I “90 anni di solitudine” dello scrittore marionettista, festeggiato oggi nel suo eremo di Cetona. “Temo lo stravolgimento della parola”
di Bruno Quaranta
Canuto? No. Una cascata di capelli finissimi, forse i fili che animano le sue marionette. Stanco? Semmai, stanca è la carta, che, nulla die sine linea, dissemina di inchiostri roventi, sapienziali, lucidamente disperati. Vecchierel? Ma se Vegliardo è un appellativo di Dio nella Bibbia di cui è ostinato e raffinato rabdomante...
Compie novant’anni oggi, Guido Ceronetti, vox clamans nel deserto, nella nostrana terra desolata. Li festeggia a Cetona, il ritiro, la spelonca, la culla da chissà quante stagioni. Via via identificandosi con «le piante più essenziali della regione», come le narrò Ottone Rosai: «... bitorsoluti e contorti come gli ulivi, secchi e irsuti come le viti, forti e sereni come le querce e i castani».
Questa sera, a Cetona, celebra con il Teatro dei Sensibili «novant’anni di solitudine». È così solo?
«In senso stretto, no. Ho avuto diverse compagne, e fedeli amicizie, e il teatro, ne ho fatto tanto, spesso in strada, incontrando l’Altro, gli Altri. Novant’anni di solitudine è un calembour che discende, va da sé, per li rami di García Márquez».
Il suo amico per eccellenza?
«Emile Cioran. Un dualista, una sentinella, un “sensitivo”, tra il Bene e il Male, di spessore mistico. Riteneva, come i miei carissimi Càtari, che la creazione sia frutto delle Tenebre. Ancorché gli appartenesse il Dio che può salvarci di Heidegger».
I Càtari che riconducono a una terra, il Chierese, a lei cara...
«I Càtari di Andezeno, dov’è la tomba di famiglia. E dove sarò sepolto. Ma non con i miei. Aspiro a una dimora privata».
La reincarnazione era un dogma della Chiesa càtara...
«Oh, no! Fuggo il pensiero di riapparire in questo blasfemo mondo».
Neanche una Luce? Infondata l’attesa del Messia?
«Ho raccolto le mie poesie attinenti al Messia. Escono in occasione del genetliaco. Certo, pensare messianicamente tratterrebbe la mente dal precipitare nell’incretinimento generale. Ecco: salvifica è la speranza cieca che il Messia verrà».
Quali le Luci, quali le sue Lanterne?
«Le Luci, le particelle di Luce che pure ci sono. Shakespeare e Dante sarebbero forse figli delle Tenebre? Ci assicurano che le Tenebre non trionferanno. Ma bisogna prima che questo mondo finisca».
Novant’anni a Cetona. Perché non celebrarli a Torino, dov’è nato?
«Torino è una città degradata, mi inocula tristezza. A Torino, a proposito, mi sento solo, incurabilmente solo».
In che cosa consiste la torinesità?
«Vi ho riflettuto, non saprei rispondere. Non sono un cittadino torinese. Non sono uno scrittore torinese. Sono uno scrittore italiano. Dov’è la lingua, è la patria».
C’è un luogo di Torino che le è particolarmente caro?
«Mah...».
Magari il cimitero di San Pietro in Vincoli, dov’era solito passeggiare?
«Ma non c’è più quel cimitero. Tra i luoghi che ho amato, c’è il Cottolengo. Sono un partigiano della compassione, come virtù delle virtù».
Quale scrittore torinese stima?
«L’unico che conosco e apprezzo è Cesare Pavese. Il suo Diario è un vertice del Novecento. Nessuna osservazione è sprecata».
Il mestiere di vivere. Raggiunta una veneranda età, può offrire un consiglio?
«Come stare in questo mondo? Di ottimismo non sono fornito. Beninteso, non invito a uccidersi... Si è soli, vae solis!».
C’è un libro che durante il passaggio terreno può venire in soccorso all’uomo viandante?
«Oh, sì! L’Ecclesiaste. C’è un tempo per tutto».
La Bibbia. Da lei, di libro in libro, tradotta. Un autentico corpo a corpo. Quale insegnamento ne ha ricavato?
«La Signoria della Parola. Alla radice della Parola. Andarvi è taumaturgico».
Le capitò di definire un vocabolario «monumento all’allibire». Quali vocaboli, tra i molti, incenerirebbe?
«Anglicismi a parte, “puzza” e “potta”, ad abundantiam nell’Aretino. Una volta, con un’amica, girovagammo su queste colline addirittura urlando lo scioglilingua: “Puzza che potta, potta che puzza”. Ma non ci sentirono, di sicuro non ci capirono».
Che cosa scorge nella corruzione della Parola?
«Annuncia la fine del mondo. Lo stravolgimento della Parola... Nei Vangeli gnostici si domanda a Gesù: quando verrà la fine? La risposta è inequivoca: quando la donna sarà resa maschio e i due diventeranno uno. La Babele linguistica, la Babele antropologica...».
La donna, «mistero senza fine bello», secondo Gozzano, Per lei?
«La donna è la porta dei sogni. Non dimenticando, certo, che sono donne le Parche...».
Noi e l’Islam. Che cosa accadrà?
«L’Islam. È attraverso il disfacimento della Parola che si capisce quanto va succedendo. Il jihad, come scintilla coranica. è lo Sforzo del credente verso la Perfezione. Un termine che, confiscato, depauperato, vilipeso il senso religioso, significa oggi semplicemente esercito...».
Quarant’anni fa moriva Carlo Casalegno. Che ricordo ne serba?
«A La Stampa fui chiamato da Alberto Ronchey, che, come me, non rinunciava alla siesta pomeridiana. Quanto desideravo, all’università, seguire le lezioni di Filosofia medievale di Mazzantini. Peccato che le tenesse alle 14, a quell’ora crollavo, crollo...».
Casalegno?
«Siamo diventati amici a poco a poco. Era, per me, il Direttore. Il curatore dei miei scritti. E fra gli spettatori appassionati dei miei spettacoli marionettistici».
Casalegno vittima del terroristi. Quale la radice del terrorismo?
«Il terrorismo è germinato all’interno del Pci, è insito nel suo albero genealogico, nella sua radice leninista, Lenin, il Robespierre russo».
Lei eLa Stampa. Nel giornale «azionista» di Bobbio, Galante Garrone & C. non ritiene di aver interpretato l’anima reazionaria?
«Una definizione non illegittima, vero, ma che non mi comprende. Reazionario perché nelle notti o veglie di Pietroburgo di De Maistre riconosco svariate affinità. Vade retro, prima di tutto, il Terrore della Rivoluzione francese».
Tra i suoi eteronimi quale predilige?
«Filosofo Ignoto. Riecheggiante il philosophe inconnu Louis Claude de Saint-Martin. Il martinismo è lo gnosticismo di un’epoca in cui fioriva il messianesimo del 1789, spazzato via dal 1793, dal Terrore».
A quando un Meridiano Ceronetti?
«Lo si immaginò, con Renata Colorni. Ma ero svogliato a farlo. Mi sembrava di trasformarmi in un postero, di chiudermi in un mausoleo».
C’è tempo, per sillabare con Montale, che «l’inferno è certo», e, raggiunta la riva acherontea, riconoscersi fra color che sanno di dantesca memoria. Un uovo, un pomodoro, il tè, un brodo, anche oggi, soprattutto oggi: così Ceronetti tiene a bada le disperazioni. L’Apocalisse invocata nei suoi versi («Bello fu il giorno e chiara la mattina / E la terra fu tutta una rovina») può attendere.
La Stampa 24.8.17
Benedetto Croce, il filosofo figlio del terremoto
Nelle Memorie della mia vita la tragedia del 1883 a Ischia che gli portò via la famiglia. E decise la sua vocazione
di Mario Baudino
«Nel luglio 1883 mi trovavo da pochi giorni, con mio padre, mia madre e mia sorella Maria, a Casamicciola, in una pensione chiamata Villa Verde nell’alto della città, quando la sera del 29 accadde il terribile tremoto», scrive Benedetto Croce in Memorie della mia vita. Appunti che sono stati adoprati e sostituiti dal Contributo alla critica di me stesso. È uno dei testi autobiografici che ebbero organica sistemazione nel Contributo, pubblicato fuori commercio nel 1918 e per il pubblico nel 1926. Casamicciola gli sterminò la famiglia e cambiò la sua vita. Aveva 17 anni. Fu estratto dalle macerie dopo una lunga notte di attesa, in una situazione drammaticamente analoga a quella dei tre bambini salvati l’altro giorno.
«Sepolto fino al collo»
Su quell’antica tragedia molto si favoleggiò. Per esempio, si disse - e si scrisse - che il padre, mentre agonizzava anche lui sepolto, gridò al figlio: «Offri centomila lire a chi ti salva». Se ne è riparlato due anni fa in occasione della morte di Lidia Croce, quando Roberto Saviano sembrò dar credito a questa versione: ne seguì una dura polemica con Marta Herling, figlia della scomparsa, e col Corriere del Mezzogiorno, ma è molto dubbio che la frase sia mai stata pronunciata. Il filosofo è tornato più volte su questo episodio decisivo per la sua vita anche intellettuale, senza mai far menzione di quelle parole.
«Ricordo - leggiamo sempre negli Appunti, alla data del 10 aprile 1902 - che si era finito di pranzare, e stavamo raccolti tutti in una stanza che dava sulla terrazza: mio padre scriveva una lettera, io leggevo di fronte a lui, mia madre e mia sorella discorrevano in un angolo l’una accanto all’altra, quando un rombo si udì cupo e prolungato, e nell’attimo stesso l’edifizio si sgretolò su di noi. Vidi in un baleno mio padre levarsi in piedi e mia sorella gettarsi nelle braccia di mia madre; io istintivamente sbalzai sulla terrazza, che mi si aprì sotto i piedi, e perdetti ogni coscienza».
Si risvegliò «a notte alta», «sepolto fino al collo», e dopo l’iniziale stordimento prese a invocare soccorso «per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce poco lontano; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi. Verso la mattina, fui cavato fuori da due soldati e steso su una barella all’aperto». Per Pasquale Croce non ci fu nulla da fare, e così per la madre Luigia Sipari e per la sorella del filosofo, Maria. «Furono rinvenuti - prosegue - solo nei giorni seguenti, morti sotto le macerie: mia sorella e mia madre abbracciate. Io m’ero rotto il braccio destro nel gomito, e fratturato in più punti il femore destro; ma risentivo poca o nessuna sofferenza, anzi come una certa consolazione di avere, in quel disastro, anche io ricevuto qualche danno: provavo come un rimorso di essermi salvato solo tra i miei, e l’idea di restare storpio o altrimenti offeso mi riusciva indifferente».
«Pensieri di suicidio»
L’idea del rimorso sarà una costante, destinata a crescere e accompagnarlo per tutta la vita. Nel Contributo alla critica di me stesso, dove il racconto torna più o meno con le stesse parole, questa angoscia si proietta su tutto l’arco della giovinezza: «Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio».
Croce non tornò mai più a Ischia. Ma nella sua opera il tema del «terreno traballante» diventerà una metafora importante per capire il mondo e la società. E proprio la tragedia giovanile che gli cambiò la vita influenzò di conseguenza la cultura italiana: perché il ragazzo diciassettenne, fino ad allora cresciuto in un’agiata famiglia di proprietari terrieri poco interessata ai grandi temi della politica e della società, fu accolto a Roma (col fratello Alfonso) nella casa dello zio Silvio Spaventa, un grande crocevia intellettuale; qui nacquero gli stimoli che ne fecero il più influente filosofo del nostro Novecento.
Nel Contributo Benedetto Croce riconosce alla madre di averlo stimolato allo studio della letteratura e della storia, ma aggiunge che mancava nella sua famiglia «qualsiasi risonanza di vita pubblica e politica». La storia non si fa con i se, ma chissà che ne sarebbe stato di lui - e in fondo, di noi - senza la tragedia di Casamicciola.
Corriere 24.8.17
Céline e le lettere bruciate
di Paolo Di Stefano
Non solo Elizabeth Craig, la giovane amante americana di Louis-Ferdinand Céline, era una ballerina, lo erano la giramondo danese Karen-Marie Jensen e la moglie Lucette Almansor. All’origine della letteratura di Louis-Ferdinand Céline c’è una ballerina, scrive Elio Nasuelli nella postfazione alle lettere inviate dallo scrittore francese alla Craig (Archinto). Ma il corpo danzante è soprattutto una figura in movimento che ispira la scrittura magmatica di Céline. L’incontro del medico e futuro scrittore con la ventiquattrenne Elizabeth avviene nel 1926 in una libreria di Ginevra: la giovane è arrivata a Parigi da Los Angeles con i genitori per completare gli studi di danza. Sarebbe stata compagna e musa nella fase iniziale della carriera letteraria di Céline quando ancora Céline si chiamava Destouches, aveva trentadue anni e alle spalle la povertà dell’infanzia, le gravi ferite (non solo fisiche) della guerra, l’Africa, la malaria, una laurea, due matrimoni, la figlia Colette, le missioni oltreoceano negli Stati Uniti, in Canada, a Cuba, come inviato della Società delle Nazioni.
Sarà Elizabeth la dedicataria del Viaggio al termine della notte, il romanzo d’esordio che lei ha visto nascere.
Trance creativa
Non c’è stato amore altrettanto contorto, se si escludono gli altri amori céliniani. Edith Follet, la seconda moglie del dottor Destouches, è rimasta in Bretagna: nel 1927, Céline è disoccupato perché la Società non gli rinnova il contratto. Decide dunque di rientrare in Francia e si stabilisce a Clichy, per poi trasferirsi a Parigi, in via Lepic, dove farà il medico dei poveri e lavorerà quasi in stato di trance alla sua prima opera. Elizabeth ignora le (ragionevoli) preoccupazioni dei genitori e dopo un po’ lo segue. Vivranno per lo più insieme, tra «felicità e sesso», fino al giugno ‘33, e se saranno lontani si scriveranno lettere d’amore esaltate e strazianti. Altre ne scriverà lui dopo la rottura e il ritorno di Elizabeth negli Usa: nell’estate ‘34 lo scrittore si mette sulle sue tracce in California per tentare di riconquistarla, ma la trova fidanzata con l’agente immobiliare ebreo Benjamin Tankle, legame che secondo qualcuno sarebbe all’origine dell’antisemitismo di Céline. «Giorni atroci, non raccontabili, nemmeno da me che pure… Un dramma atroce, così basso, così infetto, così degradante…». Con la sua incoercibile tendenza all’iperbole, dirà a un amico di aver trovato Elizabeth «in condizioni di semidemenza…, un incubo abominevole».
Inglese imperfetto
Fatto sta che le lettere all’«Imperatrice», al «Tesoro», alla «Scoiattolina», centinaia, verranno bruciate, fotografie comprese, dalla destinataria dopo il matrimonio con Ben, avvenuto nel 1939. Solo cinque lettere, scritte in un inglese goffo e imperfetto, sono sopravvissute al fuoco, insieme a un paio di fotografie che ritraggono la coppia in montagna sugli sci: erano state riposte in un cofanetto di gioielli e dimenticate lì. Elizabeth, nel frattempo caduta nell’oblio, per raccogliere la testimonianza della musa di un capolavoro del Novecento come il Viaggio, mezzo secolo dopo viene raggiunta e intervistata dallo studente universitario Alphonse Juilland. Domanda scandalizzata: «Lei ha bruciato le lettere?!?». Risposta olimpica: «Sì, ero sposata, e ogni volta che le guardavo pensavo… di essere perfida conservandole segretamente. Le tenevo in un sacchetto che Ben mi aveva regalato quando ci eravamo sposati, una piccola borsa ricamata, e mi sentivo in colpa». Destino ricorrente: anche le lettere a Edith erano state bruciate dalla destinataria, per disperazione e per ripicca. Elizabeth non aveva mai parlato di quell’amore a suo marito e voleva che nessuno sapesse: l’ultima lettera di Céline la bruciò senza neanche aprirla. Tre delle epistole sopravvissute furono scritte a Parigi, nel dicembre 1926, mentre lei si trovava a Ginevra. Le altre due da Ginevra mentre lei si trovava a Parigi.
La tenerezza
Elizabeth ricordava quel periodo come un tempo felice, specie quello parigino, aperitivi sulla Rive gauche, gli amici, le Folies-Bergère, gli spettacoli di balletto, i cabaret degli Champs Elysées… E il lavoro ossessivo di Louis sulle carte, chiuso nel suo studio inaccessibile. «Se mi lasci sono perduto», le dice lui. Tutte le lettere si chiudono con parole di tenerezza: «Ti amo tanto tanto», «Ti amo ti amo», «Amore amore amore», «Il tuo affezionatissimo – Amore». Parlano di denaro, di progetti anche banali: «Se me la caverò con i soldi della Società potremmo metterci insieme i tuoi genitori e io e comperarti una pelliccia». Parlano della sporcizia gelata dell’albergo in cui doveva vivere, del tentativo di proporre una commedia a un impresario teatrale, «molto pratico, molto sensuale, estremamente presuntuoso — e pigro — un tipetto infido direi — asiatico in questo». Ci sono invocazioni disperate e insieme ridicole: «Non abusare della tua libertà! Non devi fumare o bere piccola mia». E qualche slancio vitalistico: «Per questo devi trovare qualcosa di eccitante e anch’io, mio Dio! Ho voglia di essere eccitato. Fai eccitare il tuo vecchio amico — non necessariamente sesso — giusto dei giochetti che dopo tutto sono molto più divertenti».
Corriere 24.8.17
Cechov cronista dell’orrore
Il viaggio dello scrittore in Siberia e il resoconto fedele delle atroci condizioni dei prigionieri sotto lo zar
di Corrado Stajano
Come mai Anton Cechov decise nel 1890 di partire per l’isola di Sachalin, in Siberia, dove gli zar avevano istituito la mortale colonia penale, la Katorga ? Vi rimase nove mesi, dall’aprile al dicembre, vide tutto quanto poté vedere con una minuzia, spesso ossessiva, testimone di un altro mondo, il mondo colto e civile. Nato trent’anni prima, laureato in Medicina, fu forse spinto al viaggio dalla polemica sull’indifferenza degli intellettuali nei confronti dei problemi sociali che inquietavano la Russia. O il suo fu un tentativo di scrivere un saggio utile per tentar di entrare come docente nella facoltà di Medicina dell’università?
Era già noto come autore di raccontini umoristici che piacevano molto e di operine teatrali. La medicina, diceva, era la sua moglie legittima, la letteratura l’amante. Per fortuna ebbe partita vinta l’amante, i suoi racconti, le sue commedie sono classici i cui temi, la vita, la morte, la delusione, la malinconia, la speranza di un’età migliore, il dolore, la guerra, l’angoscia, il taedium vitae appartengono anche al nostro tempo.
Adelphi ha ripubblicato L’isola di Sachalin , a cura della slavista Valentina Parisi il cui scritto, prezioso e indispensabile, fa da guida al libro di contemporaneità dolorosa.
Cechov non urla moralisticamente il suo sdegno, vuol solo rendersi conto delle sopraffazioni e delle nequizie di una falsa giustizia, racconta e il suo giudizio nasce solo dai fatti. Stringono il cuore le sue pagine, anche le più fredde e controllate. Non trascura nulla, il libro è una mescolanza di generi — narrazione soprattutto, inchiesta, diario — nutrito di fonti inusuali, cronache giudiziarie, referti medici, statistiche, ordinanze governative, bollettini meteorologici.
È ben cosciente, Cechov, di quel che vede. In una lettera al suo editore Aleksej Suvorin, riportata da Valentina Parisi, scrive: «Sachalin è il luogo delle più intollerabili sofferenze che possa sopportare l’uomo, libero o prigioniero che sia (...). Abbiamo fatto marcire in prigione milioni di uomini, li abbiamo fatti marcire invano, senza criterio, barbaramente; abbiamo obbligato la gente a percorrere migliaia di verste al freddo, in catene, l’abbiamo corrotta, abbiamo moltiplicato i delinquenti».
(E pensare che il grande scrittore spesso non ebbe consapevolezza dell’essenza e dei significati delle sue opere. Quando — raccontò il suo regista, Konstantin Stanislavskij — alla fine della lettura delle Tre sorelle (1900) gli attori, turbati, inquieti, piansero commossi, Cechov si arrabbiò moltissimo: pensava di aver scritto un vaudeville e gli attori lo prendevano per un dramma).
Nei mesi prima della partenza per Sachalin studiò come un dannato non soltanto la questione carceraria e le pratiche dell’amministrazione, ma raccolse dati sulla geografia, le scienze naturali, il suolo, il mare, i venti, e sulle condizioni igienico-sanitarie in cui vivevano i deportati. Un’attrice dei teatri imperiali, Kleopatra Karatygina, che conosceva bene la Siberia dove si era a lungo esibita, gli diede molte informazioni sugli usi e costumi dell’isola e sui suoi non comuni abitanti, gli consigliò anche un itinerario. Lo scrittore ne scelse un altro: da Mosca a Nikolaevsk passando per Kazan, Ekaterinburg, Tomsk, Irkutsk e Chabarovsk, imbarcandosi al ritorno sul piroscafo «Bajkal» che da Vladivostok arriverà a Odessa. Non era gradito alle autorità, non gli furono concessi permessi scritti, i funzionari della Direzione penitenziaria avevano l’ordine di impedirgli ogni contatto con i prigionieri politici confinati sull’isola. Non si sa se sia accaduto. Ma i suoi occhi acuti e la sua intelligenza riuscirono a sopperire a intralci e divieti.
Le stazioni di posta, il paesaggio e la sua grandiosità, la foresta — la taiga —, i fiumi, gli animali, gli orsi, i lupi, gli zibellini, i cervi, le capre selvatiche popolano le pagine del viaggio che è anche un racconto, un romanzo d’avventura.
Gli uomini, poi. Cechov parla con tutti, i vetturini, i cosacchi, i servi della gleba, i coloni, i contadini, gli ex esiliati, i medici, i galeotti: «Sotto le finestre aperte affacciate sulla strada sfilavano a passo cadenzato e senza fretta i deportati con i ceppi ai piedi; nella caserma di fronte la banda militare provava e riprovava le sue marce in previsione della visita del governatore generale».
Gira di villaggio in villaggio, tra curiosità e dovere della ricerca, entra nelle izbe, rozzi parallelepipedi di legno col tetto di paglia: una stanza sola, una stufa alla russa, un tavolo, un letto o un semplice bivacco per terra. Manca ogni traccia del passato, manca l’angolo delle icone. I detenuti della prigione di Aleksandrovsk non sono incatenati ai ceppi, di giorno possono stare fuori dal carcere, vestono come vogliono. Ma poi c’è la «baracca degli incatenati», laceri, sporchi, con i ceppi ai piedi, le manette ai polsi. La terribile povertà è difficile da nascondere. La miseria fa fiorire ogni nefandezza, l’usura, il ricatto, la violenza, il gioco d’azzardo, la corruzione. Cechov consulta i registri locali e parrocchiali, fa indigestione di numeri, il suo libro è una summa di varia umanità: «Per la strada s’incontrano contadine che per ripararsi dalla pioggia si sono legate intorno al capo grosse foglie di bardana e sembrano scarabei verdi».
Qualche volta non si trattiene, si indigna, nella prigione di Voevodsk, per esempio, scandalosa, esterrefatto nel vedere i detenuti legati mani e piedi a carriole da catene che impediscono ogni movimento. Le frustate e la carriola salvano qualche volta i derelitti dalla pena di morte.
«Al colpevole si infliggono quasi sempre trenta o cento bastonate. Il numero non dipende dal reato, bensì da chi ha disposto la punizione, se il capo circondario o il direttore della prigione: il primo ha il potere di affibbiare cento colpi, il secondo può arrivare solo a trenta». La giustizia degli zar.
Gli ultimi capitoli del libro, vietati dalla censura dell’epoca, sono neri come la pece. Cechov descrive una fustigazione, tra le grida del compiaciuto direttore del carcere: «Quarantadue! Quarantatré! A novanta manca un bel po’ (...). La parte colpita dalle frustate è blu e scarlatta per le ecchimosi e sanguina».
Cechov racconta anche come avviene la cerimonia dell’impiccagione, il lenzuolo funebre fatto indossare al condannato, la preghiera dei moribondi. Qualcuno, teatralmente, viene graziato all’ultimo minuto lasciando scontento il boia.
Cechov non si risparmia nulla. E per contrasto, leggendo questo libro senza tempo, vengono in mente — la morte e la vita, la ferocia e la dolcezza — le Tre sorelle , con Olga che nell’ultima scena abbraccia Irina e Maša. «Oh, sorelle care, non è finita, la nostra vita! Vivremo! La banda suona allegra, festosa e sembra che da un momento all’altro sapremo perché viviamo, perché soffriamo... Poterlo sapere, poterlo sapere!».
Corriere 24.8.17
Il Pontormo (segreto) svelato dal restauro Online le immagini
Artista innovativo per la sua epoca, Jacopo da Pontormo (nato Jacopo Carucci, 1494-1557) è passato alla storia per aver creato uno dei capolavori del Rinascimento fiorentino: la Deposizione . L’opera (1526-1528), realizzata per la Cappella Capponi nella chiesa di Santa Felicita a Firenze, è stata recentemente sottoposta a un restauro che ha svelato la tecnica «segreta» utilizzata dall’artista per realizzarne i colori: la tempera a uovo. Alcuni scatti dell’intervento di recupero sono raccolti online su corriere.it/lalettura in un percorso per immagini a cura di Jessica Chia . Su «la Lettura» in edicola fino a sabato, Iacopo Gori racconta il restauro dell’opera e la mostra che la ospiterà a Palazzo Strozzi (21 settembre-21 gennaio), Il Cinquecento a Firenze. Tra Michelangelo, Pontormo e Giambologna .
Corriere 24.8.17
La teoria geniale bocciata da Einstein
di Stefano Gattei
«È piuttosto facile fare una teoria scientifica a parole», rispondeva Richard Feynman al termine di una delle sue celebri lezioni di fisica, nel 1961. Si potrebbe dire lo stesso per la divulgazione di una teoria scientifica, in particolare della meccanica dei quanti, che insieme alla relatività costituisce una delle più profonde e complesse conquiste teoriche del Novecento.
Nata ufficialmente il 14 dicembre 1900, quando Max Planck utilizzò per la prima volta la parola «quanto» per spiegare lo spettro della radiazione di corpo nero, nei decenni successivi la meccanica quantistica è riuscita a descrivere con successo il comportamento della materia e della radiazione elettromagnetica, a scale di lunghezza inferiori o dell’ordine di quelle dell’atomo, o a energie nella scala delle interazioni interatomiche. Nonostante i dubbi di molti — a partire da Einstein, che nel 1905, con la descrizione dell’effetto fotoelettrico, aveva dato un contributo fondamentale alla nascita della teoria, ma si oppose strenuamente all’«interpretazione di Copenaghen» — la nuova fisica si è dimostrata nel tempo uno strumento potente e insostituibile, motore di un progresso tecnologico senza precedenti.
Sorprendente, paradossale, spesso controintuitiva, la teoria dei quanti — anche per la sua innegabile difficoltà — costituisce da sempre un ostacolo pressoché insormontabile per i non addetti ai lavori che vogliono averne una conoscenza non superficiale. Molti sono stati i tentativi di renderla accessibile, ma i manuali «introduttivi» peccano a volte di eccessivo tecnicismo, oppure scivolano all’estremo opposto, coprendo di troppe parole una teoria che non può prescindere da una comprensione rigorosa dei suoi concetti di base.
In Guarda caso. I meccanismi segreti del mondo quantistico (Hoepli), Giorgio Chinnici presenta con chiarezza la meccanica dei quanti, spiegandone le applicazioni e introducendo il lettore alle sue interpretazioni filosofiche. Come già nel suo precedente volume sulla figura e l’opera di Alan Turing (2016), Chinnici riesce al meglio nel compito di coniugare semplicità e precisione, in un libro che si presenta gradevole tanto per il lettore interessato, ma non professionista, quanto per chi della teoria vuole avvicinare interpretazioni e risvolti filosofici. Perché la scienza, per riprendere ancora una volta le parole di Feynman, «non è affare dei singoli specialisti, ma ha valenza universale».
Repubblica 24.8.17
Lo studio ha analizzato quattro osservazioni, che in due anni non sono affatto poche, per dedurre alcuni dati su questi corpi celesti. È una rivoluzione per l’astronomia
L’occhio delle onde gravitazionali vede per la prima volta i buchi neri
di Elena Dusi
ROMA. Trovandosi per la prima volta di fronte a un buco nero, sono tante le domande che uno scienziato vorrebbe fargli. Curiosamente, il primo aspetto svelato da quel “nuovo occhio” dell’astronomia che sono le onde gravitazionali - l’unico metodo, finora, capace di rivelare in modo diretto l’esistenza di questi misteriosi abitanti del cosmo - riguarda la vita sentimentale dei buchi neri.
«Esiste una categoria di buchi neri che vive in coppia. Ruotando l’uno attorno all’altro, i due oggetti a volte finiscono per scontrarsi » spiega Alberto Vecchio, laurea in fisica a Pavia, oggi all’università di Birmingham. In questo caso avviene un cataclisma capace di scuotere i pilastri dell’universo. E di generare onde gravitazionali.
Teorizzate da Einstein un secolo fa, le onde gravitazionali sono state osservate per la prima volta solo nel 2015, grazie a uno strumento che si chiama antenna gravitazionale, si trova negli Stati Uniti e ha il nome di battesimo di Ligo. Smaltito l’entusiasmo per la scoperta, da un anno e mezzo gli scienziati sono al lavoro per estrarre più informazioni possibili da segnali che arrivano da miliardi di anni luce di distanza e durano una frazione di secondo. «Due sono le ipotesi» spiega Vecchio. «I due buchi neri possono essere nati insieme, un po’ come una coppia che si è conosciuta al liceo ed è rimasta insieme tutta la vita. Oppure potrebbero essersi formati indipendentemente l’uno dall’altro in una zona dell’universo molto densa di stelle. L’ambiente dinamico gli avrebbe permesso di avvicinarsi. A un certo punto della loro vita si sarebbero incontrati per poi morire insieme. Al momento, se i buchi neri ruotano rapidamente, propendiamo per la seconda ipotesi, ma siamo nelle fasi iniziali dell’indagine. L’uso delle onde gravitazionali per capire i fenomeni del cosmo è ai primordi».
Lo studio sui buchi neri, scritto da un gruppo di fisici di Birmingham e uscito su Nature, si basa sull’osservazione di quattro segnali di onde gravitazionali (uno dei quali molto debole) registrati tra settembre 2015 e gennaio 2017. Per avere una risposta più definita sull’origine di questi oggetti (che rappresentano la fase finale della vita di alcune stelle) e sul perché in alcuni casi decidano di vivere in coppia, i ricercatori avrebbero bisogno di almeno una decina di segnali.
Ma anche così, il passo avanti è enorme. «Fino a ieri avevamo solo prove indirette dell’esistenza dei buchi neri» spiega Vecchio. «Ne osserviamo ad esempio gli effetti sul moto delle stelle sfruttando le stesse leggi di Newton che gli astronomi dei secoli scorsi usarono per scoprire i pianeti del sistema solare. Oppure captiamo i raggi X emessi dalla materia che sta per essere inghiottita ». Applicando la relatività di Einstein ci si era anche divertiti a immaginare cosa sarebbe successo a un uomo tanto imprudente da avvicinarsi a un buco nero, finendo stirato per i piedi da questa sorta di aspirapolvere cosmico. «Ma oggi, per la prima volta, abbiamo osservato in maniera diretta il segnale emesso dal buco nero» sintetizza Vecchio. «E crediamo di essere solo al primo passo di un lungo percorso di esplorazione».
Le quattro osservazioni di Ligo, infatti, riguardano una classe particolare di buchi neri: quelli grandi decine di volte come Sole e disposti in sistemi binari. «Abbiamo calcolato che le loro collisioni, in ogni angolo nell’universo, si susseguono al ritmo di una ogni quarto d’ora». Ma esistono anche altri tipi di buchi neri (al centro della nostra galassia ce n’è uno grande come 2,5 milioni di Soli) e di fenomeni che possono emettere onde gravitazionali, come le stelle di neutroni o le esplosioni di supernove. Ligo, che per la sua complessità funziona a singhiozzo ed è costretta a continue ricalibrazioni, nel suo periodo operativo ha individuato in media un’onda gravitazionale al mese. Attualmente è in funzione anche la gemella italiana, l’antenna gravitazionale dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare Virgo, che si trova a Càscina (Pisa). «Ora lavoriamo in contemporanea con Ligo» spiega il coordinatore di Virgo, Fulvio Ricci. «Facendo osservazioni insieme possiamo individuare anche la direzione di provenienza dell’onda in cielo». No comment è la replica di Ricci alla notizia diffusa su Twitter da uno scienziato dell’università del Texas e ripresa da New Scientist. Per la prima volta sarebbe stata catturata un’onda di tipo nuovo, emessa da stelle di neutroni. «Aggiorniamoci al 25 agosto per un comunicato » si limitano a dire da Ligo.
Repubblica 24.8.17
Abbiamo aperto la nuova finestra sull’universo
di Amedeo Balbi
QUANDO all’inizio del 2016 la collaborazione Ligo ha annunciato di aver rivelato per la prima volta l’esistenza delle onde gravitazionali, uno dei commenti più diffusi è stato che questa scoperta apriva una nuova finestra sull’universo.
Per rendersi conto che le cose stanno proprio così basta guardare l’ultimo numero di Nature. L’articolo di copertina, infatti, è un esempio di quello che si può fare – e si farà sempre meglio in futuro – osservando le onde gravitazionali.
Per mettere le cose nel contesto, diciamo intanto che, prima della scoperta di Ligo, nessuno aveva mai osservato la collisione tra due buchi neri: averli colti sul fatto, captando lo scossone nello spazio-tempo prodotto dallo scontro, è già un risultato sensazionale.
Adesso, dopo appena un paio di anni, abbiamo già osservato non uno, ma probabilmente quattro collisioni di questo tipo. Lo studio pubblicato su Nature ci mostra cosa possiamo capire da questi eventi ripetuti. Immaginiamo due buchi neri come due trottole che, oltre a ruotare l’uno attorno all’altra, ruotano anche sul proprio asse e che, a un certo punto, cozzano tra loro. Analizzando le onde gravitazionali prodotte nello scontro, è possibile capire se l’asse attorno a cui ruotava ciascun buco nero era allineato nella stessa direzione oppure no. Questo, a sua volta, può dirci qualcosa sulla provenienza dei due buchi neri. Se, come crediamo, buchi neri di questo tipo si formano alla morte di stelle molto massicce, le possibilità sono due: o le stelle ruotavano appaiate anche prima di diventare buchi neri, oppure si sono incontrate e accoppiate in seguito. Nel primo caso, i loro assi di rotazione saranno allineati, mentre nel secondo avranno più probabilmente direzioni casuali. Secondo lo studio di Nature, le quattro collisioni osservate finora sembrano far propendere per il secondo scenario.
Certo, quattro eventi non sono molti per trarre conclusioni solide, ma gli autori aggiungono che basteranno dieci eventi simili per avere le idee più chiare. Vista la frequenza con cui Ligo sta osservando nuovi segnali (e visto che presto gli farà compagnia l’antenna Virgo, inaugurata all’inizio dell’anno vicino Pisa), non ci vorrà molto per raggiungere il traguardo.
(L’autore è astrofisico all’università di Tor Vergata a Roma)
Repubblica 24.8.17
Nel memoir scritto dalla moglie la tragedia dei coniugi Margolius, vittime della ferocia del Partito comunista
Praga, anni ’50 le vite spezzate di Heda e Rudolf
di Pietro Citati
Nel 1945 in Cecoslovacchia molti diventarono comunisti, come racconta Heda Margolius Kovály in un bellissimo libro ( Sotto una stella crudele, Adelphi, pagg. 216, euro 20), per una profonda disperazione nella natura umana. Il Partito comunista divenne l’ideale assoluto. Non era, in nessun modo, l’ideale. Nel partito erano entrati collaborazionisti, truffatori, burocrati. Le onnipotenti portinaie diventarono la spina dorsale del Partito: spiavano, ricattavano, come segretarie delle cellule. I comunisti sostenevano che gli ideali della Repubblica cecoslovacca prima della guerra, gli ideali democratici e umanistici, erano un’illusione senza fondamento.
Nel febbraio 1948, avvenne il colpo di stato comunista. Heda Kovály ebbe la sensazione di brancolare nel buio: un buio doppiamente angoscioso, perché abitava fuori di lei e dentro di lei. I confini vennero chiusi. Cominciò uno spietato processo di collettivizzazione, che provocò danni gravissimi all’agricoltura. La voce di Klement Gottwald tuonava dagli altoparlanti. La polizia politica irrompeva nelle case, arrestando bottegai e droghieri, i quali venivano rinchiusi in carcere, senza sapere di cosa venissero accusati. Calò la cortina di ferro. Il modello di stato era l’Unione sovietica. I giornali dichiararono che la lotta di classe si era intensificata: ma non c’era nulla da temere, perché il Partito vegliava. Come in Unione sovietica, gli arrestati dalla polizia confessavano quasi sempre, sebbene innocenti. Il sospetto si diffuse; nessuno si fidava più di nessuno, perché il nemico — si diceva — era anche dentro il Partito. Circa cinquantamila cecoslovacchi finirono in carcere. Un mese dopo il colpo di stato, il cadavere del ministro degli Esteri, Jan Masaryk, venne trovato sul selciato sotto
Anche dopo i primi arresti lui rimase fedele al sistema
le finestre del ministero. Il governo annunciò che si era suicidato per un attacco di depressione. Era falso. Heda Kovály non si iscrisse al Partito. Non le era mai piaciuto marciare a ranghi serrati: non amava gli appelli e le folle, gli slogan urlati, la parola “massa”. Trovò lavoro, come grafica, in una piccola casa editrice. Il marito, Rudolf Margolius, lavorava all’Istituto per lo Sviluppo industriale: era così preso dal suo lavoro che tornava a casa la sera tardi, rimanendo a leggere fino a notte inoltrata. Studiava economia. Seguiva un programma a favore di Israele, che si interruppe presto. Tutto, attorno a lui, era Segreto e Segretissimo. Diventò vice-ministro responsabile del Commercio con l’occidente. Era comunista, ma senza fanatismi: convinto che presto gli arrestati dalla polizia sarebbero tornati a casa. Ciò non avvenne. Diede le dimissioni, che non furono accettate. La notte camminava su e giù per la casa, mentre la moglie stava a letto, senza riuscire a dormire, con gli occhi spalancati nel buio.
L’anniversario del colpo di stato, il Febbraio Vittorioso, veniva festeggiato ogni anno. Nel 1950 anche Heda Kovály fu invitata, insieme al marito, nel Castello di Praga. La moglie del presidente, Marta Gottwaldová, vestita di uno splendido abito verde con strascico, avanzava tra due file ossequiose. Klement Gottwald entrò barcollando, sostenuto dal presidente dell’Assemblea nazionale: si avvicinò alla Kovály e farfugliò: «Cos’ha? Non sta bevendo. Perché non beve?». Quel viso paonazzo, quegli occhi spenti affogati nel grasso, quel balbettio roco le ricordarono le acclamazioni della gioventù comunista: «Noi siamo il futuro della nostra nazione: di Gottwald noi siamo la generazione». Ora quest’uomo, la speranza del 1945, uccideva la disperazione e la paura nell’alcol.
Nel novembre 1951, Rudolf Slánsky, il segretario del Partito, venne arrestato. La polizia segreta, ora chiamata Sicurezza di Stato, si scatenò. Ma Rudolf Margolius, il quale non conosceva Slánsky, era sempre convinto che si trattasse di una crisi passeggera. «Se tutto è una truffa — disse con innocenza alla moglie —, allora sono stato complice di un crimine orribile. E se dovessi convincermi di questo, non potrei più vivere, e nemmeno lo vorrei». Una sera, all’inizio del 1952, alla porta dei Margolius bussarono cinque uomini, uno dei quali aveva in mano la valigetta di Rudolf. Il capo dei cinque salutò la Kovály con esagerata gentilezza, annunciando che il marito era stato arrestato. Perquisirono a fondo la casa: aprirono cassetti e armadi, esaminarono uno per uno centinaia di libri, guardarono le scarpe e gli oggetti da toeletta: lessero le lettere private e ne confiscarono un paio; consultarono il diario dove la Kovály aveva annotato l’altezza e il peso del figlio, scambiando questi numeri innocenti per le cifre di un codice segreto.
La mattina dopo, la Kovály telefonò ai ministri e ai funzionari suoi amici. Nessuno dei colleghi del marito volle parlare con lei. Ormai era una lebbrosa, evitata da tutti: l’incontro più casuale poteva suscitare sospetti. La Sicurezza di Stato controllò tutti quelli che conosceva: alcuni furono interrogati brutalmente. Nella casa editrice nessuno le diceva una parola: ogni volta che entrava in una stanza, le conversazioni si interrompevano, le facce impietrivano. Infine si licenziò. Di notte continuava a scrivere ostinatamente ai ministri, al comitato centrale, al presidente della Repubblica, al primo ministro, a tutte le persone influenti che conosceva. Non ricevette risposta. Seppe soltanto che il dossier del marito era contrassegnato con la lettera S. La S. stava per “caso Slánsky”.
Il 20 novembre 1952, tutti i giornali portavano scritto: Il processo per il complotto antistatale
Quando presero suo marito tutti smisero di parlare con lei
di Rudolf Slánsky. Gli imputati erano quattordici, tra cui Rudolf Margolius, accusato di “sabotaggio”, “spionaggio”, “tradimento”, e di essere ebreo. Gli imputati si accusarono di tutti i crimini, inventando colpe immaginarie. Venne pubblicata la lettera del figlio di un accusato, Ludvík Frejka. Diceva: «Esigo che a mio padre venga inflitta la pena più severa, la condanna a morte. Voglio che questa lettera gli sia recapitata». Dopo quasi un anno, la Kovály sentì la voce di Rudolf alla radio. Come un robot, stava recitando un discorso a memoria. Confessava una menzogna dopo l’altra: si era iscritto al Partito per tradirlo: aveva dedicato tutte le proprie energie allo spionaggio e al sabotaggio: era al servizio degli imperialisti: aveva organizzato un complotto contro la Repubblica Ceca; durante la guerra, a Londra, era stato addestrato come spia.
Il processo durò appena una settimana. La notte del 27 novembre, dall’apparecchio radio, una voce inondò la stanza della Kovály dal pavimento al soffitto: «Nel processo per il complotto antistatale, Rudolf Slánsky pena di morte: Rudolf Margolius pena di morte». La sera del 2 dicembre la Kovály vide il marito, che le disse: «Avevo paura che tu non venissi». Tornò a casa: prima dell’alba si addormentò per qualche minuto, proprio nel momento — seppe più tardi — in cui Rudolf morì senza dire una parola. Dopo la morte del marito, la Kovály passò settimane distesa sul letto. Quando usciva di casa, vestita a lutto, era seguita lungo i marciapiedi da sguardi di disprezzo. Due anni dopo ricevette il certificato di morte: «Occupazione del defunto: viceministro; causa della morte; asfissia per impiccagione». Nell’aprile 1963, sette anni dopo il discorso di Nikita Chruscëv, avvenne il grottesco capovolgimento. Il comitato centrale del Partito comunista cecoslovacco decretò che «l’innocenza di Rudolf Margolius è stata stabilita senza ombra di dubbio».
Repubblica 24.8.17
La lunga notte della ragione che cancellò l’idea della tolleranza religiosa
di Lucio Villari
Il 24 agosto del 1572 la Francia fu insanguinata dal massacro di San Bartolomeo contro la popolazione ugonotta. Una ferita sanata solo dopo la Rivoluzione
Il sogno svanì in una notte di fine estate del 1572.
A quel tempo Montaigne, nel suo castello, aveva iniziato gli Essays e nel cielo poetico della Francia splendeva la Pléiade, la costellazione di Ronsard e dei suoi sei amici, unita nel segno del verso alessandrino e del linguaggio libero, aperto ai diversi generi letterari e ai grandi sentimenti. Il sogno era quello di una Francia pacifica, tollerante, dove cattolici e protestanti, come già stava avvenendo, potessero continuare a convivere; dove i problemi dinastici tra i Valois al potere e gli incombenti Borbone e le rivalità tra famiglie nobili, soprattutto i cattolici Guisa e i protestanti Condé, si potessero placare. Dove le striscianti lotte di classe potessero non esplodere.
Ma era un sogno avvelenato. Dal 1562 la Francia viveva una “guerra civile”: improvvise e spietate guerra di religione che avrebbero avuto una tregua soltanto 36 anni dopo, con l’Editto di Nantes (1598) che prometteva il rispetto reciproco tra le fedi.
I cieli d’Europa non erano però meno tempestosi di quelli francesi. Il Concilio di Trento, terminato da pochi anni, seminava ovunque odio, anatemi all’eresia luterana e calvinista, repressioni, inquisizioni, Indici di libri e di pensieri proibiti. Nel 1571 una Lega cattolica voluta dal Papa, da Venezia e dalla Spagna, aveva sconfitto a Lepanto il nemico di sempre: i Turchi. Pochi mesi dopo, a Parigi, dove in un clima di apparente concordia erano convenuti cattolici e protestanti per festeggiare il matrimonio di Margherita di Valois con Enrico di Navarra, una follia collettiva, un complotto feroce ordito dal fratello di Margherita, re Carlo IX, e dalla madre Caterina de’ Medici, bigotta e spietata, si scatenò nella notte tra il 23 e il 24 agosto dell’anno successivo.
L’ordine del re era di uccidere nel sonno tutti gli ugonotti residenti a Parigi e in altre città. Ugonotti era il nome dei protestanti, perlopiù calvinisti che negli anni ’60 del secolo, sotto il re Francesco II, rappresentavano in Francia una forza politica e culturale molto influente anche a corte. Fu una “soluzione finale” che doveva estirpare per sempre dal suolo cattolico della Francia l’erba cattiva dell’eresia. «Uccideteli tutti» aveva detto il re, senza risparmiare i bambini, per evitare che qualche seme di quell’erba potesse sfuggire allo sterminio.
Fu questa “la notte di San Bartolomeo”. Bande di fanatici assassini sorpresero nei loro letti migliaia di uomini donne e bambini massacrandoli senza pietà. L’ammiraglio Coligny, leader carismatico degli ugonotti e forte personalità politica, fu pugnalato nel suo letto, buttato dalla finestra e fatto a pezzi sul selciato.
I versi di un poeta e il resoconto di un italiano che viveva a Parigi, sono la sola testimonianza, quasi in diretta, di quanto avvenne quella notte. L’italiano si chiamava Filippo Sassetti, lavorava come spia degli inglesi, e il suo accurato rapporto di pochi giorni dopo l’accaduto — sotto forma di una lettera a un amico e intitolato Brieve raccontamento del gran macello fatto nella città di Parigi il vigesimo quarto giorno di agosto d’ordine di Carlo nono di Francia — riporta: «Furono usate crudeltà grandissime contra le donne e i fanciulli, onde erano senza riguardo alcuno uccise, quantunque molte di loro fossero gravide. Un orafo si vantò d’averne con le sue proprie mani scannate più di 400 d’ogni sesso e qualità. Un prete nomato Potrì n’uccise più di 500, come mi è stato affermato; e un altro ha detto a me averne morti nel suo quartiere 700 con le sue mani …».
I versi sono di Agrippa d’Aubigné: Les tragiques: un poema cui d’Aubigné diede il respiro di un racconto biblico, con ampi riferimenti alle Scritture. L’opera fu lungamente elaborata (sarebbe stata pubblicata nel 1616) ma la descrizione di quella notte resta come una vivida, potente protesta: «(La Francia) vide e soffrì in sé la plebaglia armata / schiacciare la giustizia sfigurata ai suoi piedi. Le orde corazzate delle bestie infuriate / gli squadroni degli operai abietti / tremila vite straziano preziose […]».
Le sue parole tracciavano un affresco, storico, teologico e politico, sulla strage, sulla Francia del tempo e su un sogno che andò perduto fino alla rivoluzione francese: quello dell’eguaglianza fra gli uomini, della tolleranza fra le religioni, della netta separazione fra Stato e Chiesa. E anche l’attuale Costituzione francese è lambita dall’eco di quei fatti del 1572: una Costituzione che ha per Preambolo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, e che recita nell’articolo 1: «La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa assicura l’eguaglianza dinanzi alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di origine, di razza o di religione. Essa rispetta tutte le convinzioni religiose e filosofiche».
Francois Dubois (1529-1584),
La notte di San Bartolomeo - particolare
Repubblica 24.8.17
Il 27 agosto Mannarino, Morandi e Consoli, live per Amatrice
Saranno Gianni Morandi, Carmen Consoli, Irene Grandi, Mannarino, Tosca e Luca Barbarossa con la Social Band ad animare il concerto Amatrice nel cuore, l’evento gratuito che si terrà il 27 agosto nei pressi della cittadina reatina distrutta un anno fa dal terremoto. «Un contributo alla ricostruzione del tessuto emotivo, il più difficile da ricreare», ha detto Barbarossa.
il manifesto 24.8.17
Barcellona, uno dei quattro arrestati: «Sono pentito, chiedo perdono»
Le indagini. Fra le macerie di Cambrils sarebbero stati trovati dei biglietti aerei (non è chiaro se per prima o dopo l’attentato) per un viaggio dell’imam a Bruxelles
di Luca Tancredi Barone
BARCELLONA Mohamed Houli, uno dei quattro attentatori in carcere e risultato ferito nell’esplosione del covo di Alcanar, sta collaborando con i giudici, consentendo una ricostruzione degli appartenenti e delle intenzioni di chi ha sferrato l’attacco sulle Ramblas a Barcellona. Secondo la stampa Mohamed Houli avrebbe detto di essere «pentito» e di chiedere «perdono», oltre a confermare le intenzioni dei terroristi: colpire monumenti, chiese e in particolare la Sagrada Familia. Per lui e per gli altri tre arrestati il giudice dell’Audiencia nacional di Madrid ha deciso la sorte carceraria.
SIA MOHAMED HOULI Chemlal, sia Driss Oukabir rimarranno in carcere. Quest’ultimo è accusato di avere affittato il furgone poi usato sulla Rambla.
Houli Chemlal – secondo il giudice – stava preparando esplosivi con l’iman Es Satty, e forse a una seconda persona, Youssef Aalla, il terzo dei fratelli Aallaa, di cui per ora non è stata confermata la morte. Accuse gravi: organizzazione terrorista, assassinio e lesioni di carattere terrorista, per Oukabir e di detenzione di esplosivo e strage per Houli Chemlal. Slah El Karib, proprietario di un internet café a Ripoll rimane a disposizione dei giudici in carcere per 3 giorni, in attesa che si concludano le indagini.
NEL SUO INTERNET CAFÈ il fratello 17enne di Oukabir, morto a Cambrils, avrebbe comprato un biglietto per il Marocco per Driss pagando con la carta di credito di El Karib per poi restituirgli i soldi in contante. I giudici non sono ancora sicuri che abbia responsabilità negli attentati. E infine è stato scarcerato Mohammed Aalla, unico sopravvissuto dei tre fratelli, proprietario dell’Audi fermata dalla polizia a Cambrils su cui erano i 5 terroristi uccisi (uno dei quali era suo fratello minorenne). La stessa auto che il fine settimana precedente all’attentato aveva effettuato un viaggio lampo di un giorno in Francia, con almeno due persone. Lui stesso si era presentato alla polizia il giorno dell’attentato. Il giudice ha ritenuto che il vero proprietario del veicolo fosse il fratello (quello morto a Alcanar) e che fosse intestato a Mohammed, il maggiore dei tre, per una questione legata all’assicurazione.
NELL’ATTO DEL GIUDICE emerge un nuovo dettaglio interessante: fra le macerie di Cambrils sarebbero stati trovati dei biglietti aerei (non è chiaro se per prima o dopo l’attentato) per un viaggio dell’imam a Bruxelles – pertanto non è chiaro se davvero volesse immolarsi facendosi saltare presso la Sagrada Familia, come aveva detto a loro. Altro dettaglio inquietante: i 5 terroristi di Cambrils avrebbero comprato asce e coltelli solo un paio d’ore prima dell’attentato proprio in un negozio di Cambrils. L’impressione è che dopo l’esplosione, che interruppe i piani, e la morte dell’imam, ci sia stata molta improvvisazione.
UN’ORA PRIMA DELL’ATTENTATO Mohammed Hichamy (poi morto la notte stessa a Cambrils) aveva abbandonato di corsa in piena autostrada un altro furgone affittato; aveva tamponato una moto e il motociclista aveva detto che avrebbe chiamato la polizia. Poco dopo si sarebbe unito agli altri per effettuare l’attacco di Cambrils in macchina (la famosa Audi). Secondo la testimonianza del compagno di casa dell’imam, questi si sarebbe portato via una stufa dall’appartamento, probabilmente per far asciugare più in fretta gli esplosivi che si stavano preparando a Alcanar. Fu proprio durante l’attesa che si produsse l’esplosione, spiegava Houli Chemlal al giudice. Il giudice è convinto che dietro gli attentati ci sia l’Isis. Non solo perché li ha rivendicati, ma anche per il tipo di esplosivo che i terroristi stavano preparando (con l’aiuto di video su youtube), già usato a Parigi e Bruxelles, e per il quale, fra l’altro, avevano acquistato più di 500 litri di acetone e 100 bombole di butano.
il manifesto 24.8.17
Netanyahu detta le condizioni di Israele in Siria
Ieri a Sochi nuovo faccia a faccia tra il premier israeliano e il presidente russo Putin sulla situazione in Siria. «Dove se ne va lo Stato Islamico sconfitto, arriva l'Iran» ha affermato Netanyahu chiedendo a Mosca di impedire che Tehran e Hezbollah stabiliscano basi a ridosso dei confini con Israele
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Accompagnato dal direttore del Mossad e dal capo del Consiglio per la sicurezza nazionale, Benyamin Netanyahu ieri a Sochi, sul Mar Nero, ha incontrato Vladimir Putin per la nona volta in due anni. È stato un faccia a faccia più importante della solita verifica dell’intesa raggiunta dalle due parti dopo l’intervento militare diretto di Mosca in Siria, nel 2015, con cui il presidente russo assicurò che i suoi aerei non avrebbero impedito i bombardamenti dell’aviazione israeliana in Siria – un centinaio negli ultimi anni, per recente ammissione di Tel Aviv – contro presunti convogli carichi di armi destinati al movimento sciita libanese Hezbollah. Netanyahu a Sochi è andato a discutere del futuro della Siria ora che la vittoria di Bashar Assad si è fatta più vicina e la posizione del presidente siriano appare più forte e stabile rispetto a qualche anno fa quando Israele si aspettava e desiderava la sua caduta. Tel Aviv vuole avere un posto in prima fila nella definizione delle “soluzioni” che dovranno realizzarsi in Siria dopo la sconfitta di jihadisti e “ribelli” e all’emergere di un Assad più esperto e determinato di prima.
Il premier israeliano all’inizio di luglio ha bocciato l’accordo di cessate il fuoco mediato da Russia, Usa, Turchia e Giordania per la creazione in Siria di “zone di de-escalation” nel quadro di un cessate il fuoco generale. Quelle aree a suo dire favoriscono i “disegni” dell’Iran e di Hezbollah, entrambi alleati strategici di Bashar Assad, volti a stabilire basi militari in Siria. Netanyahu ieri ha dato sfogo alla sua rabbia rivolgendo a Tehran accuse vecchie e nuove. A cominciare da quella ascoltata più volte prima dell’accordo internazionale sul nucleare del 2015 secondo la quale l’Iran minaccerebbe il «mondo intero» e non solo Israele. «Grazie a sforzi congiunti stiamo sconfiggendo lo Stato Islamico e questo è molto importante. Ma la cattiva notizia è che, dove se ne va lo Stato Islamico sconfitto, arriva l’Iran», ha detto Netanyahu a Putin, «Non possiamo dimenticare neanche un minuto che l’Iran minaccia ogni giorno di distruggere Israele, che arma organizzazioni terroristiche, le sostiene e avvia atti di terrorismo». E non ha mancato di minacciare una guerra. L’Iran, ha detto a Putin, sta tentando di «libanizzare» la Siria prendendone il controllo attraverso Hezbollah. «Questo è diretto contro di noi e non resteremo indifferenti. Agiremo quando occorrerà in accordo con le nostre linee rosse. E quando lo abbiamo fatto in passato non abbiamo chiesto permesso ma fornito un aggiornamento sulla nostra politica. La comunità internazionale sa che quando diciamo qualcosa la facciamo anche», ha concluso. Putin, alleato dell’Iran, non si è lasciato trascinare sul terreno scelto da Netanyahu e da parte sua in pubblico ha sottolineato soltanto «l’efficace meccanismo di dialogo bilaterale» tra Russia e Israele, che «permette di affrontare le relazioni tra i due paesi, così come la situazione nella regione (mediorientale)».
Netanyahu ha ripetuto che non permetterà mai all’Iran e ad Hezbollah di posizionarsi a ridosso delle Alture siriane del Golan che Israele occupa da cinquant’anni. E punta l’indice contro il cessate il fuoco entrato in vigore lo scorso 9 luglio, in particolare nelle province meridionali di Sueida, Daraa e Quneitra che, nella lettura israeliana della situazione, ha visto Donald Trump consegnare la Siria a Putin e fornito agli iraniani e a Hezbollah la possibilità di avvicinarsi alle frontiere con Israele e Giordania. Eppure proprio un giornale israeliano, Haaretz, il mese scorso rivelava che i combattenti iraniani e libanesi alleati di Damasco nel sud sono arretrati verso Hauran, a 40 km dalla frontiera, dopo l’inizio della tregua, rispettando una richiesta fatta a Mosca dalla Giordania. Una distanza simile, scriveva il giornale, separa le forze iraniane e libanesi dal Golan. Netanyahu però vuole formalizzare questa situazione e chiede che siano create “zone cuscinetto” sulla linee armistiziali tra Israele e Siria e lungo la frontiera tra Siria e Giordania. Ed è andato a reclamarle a Mosca visto che gli Usa si sono fatti da parte.