venerdì 14 luglio 2017

SULLA STAMPA DI VENERDI 14 LUGLIO

https://spogli.blogspot.com/2017/07/corriere-14.html

https://spogli.blogspot.com/2017/07/sulla-stampa-di-venerdi-14-luglio.html

Corriere 14.7.17
Gramsci, la doppia illusione
di Antonio Carioti

Commuove la vicenda personale di Antonio Gramsci, sbalordisce l’energia della sua mente. Malato, incarcerato, isolato, riesce a produrre riflessioni teoriche di prim’ordine. Ma l’omaggio al martire, morto 80 anni fa, deve accompagnarsi alla lettura critica di un pensiero che affina, ma non smentisce il primato assoluto del partito sul popolo, classe operaia compresa, tipico del bolscevismo.
Lo illustra Luciano Pellicani nel capitolo su Gramsci del libro Cattivi maestri della sinistra (Rubbettino), in cui prende di mira anche Palmiro Togliatti, György Lukacs, Jean-Paul Sartre, Herbert Marcuse. Tornando al leader sardo, egli comprende che l’esperienza sovietica non si può ricalcare in Occidente, quindi propone di sostituire alla presa violenta del potere la conquista della società civile attraverso l’egemonia culturale. Ma rimane prigioniero, nota Pellicani, di due illusioni fatali: l’idea che sopprimere il mercato porterà progresso e giustizia, la convinzione che tale processo debba essere guidato dalla dittatura degli intellettuali rivoluzionari organizzati in partito, il «moderno Principe».

Il Fatto 14.7.17
Intervista a Massimo D’Alema
“Primarie a novembre e Pisapia è il mio leader”
Il “Líder Massimo” a nnuncia il ritorno in Parlamento e traccia i confini della nuova sinistra sotto la guida dell’ex sindaco di Milano
di Ettore Boffano e Fabrizio d’Esposito

La politica è una cosa seria. Da antico leader della comunità postcomunista, Massimo D’Alema riflette innanzitutto sul contesto di oggi: “Ci vuole un ritorno alla serietà della politica. C’è decadimento, violenza, c’è una degenerazione preoccupante che anche il popolo del Pd, quello rimasto, vive con sofferenza”.
Cosa c’è di diverso rispetto a un passato recente che l’ha vista protagonista di epici scontri nel centrosinistra?
Vedete, noi siamo stati un gruppo dirigente che si rispettava. Quando ero a Palazzo Chigi ho proposto Veltroni segretario, Prodi a capo della commissione Europea. Oggi prevale il culto del capo, la cultura del sospetto. Renzi ha impedito che Letta diventasse presidente del Consiglio europeo e questa era una proposta della Merkel.
Significa che la mutazione è antropologica, prima ancora che politica.
C’è un episodio rivelatore che mi ha colpito molto, quando Renzi scrive nel suo libro che sua figlia chiede se è certo dell’abiura del dalemismo da parte di Orfini. È aberrante, questa è educazione all’odio, è l’elogio del tradimento. Se questi sono i principi educativi, c’è da essere seriamente preoccupati.
Allora lei ha letto Avanti?
Per l’amor del cielo. Concordo con Letta quando parla di disgusto. Ho altro da leggere. Ho visto le numerose anticipazioni pubblicate dai quotidiani. Quante sono? Otto?
Dieci in tutto.
Una cosa sconcertante, questa è informazione di regime, che però contribuisce a far crescere quel sentimento dilagante contro Renzi.
Oggettivamente un dato positivo per voi di Articolo 1. Avete praterie a sinistra, tra astensionismo ed elettori vostri che ora votano Grillo.
Dobbiamo presentarci con un soggetto unitario, non possiamo andare con due liste che litighino tra di loro: non ci voterebbero nemmeno se li andiamo a prendere con il servizio d’ordine.
Pisapia divide? Ci sono le riserve di Fratoianni di SI.
Bisogna smetterla di accusare Pisapia di essere ambiguo. In piazza Santi Apostoli, alla manifestazione del primo luglio, Pisapia è stato netto: ha parlato di discontinuità, ha chiesto la reintroduzione dell’articolo 18. Fratoianni è un simpatico giovanotto, a volte inutilmente polemico. Finiamola con le punzecchiature, ci vuole un atto di generosità. Non possiamo fare una nuova e perdente Sinistra Arcobaleno.
Che invece è il timore di quanti non vogliono andare troppo a sinistra.
Anche qui: Sinistra Italiana nasce da Sel che è stata alleata del Pd alle ultime elezioni. Non viene dalla luna: senza di loro non avremmo avuto la maggioranza. Lo ricordo a quanti oggi sono stati beneficiati da questo fattore e ora parlano di estrema sinistra. Ci sono personaggi che non hanno mai amministrato neanche i loro condomini. A questi vorrei ricordare che Vendola ha governato una delle più importanti regioni d’Italia. Lo stesso Pisapia è stato un militante di Sel che ha vinto le primarie a Milano.
Fino a qualche settimana fa c’era la convinzione che lei puntasse su Anna Falcone che, insieme con Montanari, ha organizzato la sinistra civica del Brancaccio.
Ho grande stima per la Falcone e Montanari. Al Brancaccio erano presenti importanti esempi di civismo e di associazionismo impegnato sul territorio. Alcune posizioni critiche e aggressive, assunte da quel momento in poi, non servono a nessuno e rischiano di marginalizzarli.
Pisapia dice che resta in campo ma non si candida.
Pisapia ci ha fatto fare un salto di qualità nel percorso per un nuovo soggetto politico di centrosinistra, rappresenta un valore aggiunto, come Mdp lo sosterremo. Spero che cambi opinione. Quando un leader genera speranza e aspettativa ha il dovere di confrontarsi con il voto popolare.
Il percorso dove porterà?
Ora c’è un nucleo di partenza composto da Mdp e Campo Progressista di Pisapia, io immagino a conclusione di questa fase una consultazione popolare a novembre.
Primarie?
Certo, ma senza truppe cammellate, con regole che impediscano ogni forma di inquinamento.
Per fare cosa?
Un manifesto, un programma, una lista unitaria per le elezioni, vi sembra poco?
E il leader?
Chiaro che con un sistema proporzionale, non credo il tedesco, ma quello della Consulta, non c’è un candidato premier da scegliere. Serve un leader unitario, non un candidato premier. Abbiamo anche un altro obiettivo: noi ci batteremo contro i capilista bloccati che loro vogliono introdurre anche al Senato.
Loro chi?
Renzi e Berlusconi, ovvio. Hanno un patto anche su questo.
Oltre che per governare dopo.
Il disegno di Berlusconi è di fare il governo con Renzi. Altrimenti non si spiegherebbe perché con questi sondaggi che danno in testa il centrodestra, Berlusconi continui a volere il proporzionale e non il maggioritario. La frattura tra lui e la Lega è profonda.
Prodi ha tentato di sventare questa operazione. Vinavil sprecato, almeno fin quando c’è Renzi alla guida del Pd. Lei non ci ha mai creduto.
La posizione di Prodi è stata rigettata da Renzi in modo brutale.
Arriveranno anche Cuperlo e Orlando?
Non lo so, ma io a loro dico sempre una cosa.
Quale?
Fate quello che volete, ma sappiate che se noi saremo forti voi avrete peso nel Pd, se noi saremo deboli voi sarete deboli.
Lei si candiderà?
A me sembra molto prematuro. Se ci saranno i capilista bloccati, decideranno gli elettori con le primarie.
Quindi è sì?
Ripeto, ci saranno le primarie…
E nella “sua” Puglia c’è Emiliano…
Il governatore Emiliano può contare sul nostro sostegno.
Gentiloni di meno.
Noi stiamo costruendo un polo unitario per un autentico centrosinistra e dobbiamo marcare la nostra identità. Gentiloni non può più procedere in assoluta continuità con Renzi. Non si può ingannare la gente dicendo che dalla prossima legislatura avremo un sacco di soldi in più violando i patti europei. Questo è berlusconismo di risulta.
L’Europa nell’urna.
Un tempo il Pd aveva un grande peso, oggi un po’ meno. Il Pd avrebbe dovuto impostare il tema di una profonda riforma dei Trattati.
Invece?
Ha usato la sua forza contrattuale per chiedere un po’ di soldi e flessibilità anziché fare una battaglia per riformare il patto di stabilità e chiedere che gli investimenti non possono essere calcolati nel rapporto deficit-Pil.
Renzi chiede meno tasse.
Ci vuole un grande piano di investimenti, basta sfogliare Keynes. Il moltiplicatore che deriva dalla fiscalità è basso. Meno tasse per tutti è uno slogan vecchio ed è immorale riprenderlo aumentando il debito. Non possiamo rubare i soldi ai nostri figli, distribuendo mance ai banchieri.
I poveri aumentano,secondo l’Istat.
I dati sono drammatici: il numero di poveri aumenta costantemente. Le politiche del governo sono fallimentari, non hanno determinato alcun cambio di tendenza. Gli unici che si preoccupano della situazione sono la Chiesa e il volontariato. È inaccettabile che 12 milioni di italiani debbano rinunciare a curarsi. Bisogna incidere sulla progressività fiscale e incidere sui patrimoni. Oggi poco più dell’uno per cento della popolazione possiede il 20 per cento della ricchezza.
Un programma liberale e liberista quello di Renzi. Eppure è accusato di essere il suo erede blairiano.
Questo è un discorso superficiale, da analfabeti della politica. L’ultimo governo di centrosinistra di cui ho fatto parte da vicepremier fece nel biennio 2006-2007 investimenti per 40 miliardi di euro. Oggi sono venti. La riforma Bindi della sanità è stata l’ultima vera svolta in questo settore. Ma era un altro mondo.
Poi cosa è accaduto?
La crisi della globalizzazione ha fatto scoppiare contraddizioni selvagge. Non si può far finta di niente. È cambiato il clima culturale, c’è un pensiero critico sul capitalismo. Si torna a valutare la necessità di un ruolo dello Stato. Per affrontare queste sfide bisogna riprogettare la società. Ora c’è Corbyn, non più Blair.
Un modello insieme con il francese Mélenchon.
Mélenchon ha ottenuto un risultato importante, quasi il 20 per cento alle presidenziali. Corbyn ha vinto tra i giovani. Noi in Italia abbiamo tre milioni di ragazze e ragazzi che non studiano e non lavorano. Con un salario minimo potrebbero accudire anziani e disabili, partecipare alla manutenzione del nostro patrimonio naturale. Noi non possiamo fermare luddisticamente la rivoluzione dei robot ma non è più possibile un futuro dominato solo dal capitalismo finanziario.
Ci vuole una Quarta Via.
Io con le vie mi fermerei, diciamo. Ci vuole una sinistra illuminata.
Che sui migranti farebbe cosa? C’è una corsa ad aiutarli a casa loro.
Sapete che siamo l’ultimo Paese d’Europa in quanto ad aiuti allo sviluppo? Appena lo 0,16 per cento del Pil. Ci vuole una faccia da tolla a dire “aiutamoli a casa loro”. Siamo gli ultimi, non so se mi spiego?
E le ondate di migranti hanno ormai una dimensione epocale.
Ci sono precise responsabilità. Il governo Renzi ha accettato una deroga che prevede la possibilità di sbarco nei porti italiani anche per la navi battenti altra bandiera. Ora Minniti sta supplicando a mani giunte di cambiare le regole che hanno sottoscritto i suoi predecessori. Andavano fatti dei centri sulle coste libiche, siriane per gestire l’emergenza, con una protezione internazionale. Se l’avessimo fatto avremmo evitato 30mila morti nel Mediterraneo, un vero Olocausto.
Il populismo ingrassa.
Salvini non mi meraviglia, la Lega ha una coloritura razzista ma assisto a uno slittamento a destra dei Cinquestelle. La mia impressione è che lancino messaggi per fare un governo con l’appoggio esterno della Lega. Anche questo per noi è un terreno di competizione: cosa faranno gli elettori di sinistra del M5s delusi?
Lei provò a fare qualcosa nel 2013.
È noto che proposi Rodotà presidente del Consiglio per sbloccare la situazione.


La Stampa 14.7.17
Messaggio di Pisapia rivolto a D’Alema:
“Non mi candiderò”
L’ex sindaco avvisa la vecchia guardia Ds: “Non rinuncio alla guida ma voglio facce nuove”
di Andrea Carugati

«Non penso nemmeno lontanamente di candidarmi alle prossime elezioni». La frase di Giuliano Pisapia, lasciata cadere ieri mattina a Milano a un convegno della Cgil, scatena un piccolo tsunami nell’arcipelago a sinistra del Pd che lui sta cercando di federare. Al punto che poche ore più tardi lo stesso Pisapia è costretto a spiegare che «il mio impegno prosegue ancora più forte di prima».
L’ex sindaco di Milano rifila, con il suo stile felpato, uno scrollone ai suoi tanti compagni di avventura, in particolare a Massimo D’Alema che l’11 luglio alla direzione di Mdp aveva raccolto calorosi applausi cannoneggiando il governo e spiegando perchè il neonato partito non deve sciogliersi: «Mi chiamano sempre per dirmi”io sto uscendo dal Pd, vi trovo sempre o vi sciogliete?”. Non dobbiamo fare una fusione ma solidificare ciò che abbiamo».
A Pisapia non piace che Mdp vada avanti con le tessere, e con l’idea di mettere in piedi un partito tradizionale. E invita «chi come me ha una lunga esperienza alle spalle» a favorire «un rinnovamento generazionale con nuovi protagonisti».
Messaggio chiarissimo a D’Alema (Bersani alla Stampa ha già detto di essere pronto a stare «in coda»), che sarà seguito dalla proposta di una regola: chi ha già fatto due mandati va a casa. «Giuliano li ha fatti e sarà il primo a dare l’esempio», spiega chi gli ha parlato. «Non intendo affatto rinunciare alla leadership, anzi. Con le mani libere sarò più forte», ha detto ai suoi.
Decisiva la lunga chiacchierata di mercoledì sera a Bologna con Romano Prodi, che ha vissuto sulla sua pelle la fatica di mettere insieme partiti diversi, gelosi della loro autonomia. Già alla vigilia della manifestazione del primo luglio il Professore gli aveva consigliato di salire sul palco da solo, senza altri leader. Consiglio non ascoltato. Ma Prodi ci ha tenuto, dopo alcuni giorni, a ribadire pubblicamente il suo sostegno all’ex sindaco. «Faremo tesoro dell’esperienza di Romano, e poi oggi non ci sono più grandi partiti come i Ds», spiega una fonte vicina a Pisapia. «Vogliamo fare una cosa radicalmente nuova, non un tram per riportare in Parlamento pezzi di ceto politico». «No alla rottamazione, sì alla rotazione».
Sul tavolo anche il nodo della cabina di regia del movimento. Pisapia, dopo i primi contatti con Mdp e gli altri, già mercoledì sera aveva scritto che il coordinamento «non deve rispondere a criteri da piccolo Manuale Cencelli». No dunque a un tavolo con 3 delegati di Mdp, 3 dell’ex sindaco e uno di area cattolica. «Si deve ripartire da zero, coinvolgere quanti più mondi possibili». Il pensiero va ad associazioni, e comitati di base.
«Aumenta chi fa volontariato e diminuisce chi fa politica nei partiti, perché c’è sfiducia», ha detto Pisapia ieri a Milano. Un altolà rivolto anche alle forze più a sinistra che continuano «a fargli ogni giorno l’esame del sangue per misurare il suo antirenzismo». Anche perchè il progetto condiviso da Pisapia, Prodi e Andrea Orlando è di spingere Renzi a cambiare la legge elettorale e rifare il centrosinistra. Mdp reagisce chiedendo a Pisapia di ripensarci. «Quello che fai lo decidi insieme al tuo collettivo», dice Bersani. «Anch’io mi riposerei volentieri, spero che ci ripensi». La linea di Mdp è che per prendere voti servono, accanto ai volti nuovi, anche i big. «Rinnovamento ed esperienza», spiega Arturo Scotto. «Vuole scioglierci? Ma senza di noi dove va?», commenta un deputato vicino a D’Alema.

Repubblica 14.7.17
Ma la mossa delude Mdp Bersani: “Spero ci ripensi”
D’Alema: gli elettori non capiscono. La tela di Prodi per l’ex sindaco
di Mauro Favale

ROMA. «Speriamo ci ripensi». Altro che “Insieme”, il nome provvisorio, scelto il primo luglio, in piazza Santi Apostoli, per il varo della «nuova casa comune della sinistra ». Da ieri, Pierluigi Bersani si sente un po’ più solo. E, con lui, tutti quelli che avevano individuato in Giuliano Pisapia la figura attorno a cui costruire le fondamenta del progetto competitivo al Pd. Il leader di Mdp resta spiazzato davanti al “passo di lato” dell’ex sindaco di Milano. Di più: Bersani è irritato. «So com’è fatto Giuliano — dice — ma glielo farò presente lo stesso: se stai provando a costruire un collettivo, quello che fai lo decidi insieme al quel collettivo. Anche io mi riposerei volentieri...». Ma adesso, è il senso del suo ragionamento, non si può. Specie ora che, dall’altra parte, Matteo Renzi sta chiudendo i canali di dialogo con pezzi importanti del Pd e, dalle parti di Mdp, non disperano che (magari dopo l’estate) la crepa nella diga si allarghi. «E poi l’acqua non la governi più», dicono citando un fuorionda di mesi fa carpito al ministro Graziano Delrio.
Il dialogo con quel pezzo di Democratici non si è mai spezzato, da Andrea Orlando a Gianni Cuperlo, passando per Francesco Boccia e Enrico Letta, a cui tanti guardano ancora, specie dopo le parole di Pisapia di ieri e dopo la rottura totale causata dall’uscita del nuovo libro di Renzi.
Con quel mondo parla ovviamente anche Romano Prodi. Il fondatore dell’Ulivo è sempre più sicuro della necessità di «stare uniti». Esigenza ribadita anche due giorni fa, a Bologna, quando ha incontrato Orlando e Pisapia. Il Professore continua a tessere la sua tela, convinto che in autunno bisognerà dare una scossa e dire esplicitamente dove piazzerà “la sua tenda”, consapevole che uno strappo col Pd potrebbe far molto male a Renzi. A quel punto, l’ex premier potrebbe porre un aut aut al segretario Dem: unirsi al progetto o proseguire per la sua strada col rischio di perdere per strada altri pezzi.
Intanto, però, Prodi sta cercando di dare una mano all’ex sindaco di Milano anche per convincere Mdp a “sciogliersi”, cedere sovranità in vista del nuovo soggetto. Prospettiva che, al momento, non convince Massimo D’Alema che pure è consapevole della capacità aggregante e del ruolo necessario di Pisapia: «Mi auguro che Giuliano cambi idea. Gli elettori non capirebbero », è persuaso l’ex premier. Eppure di abbandonare il progetto di Mdp, al momento, non se ne parla. Anzi, per D’Alema c’è l’esigenza di radicarsi sui territori, di aprire sedi, di dare vita a una cabina di regia programmatica con Pisapia. Finora, però, l’ex sindaco di Milano ha frenato, provocando una certa irritazione dalle parti di Mdp. Fino a ieri, fino a quella frase sulle candidature ( «Serve un rinnovamento generazionale. Chi come me ha una lunga esperienza alle spalle è importante che favorisca questo cambiamento») che, per alcuni, era diretta proprio a D’Alema. Ma l’ex premier di passi indietro in questo momento non vuol sentir parlare, convinto di andare allo scontro frontale contro Renzi.
Intanto, per evitare di montare il caso dopo le frasi di Pisapia, in pochi, dentro Mdp, hanno commentato quell’uscita. Ma il malumore è forte. «Rischia di rappresentare un elemento di debolezza», è convinto il coordinatore di Mdp Roberto Speranza. E pure un fedelissimo di Pisapia come Massimiliano Smeriglio, vice di Nicola Zingaretti alla Regione Lazio, spiega: «Apprezzo la generosità di Giuliano ma quella delle prossime elezioni è la partita della vita e se abbiamo Maradona in squadra non possiamo certo permetterci di tenerlo in panchina».

Repubblica 14.7.17
Pisapia convinto che “si può essere utili senza ruoli istituzionali”. “Se poi mi chiedono di fare il premier? Prematuro parlarne ”
Da Giuliano segnale a Renzi e sinistra “Serve rotazione, non rottamazione”
di Carmelo Lopapa

ROMA. Alle cinque della sera, nella sua Milano, Giuliano Pisapia si sorprende della sorpresa. Scorre le reazioni che sono ormai tante e quasi non si capacita. «Ma perché ha fatto tanto clamore quel che ho detto? È una cosa che ripeto da anni. È sempre stata una mia idea e certo non la rimetto in discussione oggi: si può essere protagonisti e utili a un progetto, a una causa, alla sinistra, al Paese, senza ricoprire ruoli istituzionali ». Senza esporsi fino alla candidatura, insomma, senza sedere necessariamente in Parlamento.
Non vuol dire ritirarsi, tutt’altro. Tanto che, a chi gli sottopone l’ipotesi di un’eventuale responsabilità da premier da discutere dopo le elezioni, l’ex sindaco della sinistra “larga” risponde così: «Di questa cosa è prematuro parlarne, ci sono troppi se e troppi ma, non è un problema che si pone oggi. Se poi si concretizzerà il progetto politico, se le cose andranno in un certo modo, la prospettiva non è da escludere».
Per ora, tuttavia, resta lo “scossone” dell’annuncio fatto al mattino nella sua città, davanti alla platea amica di un incontro sulla democrazia nel mondo del lavoro organizzato dalla Filt-Cgil. Una mossa che ha colto di sorpresa tutto un mondo. Quello della sinistra che a lui guarda, in lui scommette, che nella sua capacità di traino – anche elettorale – ha investito per far decollare il nuovo soggetto. «Ma io l’avevo detto anche un anno fa, il primo giorno in cui ho iniziato il mio giro per l’Italia », era settembre, ricorda nel pomeriggio ad amici comunque chiamano, chiedono come mai, perché, se non sia il caso di ripensarci. «A me interessa mettermi a disposizione, offrire il mio impegno per evitare che questo Paese finisca in mano alle destre». Ieri si è limitato insomma a ripeterlo. E gli è venuto spontaneo, racconta, in un contesto che ha «sentito vicino, comprensivo, affettuoso».
Comunque una svolta inattesa, con la quale dentro il cantiere progressista dovranno fare ora i conti. E che chiama indirettamente in causa anche i fondatori di Mdp. «Sono sempre stato convinto, nella vita come nella professione, che occorra un ricambio generazionale. Intendiamoci – mette subito le mani avanti l’avvocato – ci sono parole nelle quali non mi riconoscerò mai, come rottamazione. Ma ci sono anche parole e concetti che difendo, che sono parte della mia cultura politica, come rotazione». Un processo più sottile rispetto alla falce renziana, è il sottinteso, ma del quale comunque la sinistra che vuole risorgere dovrà tenere conto. Presa di distanza dai criteri di selezione affermatisi nel Pd, messaggio che tuttavia viene recapitato senza nomi e cognomi anche ai big veterani che si stanno cimentando nel nuovo progetto politico.
Una scelta di coerenza, la sua. La rivendica, Pisapia. Già da sindaco di Milano aveva preannunciato che non si sarebbe riproposto per un secondo mandato. Il principio vale altrettanto su scala nazionale, sostiene. «Ho sempre pensato che ci si debba impegnare per un massimo di due mandati parlamentari», chiarisce meglio. «E siccome io due mandati parlamentari li ho già completati, non mi sembra il caso di ripresentarmi, tutto qui». L’avvocato entra in Parlamento nel 1996 da indipendente nelle liste di Rifondazione comunista, prendendo le distanze dal partito di Bertinotti dopo la sfiducia al governo Prodi. Verrà rieletto nel 2001. Ma già nel 2006 rinuncia alla ricandidatura. Fine.
La riunificazione di tutto quel che c’è alla sinistra del Pd resta oggi il suo obiettivo. Lo ripete con forza. «Il mio impegno continuerà, per comporre il nuovo centrosinistra, che avrà bisogno di uno spirito rinnovato, di modalità aggiornate, quel che mi interessa più di tutto però è che il progetto contenga in sé tutte le anime della sinistra: ambientalismo, civismo, solidarietà».
D’altra parte - e qui è Pisapia a sorprendersi - non si vede perché la scelta maturata desti tanto clamore, nel momento in cui in Italia il segretario del Pd è fuori dal Parlamento (e lo era stato anche nei mille giorni da premier), Beppe Grillo guida da sempre i Cinque stelle rimanendo all’esterno, per non dire del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi (interdetto, in quel caso). È la mission che conta, quella non cambia: «Unire i disillusi, ridare speranza a chi crede nei valori del centrosinistra, dimostrando di non perseguire alcun interesse personale». Convinto che passi anche attraverso questa linea di coerenza l’ambizioso recupero di una buona parte di coloro che hanno deciso negli ultimi anni di disertare le urne. Popolo di sfiduciati, delusi, per buona parte popolo di sinistra.

Corriere 14.7.17
Il timore di venire «incastrato» Il Pd: se non c’è, loro più deboli
di Maria Teresa Meli

ROMA Andrea Orlando, che lo aveva incontrato il giorno prima, non ne sapeva niente. I «suoi» men che meno, tant’è vero che, avvisati dai giornalisti, hanno dapprima risposto che Pisapia, forse, aveva detto quelle cose due giorni fa in Versilia e solo in un secondo tempo hanno corretto il tiro. L’unico a conoscenza delle riflessioni dell’ex sindaco di Milano, probabilmente, era Prodi, che ha spostato la tenda dal campo del Pd e ora deve decidere se compiere lo strappo finale con Renzi.
L’uscita di Pisapia ha spiazzato tutti. Il 23 giugno, in un’intervista al Quotidiano nazionale , aveva infatti lasciato chiaramente intendere che si sarebbe candidato. È il segnale di un certo disagio: l’ex sindaco di Milano si sta rendendo conto che potrebbe correre il concreto rischio di finire incastrato tra Bersani e D’Alema, in una sorta di cartello elettorale della sinistra «arcobaleno». Esattamente ciò che non voleva. Per questa ragione, del resto, aveva chiesto agli scissionisti del Pd di sciogliere il loro partito. Ma quelli gli hanno risposto picche, anche perché intendono arrivare al tavolo delle liste (sì, per tutte le forze politiche, è sempre quello il problema) forti di un nutrito pacchetto di tessere per avere un congruo numero di candidati blindati. Per questa ragione, cioè per aumentare il numero delle iscrizioni, gli scissionisti del Pd hanno deciso di indire feste su feste in tutta Italia durante l’estate.
E per imbrigliare meglio l’ex sindaco, Articolo 1 ha deciso di mettere in piedi una «cabina di regia», che è un classico della politica italiana. La dovrebbe guidare Pisapia, con Bersani e D’Alema al suo fianco. Ossia con quegli stessi leader ai quali Pisapia vuole chiedere un passo indietro — visto che proporrà che si candidi solo chi non ha già fatto due legislature — e che gli hanno già riposto di no.
Ma l’ex sindaco avrà l’effettiva leadership di «Insieme», fintanto che Articolo 1 non si scioglie? È questa la domanda che si fanno anche i suoi supporter. Peraltro la scelta di non candidarsi alle elezioni e di fare il leader da fuori potrebbe rivelarsi un rischio, dal momento che «Insieme» non è un unico partito ma la sommatoria di diverse sigle, ognuna con il «capo» di riferimento.
Al Nazareno seguono le mosse della sinistra con un certo interesse. La riflessione che viene fatta è questa: «Senza Pisapia candidato quel cartello elettorale si indebolirà tantissimo». Il presidente del Pd Matteo Orfini va dicendo da tempo che alla fine, a suo avviso, le liste alla sinistra del Partito democratico saranno tre: «Insieme», Sinistra italiana, magari in accoppiata con il movimento di Anna Falcone e Tomaso Montanari, e Rifondazione. E la reazione che ha avuto ieri Nicola Fratoianni di fronte alla notizia di una «cabina di regia» Pisapia-Bersani-D’Alema parrebbe dare ragione a Orfini. «Fanno questa cosa? Auguri e in bocca al lupo», è stato il commento in Transatlantico del leader di Sinistra italiana. Come a dire: non è cosa che mi riguarda. D’altra parte lo stesso ex sindaco di Milano non aveva escluso l’eventualità di più liste.
Ma i problemi veri, come si è visto, sono tutti interni a «Insieme». Pisapia infatti non vuole rompere definitivamente con il Pd di Renzi, perché come Prodi, ritiene che «occorra impedire che vincano la destra e i populismi». Per Bersani e D’Alema, invece, «Insieme» deve essere anti-renziano. Al Nazareno ritengono che la linea vincente sarà quest’ultima. E lo sostengono con un certo sollievo, perché significa non discutere più del premio di coalizione.

La Stampa 14.7.17
Vincolo dei tre mandati nelle candidature Pd
Renzi pressato per una pioggia di deroghe
“È un problema applicare la regola”, si lascia scappare con i suoi Confermare tutti i big può servire a evitare una nuova scissione
di Francesca Schianchi

«E poi, pure la regola del terzo mandato, è un problema applicarla…». È nel mezzo di una conversazione con i suoi, che il segretario del Pd Matteo Renzi lascia cadere quella frase. Gira la voce di una possibile nuova scissione, malesseri nel partito sono all’ordine del giorno, un ruolo fondamentale nel decidere la futura convivenza dei dem ce l’avrà, inutile negarlo, la linea che il segretario adotterà sulle candidature, con la rappresentanza che vorrà garantire alle minoranze nel prossimo Parlamento. Tra i renziani sono convinti che non ci sia un rischio vero, credono che né il leader sconfitto alle primarie Andrea Orlando né il ministro critico Dario Franceschini abbiano la forza di promuovere un’altra uscita dal Pd: ma per mettersi al sicuro, la soluzione potrebbe risiedere in quella frase detta da Renzi, quel richiamo al limite dei tre mandati che fino a pochi giorni fa voleva applicare rigidamente, e che invece dice oggi potrebbe essere «un problema». Un’imprevedibile, cauta apertura a una manica larga sulle deroghe aprirebbe spazi di rappresentanza anche alle minoranze, frenando spinte centrifughe verso la creazione di un nuovo partito.
Per far capire quanto difficile sarebbe applicare la regola dello Statuto del Pd secondo cui chi ha già svolto tre mandati non ha diritto alla ricandidatura (salvo deroga concessa dalla Direzione), Renzi con i suoi ha fatto qualche nome: Paolo Gentiloni ad esempio, il premier in carica, è alla quarta legislatura ma è ovvio che avrà ancora posto nelle liste Pd. O il ministro dell’Interno Marco Minniti, uno dei volti più attivi del governo, è già alla quarta legislatura anche lui, ma che fai – ha spiegato l’ex premier – non lo candidi? Naturalmente il principio della figura troppo importante per non riportarla in Parlamento tocca anche le minoranze – a cominciare dal ministro della giustizia Orlando, che pure è giunto al terzo mandato – o a chi è voce critica in maggioranza, come il ministro della cultura Franceschini, che pure siede in Parlamento dal 2006. Sono tanti i nomi che hanno ormai ammucchiato un certo numero di legislature: da Anna Finocchiaro (ben otto) a Gianni Cuperlo, che ne ha fatte tre, da Ugo Sposetti (cinque) a Cesare Damiano, giunto alla terza. Ecco, forse la foga renziana di cambiamento potrebbe trovare un equilibrio nella necessità di accontentare altre aree del partito. Tenendo ben saldo il comando ma avendo la possibilità di ribattere a chi parla di “partito di Renzi”: ma come, se ho concesso tutte queste deroghe?
Cosa voglia dire, però, è ancora da chiarire. Gli unici posti sicuri sono quelli dei capilista alla Camera: difficile, ha obiettato qualcuno al segretario, che voglia regalarne una parte significativa alle minoranze. «Ma siamo sicuri che qualcosa non cambierà a settembre nella legge elettorale?», è stata la risposta sibillina, come se si aspettasse di vedere uscire dal dibattito in Parlamento, se alla fine dell’estate ci si tornerà finalmente sopra, novità destinate ad ampliare la platea degli eletti sicuri. Si vedrà. Ma le deroghe potrebbero essere anche concesse per un percorso diverso: candidarsi con le preferenze al Senato. Vorrebbe dire permettere di correre a chi teoricamente sarebbe fuori, ottenendone in cambio, se si tratta di “big” con tante preferenze, voti a tutto vantaggio del partito. «È ancora presto per parlarne, si vedrà quando sarà il momento», taglia corto il fedelissimo renziano Lorenzo Guerini. Ma il momento è fra non molto. E in tanti già si cominciano ad agitare.

Repubblica 14.7.17
La dissipazione del centrosinistra
di Claudio Tito

LE FORZE del centrosinistra vivono troppo spesso di illusioni. La principale è credere di potersi spaccare, insultare, autodistruggere e pensare comunque di essere competitive alle elezioni successive.
SI TRATTA di un abbaglio che si materializza ogni volta che il fronte progressista arriva al governo. E ogni volta l’Italia si ritrova a fare i conti con un gruppo di partiti animati dal desiderio di compromettere il proprio futuro anziché costruirlo. Di tutelare le proprie riserve minoritarie anziché coltivare le aspirazioni maggioritarie.
Basta vedere quel che sta accadendo in questi giorni. Non solo il segretario del Pd, Matteo Renzi, ha scritto un libro con la apparente intenzione di menare fendenti a destra e a manca anziché provare a ordinare le idee per una eventuale rivincita elettorale. Ma anche nell’altro pezzo del centrosinistra, coagulato quasi esclusivamente intorno alla nuova categoria dell’antirenzismo, riescono solo a dividersi offrendo al loro elettorato il peggio di se stessi. Giuliano Pisapia che era stato individuato come il leader della nascente formazione, dopo aver guidato la manifestazione “fondativa” del primo luglio adesso annuncia che non si candiderà alle prossime elezioni. Non si tratta di una scelta improvvisata. Il punto è molto semplice. Anche in quel soggetto la confusione è totale. La somma di sigle, partitini e movimentini blocca qualsiasi progetto. Il protagonismo di alcuni vecchi segretari non poteva che condizionarne e orientarne la crescita. Una formazione che si è candidata a rappresentare il fronte della sinistra, si scopre già fiaccata dalle liti interne. E ora anche senza un front-man in grado di offrire un volto nuovo al suo potenziale bacino elettorale. Pisapia fa un passo indietro perché non vuole farsi invischiare nelle trame di D’Alema, nei rancori di Bersani e nei negoziati infiniti tra partitini che alcune volte a stento arrivano all’1%. Certamente non si tratta di una scelta definitiva, la strada fino alle elezioni è ancora lunga. L’ex sindaco di Milano sembra essersi convinto che il percorso verso Palazzo Chigi è ormai possibile solo al di fuori dei vecchi contenitori. Magari come soluzione “esterna” alla più che probabile impasse che si realizzerà dopo le prossime elezioni in cui nessuno risulterà vincente. Ma al di là delle tattiche, l’immagine che si compone nel centrosinistra è quella di una ennesima disgregazione.
La situazione non è diversa nel Partito democratico. Si sta ritrovando a discutere solo dell’ultima opera libraria del suo leader. Come se tutto potesse o dovesse ruotare intorno alla sua figura. Renzi sembra attratto da una sorta di brama da isolamento. Assesta colpi a tutti ma non si capisce chi siano i suoi alleati: in politica e nella società. Alla ricerca di un altro referendum su se stesso. Una strategia che oltre a non indicare una finalità sta provocando una fibrillazione nel suo stesso partito. La paura non di una scissione ma di una volontaria solitudine del segretario. L’idea di sospingere tutti i non renziani verso un altro lido. Una sorta di “predellino” Democratico. Che, però, avrebbe come specchio la nascita di una sottospecie di nuovo Ulivo. Una strada che spaccherebbe e indebolirebbe ulteriormente il centrosinistra.
L’Italia non riesce dunque a uscire dalla sua atipicità. Negli ultimi 23 anni non è riuscita a diventare un Paese normale. Prima il berlusconismo e ora il populismo nelle sue varie manifestazioni la affossano in una eterna transizione. Adesso anche con la complicità inconsapevole delle forze di centrosinistra.
Eppure la storia democratica insegna che in una nazione spesso segnata dalle contrapposizioni, i partiti in grado di conquistare risultati tendenzialmente maggioritari, sono stati quelli presentatisi ai cittadini come forza unificante. Nel 2014, quando il Pd ottenne alle elezioni europee il 40,8%, si formò un nuovo blocco sociale che vide in Renzi una figura aggregante. Quel blocco sociale non esiste più, si è frammentato come il panorama politico. L’incapacità del segretario democratico di offrirsi come leader saldante e le esasperanti divisioni di quel mondo di sinistra che ruota intorno a Mdp producono allora un solo effetto: portare il centrosinistra alla sconfitta.
Questa classe dirigente sembra non rendersi conto che in una fase in cui la società vive ogni discussione sotto la forma della radicalizzazione, le forze progressiste dovrebbero assumersi il compito di governare gli estremismi. Avrebbero l’obbligo di non dissipare le ragioni del centrosinistra per arginare i populismi e — ormai è il caso di dirlo — il ritorno dei fascismi. Servirebbe una politica innovativa, europea, moderna. Che non insegua la demagogia del Movimento 5Stelle da una parte e non si abbandoni ai modelli del passato dall’altra. Servirebbe senso di responsabilità e spirito di coalizione. Due qualità al momento del tutto assenti. Due deficit che nel 2018 rischiano di trasformare l’Italia nell’unico dei grandi paesi europei in mano ai populisti.

Il Fatto 14.7.17
Orlando “prigioniero” nel Pd ma mezzo partito è in fuga
Il ministro rafforza l’asse con Prodi e Pisapia ma nega nuove scissioni
Il professore si dice “allibito” per le parole di Renzi su Letta
di Tommaso Rodano

Orlando non si muove, gli orlandiani forse sì. Nei corridoi dei palazzi si rincorrono voci di un’imminente diaspora dei parlamentari della minoranza, in transito verso il gruppo di Bersani e compagni. Alcuni autorevoli rappresentanti della nuova corrente del Guardasigilli (Democrazia e Società) smentiscono, e lo stesso Andrea Orlando fa sapere di non avere intenzione di “dividere il Pd”, ma semmai di “unire il centrosinistra”. Come fare, con Renzi al comando, rimane un mistero.
Mercoledì sera il ministro è stato immortalato alla presentazione di un libro a Bologna insieme a Romano Prodi e Giuliano Pisapia. Orlando vuole “scommettere” sull’ex sindaco di Milano e sul professore – come ha spiegato ieri – “perché penso che Pisapia oggi, con Prodi e pochi altri, si attiene al principio di realtà”. Per usare l’ormai abusatissima metafora prodiana, la tenda dei tre neoulivisti è piantata in un posto sempre più lontano dal Pd renziano. Un retroscena dell’Ansa, peraltro, descrive Prodi come “allibito” dai passaggi più offensivi del libro del segretario Pd su Enrico Letta.
Orlando comunque fa sapere di non aver alcuna intenzione di uscire dal partito. Al massimo potrebbero farlo, individualmente e senza la sua benedizione, alcuni parlamentari della sua area. Orlando non è in grado di garantire a tutti i suoi onorevoli (più di una trentina) la ricandidatura a Montecitorio o Palazzo Madama per la prossima legislatura. Per questo alcuni di loro sono tentati dalla migrazione verso Articolo 1. Qualche deputato orlandiano denuncia lo “scouting” degli ex compagni fuoriusciti dal Pd che “di certo danneggia ogni ipotesi di centrosinistra”. Mdp resta con le braccia spalancate per accogliere nuovi arrivi, ma i bersaniani fanno sapere che per adesso non si muove nulla.
Questo per quanto riguarda i palazzi, perché nei territori la fuga dei dirigenti locali dal Pd è un dato di fatto. Quello che Graziano Delrio aveva definito un “buco nella diga” si sta trasformando in un’autentica voragine. Lo riconoscono anche gli orlandiani. Si rincorrono i termini “diaspora”, “flusso continuo”, “abbandono”.
La lista di consiglieri, assessori e quadri locali che hanno lasciato il Pd renziano è in continuo aggiornamento. A Lecce la scorsa settimana è stata registrata una fuga di massa: 103 dirigenti passati in blocco dal Partito democratico ad Articolo 1.
L’elenco della campagna acquisti bersaniana da Nord a Sud è piuttosto impressionante: un consigliere regionale in Friuli Venezia Giulia, due consiglieri comunali a Milano, due consiglieri regionali in Lombardia, e altri ancora in Emilia Romagna, Toscana, Lazio. Nelle Marche è l’ex capogruppo del Pd Gianluca Busilacchi ad aver abbracciato Roberto Speranza e il partito dei fuoriusciti. A Massa – come scrive l’Huffington Post – hanno lasciato il Pd per Articolo 1 il segretario comunale Adriano Tongiani, il vicesindaco Uilian Berti e quattro consiglieri comunali.
In alcuni piccoli centri si è trasferito l’intero gruppo dirigente: come a Melito, a nord di Napoli, dove tutti i 7 consiglieri comunali del Pd hanno cambiato bandiera. O a Fiano Romano, dove se n’è andato dai dem il sindaco Ottorino Ferilli (fratello dell’attrice Sabrina) insieme alla storica sezione rossa della città. La diaspora è un po’ ovunque, anche a Pavia, Modena, Potenza, Napoli.
In attesa dei dirigenti nazionali, insomma, si sono già spostati i quadri locali. Al Nazareno le minoranze prendono tempo.
Michele Emiliano si è garantito il “franchising” del marchio Pd nella sua Puglia, e un’influenza crescente al Sud in generale (“Nessun accordo sottobanco, è naturale che sia così visto che ho i voti” ha detto al Fatto domenica). Orlando apre a Pisapia, parla di centrosinistra e aspetta tempi migliori .

Corriere 14.7.17
Africa La crescita della popolazione «Raddoppierà in trent’anni»
«Saranno 2,5 miliardi». Problema o risorsa? L’Europa preoccupata
di Michele Farina

Problema o vantaggio, la crescita demografica africana? All’ultimo G20 di Amburgo, Emmanuel Macron ha detto che «l’Africa ha avuto problemi di civilizzazione», e che parte della sfida attuale è costituita da quei Paesi dove «si continuano ad avere sette-otto figli per donna». C’è chi ha bollato queste parole come «razziste», riflesso della vecchia mentalità del colonialismo francese. Ma l’altro giorno anche la Danimarca, che non passa per Paese colonizzatore, ha annunciato che accrescerà i fondi per il controllo delle nascite nei Paesi in via di sviluppo. La ministra per la Cooperazione, Ulla Tornaes, ha detto che 225 milioni di donne nei Paesi più poveri non hanno accesso a strumenti di «family planning». E riferendosi all’Africa in una conferenza a Londra, ha parlato delle misure per la riduzione della natalità come di «una priorità della politica estera e di sicurezza danese». Se continuano a nascere bambini con i tassi attuali, ha detto Ulla allarmata, «la popolazione africana raddoppierà fino a raggiungere i 2,5 miliardi di persone entro il 2050». Contribuire a una frenata delle nascite sotto il Mediterraneo, per il governo di Copenaghen, «aiuterebbe anche a limitare la pressione migratoria sull’Europa».
Meno bambini, più crescita economica, meno migranti? È una formula troppo semplificata per essere risolutiva. È innegabile che si debba parlare di esplosione demografica. Nella lista mondiale dei Paesi dove si fanno più figli, i primi 15 sono tutti africani. Sono 26 le nazioni del continente che nel giro dei prossimi trent’anni vedranno raddoppiata la propria popolazione. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, alla fine del secolo metà dei bambini del mondo (sotto i 14 anni) saranno africani.
Numeri impressionanti. Che non impressionano Mario Giro, viceministro degli Esteri italiano con delega alla Cooperazione internazionale: «La crescita demografica è dovuta allo sviluppo che c’è stato e che continua a esserci, e ce ne dobbiamo rallegrare — dice Giro al Corriere —. E comunque tutti i Paesi africani, Nigeria a parte, sono oggi sottopopolati. L’Africa avrà un quarto della popolazione mondiale, come aveva prima della tratta, soltanto intorno al 2050».
La tratta degli schiavi, e tutta la storia che si è succeduta — dice il viceministro — «hanno finito per spopolare il continente». Rispetto alla densità demografica europea, «l’Africa ha enormi territori disabitati: è l’unico continente che abbia nuova terra arabile». Eppure proprio l’agricoltura sta subendo le conseguenze più terribili del cambiamento climatico, con la peggior siccità degli ultimi 20 anni: «È questa sfida che porta la popolazione a spostarsi da certe zone aride verso le città».
Più della metà degli africani vivono oggi nelle città. Bamaiyi Guche, 17 anni, secondo l’ Economist è il tipico giovane imprenditore africano. Al mattino va a scuola. E al pomeriggio vende sacchettini di acqua potabile nelle strade assolate, portando a casa un dollaro al giorno, metà del quale va in tasse scolastiche. Vuole diventare dottore, non calciatore. Ci riuscirà nel suo Paese?
La Nigeria è il gigante d’Africa. La prima economia per prodotto interno lordo, 180 milioni di abitanti che diventeranno 410 milioni nel 2050, quando sarà il terzo Paese più abitato al mondo, dopo India e Cina. I tassi di natalità sono scesi da 6,5 figli per donna nel 1990 a 5,6 nel 2014. Come il resto del continente, la Nigeria ha sofferto la frenata dell’economia: per la prima volta da vent’anni a questa parte, il pil pro capite è diminuito. Complessivamente, il pil africano è crollato nel 2016 fino a toccare un magro +1,4% (la metà del tasso di crescita demografica).
Le stime puntano a un +2,6% per il 2017 (comunque la metà rispetto a cinque anni fa). Dei migranti sbarcati in Italia nel 2017, la Nigeria è il primo Paese di provenienza (15%). Se l’Europa (e l’Italia) vogliono aiutare i ragazzi come Bamaiyi Guche a diventare dottori «a casa loro», non basterà ridurre il numero dei loro fratellini.

La Stampa 14.7.17
Poveri aumentati del 50% tra le famiglie giovani con figli
La fotografia scattata dall’Istat per il 2016: indigente un bimbo su otto In Italia il 7,9% degli individui vive nella fascia più sofferente
di Paolo Baroni

La povertà in Italia non scende. Anzi, per le famiglie con tre e più figli aumenta in maniera esponenziale, sia la povertà assoluta che quella relativa. E sono i giovani, disoccupati ma anche semplici operai, a pagare il conto più salato. La fotografia che scatta l’Istat è desolante. Stando ai dati 2016 sono ben 1 milione e 619mila le famiglie che versano in condizioni di povertà assoluta per un totale di 4 milioni e 742mila individui. L’incidenza sul totale delle famiglie è pari al 6,3%, praticamente in linea con i valori stimati negli ultimi quattro anni mentre per gli individui sale dal 7,6 al 7,9%, una variazione che però l’Istat definisce «statisticamente non significativa». In realtà, come segnalano le associazioni dei consumatori, il numero dei poveri in dieci anni è praticamente raddoppiato, mentre rispetto al 2015 si registra un aumento del 3,1%. «Numeri enormi - commenta il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino - che dovrebbero indurre la politica a muoversi». «Numeri impressionanti», «cifre drammatiche», commentano da Forza Italia a Sinistra Italiana a Mdp che mettono nel mirino il governo e le politiche renziane degli ultimi tempi. «Servono risposte immediate ed efficaci» sollecita l’Alleanza contro la povertà, che insiste perché venga adottato uno strumento universale per arrivare a proteggere a tutti i cittadini che si trovano in condizioni di difficoltà e non solo una parte.
Stando ai dati diffusi dall’Istat tra le famiglie con 3 o più figli minori l’incidenza della povertà assoluta aumenta quasi del 50% passando dal 18,3 al 26,8%, ed interessa 137.711 famiglie e 814.402 individui. Aumenta anche l’incidenza fra i minori che sale dal 10,9% al 12,5% per un totale di 1 milione e 292mila soggetti. «Sono 161 mila in più dell’anno passato, in pratica un minore su 8 versa in condizioni di povertà assoluta» denuncia a sua volta «Save the children».
L’incidenza della povertà assoluta è stabile al Nord (5%), in lieve calo al Sud (8,5%) ed aumenta al Centro, sia in termini di famiglie (5,9% da 4,2% del 2015) che di individui (7,3% da 5,6%), a causa soprattutto del peggioramento registrato nei comuni fino a 50mila abitanti al di fuori delle aree metropolitane. Come negli anni precedenti il peso della povertà diminuisce al crescere del titolo di studio della persona di riferimento (8,2% se ha al massimo la licenza elementare, 4% se è almeno diplomata), e persiste anche la relazione inversa rispetto all’età. In questo caso il valore minimo (3,9%) si registra tra le famiglie con a capo un ultra 64enne mentre quello massimo (10,4%) interessa i nuclei guidati da under 35. La posizione professionale del capofamiglia pesa in maniera significativa: la diffusione della povertà assoluta nelle famiglie operaie è infatti doppia rispetto alla media e tocca il 12,6%.
Nel 2016 la povertà relativa ha riguardato invece il 10,6% delle famiglie residenti (10,4% nel 2015), per un totale di 2 milioni 734mila, e 8 milioni 465mila individui (14% del totale contro 13,7%). Anche questa condizione è più diffusa tra le famiglie con 4 componenti (17,1%) o 5 componenti e più (30,9%) ed i nuclei più giovani.
Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti non nasconde la situazione «di sofferenza», ma ci tiene a precisare che «il sostegno all’inclusione attiva è partito solo a settembre dello scorso anno, e quindi non produce effetti sul 2016». Detto ciò conferma l’impegno a procedere con tutti gli strumenti messi in campo che di qui a breve porteranno al raddoppio del numero di famiglie che beneficerà del Sostegno di inclusione attiva. Si passerà infatti da 100 mila a 200 mila nuclei, 800 mila persone in tutto compresi oltre 400 mila minori. Poi a fine anno decollerà il nuovo Reddito di inclusione e la situazione dovrebbe migliorare ulteriormente.

il manifesto 14.7.17
In Italia la povertà è raddoppiata in dieci anni di crisi
Rapporto Istat Povertà in Italia 2016. Nel 2016 oltre 4 milioni di persone in «povertà assoluta», erano la metà nel 2007. E aumenta anche il «lavoro povero». 8 milioni e 465mila persone, pari a 2 milioni 734mila famiglie, sono in «povertà relativa». In questa condizione si trova chi è prigioniero della «trappola della precarietà». 7 miliardi di euro all’anno sarebbero necessari per finanziare un sussidio contro la povertà. 14-21 miliardi per un «reddito minimo». In Italia è in corso una guerra economica silenziosa, ma concretissima, che precarizza tutta la vita
di Roberto Ciccarelli

Nel paese dove si salvano le banche con 68 miliardi di euro, non si trovano i 7 miliardi all’anno necessari per un sostegno «universale» contro la povertà assoluta. Senza contare i 14-21 miliardi necessari per finanziare le ipotesi di reddito minimo che permetterebbe di affrontare seriamente un nuovo problema: la «trappola della precarietà». Oggi in Italia chi lavora con un reddito basso non riesce a sottrarsi alla povertà e arrivare a fine mese.
LA CLAMOROSA asimmetria, prodotto di un gigantesco spostamento di ricchezza verso il capitale e di politiche economiche sbagliate come i bonus a pioggia o l’abolizione della tassa sulla prima casa, si ritrova nel report «La povertà in Italia» nel 2016, pubblicato ieri dall’Istat. Come sempre i dati vanno interpretati, e visti sulla tendenza di medio periodo: gli ultimi dieci anni, quelli della crisi. L’Istat sostiene che nel 2016 i «poveri assoluti» erano 4 milioni e 742 mila persone, pari a 1 milione e 619 mila famiglie residenti. La «povertà relativa» riguarda 8 milioni 465mila persone, pari a 2 milioni 734mila famiglie. Rispetto al 2015, il livello si presenta «stabile». Dato in sé preoccupante a conferma che nulla è stato fatto in quei 12 mesi dal governo Renzi, in un periodo in cui le statistiche attestavano una «crescita» che non produce occupazione fissa, né un arretramento della povertà. Tuttavia c’è qualcosa che peggiora ancora. L’incidenza della povertà assoluta sale tra le famiglie con tre o più figli minori e interessa più di 814 mila persone. Oggi aumenta e colpisce 1 milione e 292 mila minori.
PARLIAMO DI PERSONE che non riescono a raccogliere risorse primarie per il sostentamento umano: l’acqua, il cibo, il vestiario o i soldi per un affitto. Questa situazione riguarda anche coloro che possiedono un lavoro. L’incidenza della povertà assoluta è doppia per i nuclei il cui capofamiglia è un «male breadwinner» e lavora come operaio. L’Istat registra anche un’altra tendenza: la «povertà relativa» colpisce di più le famiglie giovani. Raggiunge il 14,6% se la persona di riferimento è un under35 mentre scende al 7,9% nel caso di un ultra sessantaquattrenne. L’incidenza della povertà relativa si mantiene elevata per gli operai (18,7%) e per le famiglie dove il «breadwinner» è in cerca di occupazione (31,0%). Suggestioni statistiche che indicano l’esistenza di un continente sommerso: il lavoro povero, e non solo quello della deprivazione radicale a cui spesso è associata la tradizionale immagine della povertà.
LA SITUAZIONE GENERALE è tale che Marco Lucchini, segretario della fondazione Banco alimentare onlus, ha sostenuto che oltre 80 mila tonnellate di cibo distribuite in 8 mila strutture caritative in Italia hanno arginato la crescita del fenomeno, ma non non risolvono l’emergenza sociale più dimenticata nel Belpaese. Dieci anni fa, nel 2007, i poveri assoluti erano 2 milioni e 427 mila persone. Oggi sono raddoppiati: 4 milioni e 742 mila. È uno scenario di guerra, quella economica che prosegue silente, ma concretissima, da anni. A tutti i livelli.
I RIMEDI SONO PANNICELLI CALDI. Ieri il ministro del Welfare Giuliano Poletti si affannava, ancora, nel tentativo di spiegare come il governo ha modificato i criteri di accesso alla prima, e modesta, misura «contro la povertà». Quest’anno 800 mila persone dovrebbero prima beneficiare della social card del «Sia» che sarà trasformata in corsa nel «reddito di inclusione». La sproporzione è evidentissima: solo i poveri assoluti sono 4 milioni e 742 mila persone. Ci sarebbe bisogno di una misura pluriennale crescente fino a 7 miliardi, ma i fondi stanziati resteranno fermi al miliardo. E poi dovranno essere rifinanziati. Ma questa è un’altra storia: riguarderà la prossima legislatura. Quindi un altro mondo, un altro universo, lontanissimo. Concretamente si parla di un sussidio di ultima istanza che va da un minino di 190 a un massimo di 485 euro per le famiglie più numerose con 5 componenti. Importi per di più vincolati a una serie di condizionalità che rendono tale sussidio tutto tranne che «universale».
LA DISCONNESSIONE TOTALE tra la politica economica seguita in questi 10 anni e la condizione materiale che urla da questi dati è evidente. L’Alleanza contro la povertà, il cartello di associazioni e sindacati che ha premuto per ottenere il «reddito di inclusione» chiede l’introduzione di un piano pluriennale già dalla prossima legge di bilancio che permetta a chi non ha una famiglia con figli di condurre uno standard di vita dignitoso. Susanna Camusso (Cgil) ritiene che tale «reddito» sia uno «strumento corretto da finanziare» evitando di «distribuire bonus a pioggia». Il Movimento 5 Stelle attribuisce gran parte delle responsabilità di questa situazione «all’immobilismo politico del governo Renzi». Giulio Marcon (Sinistra Italiana) fa un ragionamento di sistema: questo è il frutto del cieco rigore delle politiche Ue e dell’incapacità dei governi di uscire dalle disuguaglianze e dalla precarizzazione progressiva

il manifesto 14.7.17
Luigi Ferrajoli: «Contro le diseguaglianze ci vuole il reddito universale»
Rapporto Istat sulla povertà 2016. Intervista al filosofo e giurista Luigi Ferrajoli: «La povertà dilagante è uno degli effetti delle diseguaglianze create da politiche che hanno soppresso i vincoli del mercato». «240 miliardi di euro trasferiti dal lavoro al capitale, ora è giunto il momento di restituire il maltolto».
intervista di Roberto Ciccarelli

Luigi Ferrajoli, in dieci anni la povertà in Italia è raddoppiata. Quali sono state le politiche che hanno generato questo fenomeno?
Nasce da politiche che hanno soppresso i vincoli ai poteri del mercato che sono diventati poteri assoluti e selvaggi, hanno provocato in tutto il mondo, e non solo in Italia, un trasferimento di quote di Pil dal lavoro al capitale, dai poveri ai ricchi. Luciano Gallino calcolò nel suo ultimo libro che negli ultimi anni 240 miliardi di euro, il 15% del pil, sono stati trasferiti al capitale. È un fenomeno gigantesco, sintomo di un ribaltamento del rapporto tra politica e economia. Non è più la politica che governa la economia, ma è l’economia che detta regole alla politica. La politica ha favorito questo processo liberalizzando i capitali e abbattendo le garanzie del lavoro e i salari, cancellando i diritti.
Di recente è stata approvata una prima misura contro la povertà assoluta. La ritiene adeguata?
La forma più in accordo con il costituzionalismo, l’universalità dei diritti fondamentali e la dignità della persona è il reddito universale. Di fronte a disuguaglianze che concentrano nelle otto persone più ricche del pianeta la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale, una politica degna di questo nome dovrebbe redistribuire le ricchezze sterminate esistenti. Questa concentrazione è l’effetto di un ‘iniqua redistribuzione del reddito da parte del mercato. Per cambiare direzione occorrerebbe perlomeno la garanzia di un’equa retribuzione minima per chi lavora, stabilita dall’articolo 36 della Costituzione, e un reddito minimo garantito per chi non lavora previsto dall’articolo 38. Occorrerebbe insomma restituire il maltolto, non favorire una crescita delle diseguaglianze.
La nostra Costituzione afferma che la dignità della persona si afferma anche nel lavoro. Anche le statistiche Istat dimostrano che anche quando si lavora si continua a essere poveri. E la «trappola della precarietà» colpisce i nuclei familiari più giovani. Come si può rispettare questo principio?
Il lavoro, dice l’articolo 1 della Costituzione, è il fondamento della Repubblica. Perciò, non è una merce, ma ha un valore. Sopprimere la stabilità del lavoro con la precarietà significa sopprimere questo fondamento della nostra democrazia. C’è una massima di Kant che andrebbe ricordata ai nostri governanti: «Ciò che ha prezzo non ha dignità, ciò che ha dignità non prezzo». Se ha valore, non ha un prezzo, e perciò non si può licenziare una persona in cambio di una manciata di mensilità come ha fatto il Jobs Act cancellando l’articolo 18. Così si distrugge la dignità della persona. Questa riforma ha eliminato la garanzia su cui si regge il nostro assetto costituzionale: l’intrinseca dignità del lavoro, trasformato in merce.
I populisti usano la povertà degli italiani contro quella degli stranieri, al punto da negare i loro diritti fondamentali. Come ribaltare questo discorso?
È la strategia di tutti i populismi, a cominciare da Trump: mettere i penultimi contro gli ultimi, i poveri contro i migranti. Si ribalta la direzione della lotta di classe: non più il basso contro l’alto, ma il basso contro chi sta ancora più in basso. Così si fomenta la lotta tra i poveri e la guerra contro i poverissimi: i migranti, ad esempio. Vorrei ricordare che il diritto di migrare è il più antico diritto naturale teorizzato nel 500 da Francisco de Vitoria per giustificare la colonizzazione spagnola e lo sfruttamento dei popoli. Da allora è rimasto una norma del diritto internazionale che ha giustificato le rapine che l’Occidente ha fatto in tutto il mondo. Il diritto di migrare è stato un diritto universale riconosciuto a tutti, ma asimmetrico. Nel senso che solo gli europei potevano di fatto esercitarlo e non certo i popoli colonizzati. Oggi che il flusso migratorio si è ribaltato e sono gli altri popoli a migrare, questo antico diritto è stato rimosso e il suo esercizio è stato convertito nel suo opposto, in un reato. Le leggi odierne sull’immigrazione esibiscono questa eredità razzista.
I tagli e le politiche di austerità hanno aggredito un altro diritto fondamentale: la sanità. Dobbiamo rassegnarci alla dismissione del pubblico e alla sua gestione privatistica?
Assolutamente no. Questa azione insensata non può cancellare il diritto alla salute, che è un diritto costituzionale, base dell’uguaglianza, e perciò universale e gratuito. Una politica come quella dei ticket, insieme alla precarizzazione del lavoro e delle tutele, hanno spinto 11 milioni di persone a rinunciare alle cure anche fondamentali perché non hanno le risorse finanziare. Senza contare che la somma ricavata dai ticket è ridicola: 4 miliardi su 110 di fondo nazionale.
Nel Lazio esiste una vertenza esemplare della situazione che descrive. Dopo anni di lotte, ai lavoratori esternalizzati della Sanità regionale è stato riconosciuto il lavoro di anni. Avranno un punteggio che potranno utilizzare nei prossimi concorsi. Il governo ha impugnato davanti alla Corte Costituzionale la legge regionale. Che ne pensa?
È una decisione giuridicamente infondata perché la legge regionale non è subordinata alla legge statale. Tra l’altro la legge statale permette questi riconoscimenti a chi lavora presso le Asl e non solo a chi lavora alle loro dirette dipendenze. La legge in questione estende le tutele del lavoro sulla base del riconoscimento di titoli professionali. È insensato sanzionare una legge regionale a causa di una modestissima norma che dà un punteggio preferenziale a chi già lavora da anni nel settore e ha una professionalità attestata dalle stesse istituzioni. Gli unici a essere danneggiati saranno i lavoratori precari ed è inaccettabile.
Cosa dovrebbe fare la Regione Lazio?
Mi auguro che difenda la sua legge davanti alla corte costituzionale sperando che dia torto al governo, sulla base di argomenti anche soltanto formali; se non altro a difesa dell’autonomia e della potestà legislativa della Regione.
***
Luigi Ferrajoli è uno dei massimi teorici del diritto. Negli anni Sessanta ha partecipato alla fondazione di Magistratura Democratica, è stato magistrato presso la pretura di Prato fino al 1975 . Dal 2014 è professore emerito di filosofia del diritto a Roma Tre. È autore di più di 30 libri tradotti in tutto il mondo. Ha scritto capolavori come « Diritto e Ragione. Teoria del garantismo penale» (1989) e «Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia» (3 voll.) (2007)

La Stampa 14.7.17
Sono bambini e operai a pagare il prezzo più alto della crisi
Quelli bisognosi sono quadruplicati rispetto agli anni precedenti al 2008 La ripresa sociale è più lenta di quella economica: è necessario intervenire
di Linda Laura Sabbadini

La povertà assoluta non cala e per di più quella dei minori, già alta, cresce in modo consistente. Siamo il Paese dove le nascite sono sempre meno e i bambini sono sempre più poveri.
Possibile? Sì, i dati ufficiali ci dicono che la situazione è grave. La povertà assoluta tra i minori era già triplicata dal 2007 al 2013 e ora, dopo due anni di stabilità, ricomincia ad aumentare: rispetto alla situazione pre-crisi, la percentuale di bambini poveri è quadruplicata.
I minori in povertà assoluta sono 1 milione 292 mila (12,5%), circa 200 mila in più dell’anno precedente. A peggiorare sono soprattutto le famiglie con tre o più figli minori, in particolare nel Mezzogiorno, tra le quali oltre un quarto è ormai in povertà assoluta.
Nel corso degli anni, anche la situazione dei giovani (18-34enni) è enormemente peggiorata: nel 2016, i poveri assoluti raggiungono il 10%, quando nel 2007 erano solo il 2,7%. Nello stesso periodo, solamente gli anziani hanno avuto una dinamica positiva, passando dal 4,4% al 3,8%. La mappa dei rischi si è ribaltata, e oggi bambini e giovani presentano l’incidenza di povertà assoluta più elevata, gli anziani la più bassa.
Ma che cosa sta succedendo? Eppure, negli ultimi anni, sul fronte della situazione economica si registrano segnali positivi. L’Italia, infatti, dopo aver scontato una crisi più lunga e profonda rispetto a gran parte dei Paesi Ue, la cui ripresa aveva cominciato a consolidarsi già a partire dal 2013, ha avviato un lento recupero solamente tra il 2014 e il 2015. La moderata crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto, a cui ha contribuito la frenata della dinamica inflazionistica, ha favorito nel triennio 2014-16 un recupero della spesa per consumi e un leggero aumento della propensione al risparmio. In altri termini, le famiglie hanno ripreso a spendere grazie alla maggiore disponibilità di reddito e a livelli di propensione al risparmio inferiori a quelli del periodo pre-crisi.
Anche le forme di indebitamento, che avevano caratterizzato il comportamento di consumo negli anni più difficili, si sono in parte alleggerite, con conseguente diminuzione della vulnerabilità finanziaria delle famiglie. La crisi sociale è tuttavia più lunga della crisi economica e più difficile da riassorbire. Se il 2014 segna l’anno di uscita dalla recessione economica, segna anche uno dei valori più elevati in termini di povertà assoluta. Miglioramenti economici ci sono stati, lo abbiamo visto, ma non hanno coinvolto coloro che vivono in situazioni di grave disagio economico e non si sono quindi tradotti in una riduzione delle disuguaglianze.
La crescita dell’occupazione di questi anni ha riguardato soprattutto gli ultracinquantenni, che permangono più a lungo nel mercato del lavoro, e non ha coinvolto sensibilmente le famiglie più giovani, né quelle di età intermedia, le famiglie cioè dove vivono anche i minori. La grave condizione dei minori si lega quindi a quella dei loro genitori che se disoccupati o appartenenti alla classe operaia hanno pagato il prezzo più alto della crisi. Sì, proprio loro. Le famiglie operaie in povertà assoluta sono passate dall’1,7% del 2007 al 12,6% del 2016, quindi una quota sei volte più alta della situazione pre-crisi. Al contempo, le famiglie con a capo un disoccupato sono passate dal 7% al 23,2%. Si tratta di famiglie che vivono soprattutto nel Sud che, nonostante nel 2016 non abbiano registrato un ulteriore peggioramento, presentano livelli di povertà assoluta quasi doppi rispetto a quelli del Nord, soprattutto nel caso di famiglie composte esclusivamente da italiani.
Alla luce di questi dati è fondamentale rivedere al rialzo l’entità degli stanziamenti per combattere la povertà nel nostro Paese. Bisogna accelerare la messa in atto delle misure previste ed estenderle, coscienti che le priorità sui target devono essere identificate sulla base dei dati di povertà e dei segmenti più a rischio. Bisogna investire di più sui minori e sui giovani, piuttosto che sugli anziani, bisogna alleggerire procedure, rendere tutto più fluido. C’è l’urgenza di attivare politiche di sostegno e inserimento nel mercato del lavoro.
Arriviamo troppo tardi a definire le politiche e ci mettiamo troppo tempo ad attuarle. La gravità della situazione sociale deve indurci a fare in fretta e a tarare adeguatamente le misure. I bambini sono il futuro del nostro Paese, non possono aspettare, dobbiamo strapparli subito dalla povertà, prima che sia troppo tardi.

il manifesto 14.7.17
Landini lascia la Fiom, arriva Re David
Assemblea Generale. «Mi dimetto, la vecchia segreteria rimette il mandato». Poi l’assist alla «nuova segretaria»: «Le soluzione transitorie sono come le firme tecniche, servono continuità e innovazione». L’addio di «Maurizio» è stato digerito dal popolo della Fiom grazie ad un sapiente distillato di annunci nelle ultime settimane. Oggi l’elezione della prima donna
Francesca Re David e Maurizio Landini
Massimo Franchi
Edizione del
14.07.2017
Pubblicato
13.7.2017, 23:59
Chi si aspettava un lungo discorso per prendere commiato che ripercorresse i sette anni di lotte, vittorie e sconfitte è rimasto deluso. Il discorso di addio di Maurizio Landini alla Fiom «è il più breve che gli ho sentito fare in questi anni», ricorda divertito Enzo Masini. Qualche occhio lucido c’è, a volte anche i suoi. Che fanno da contraltare alla seriosità della giacca con cravatta «rossa Fiom» sfoggiata per l’occasione. L’aver distillato gli annunci nelle scorse settimane ha ridotto il pathos dell’Assemblea generale che questa mattina ratificherà il passaggio di consegne con Francesca Re David.
In quindici minuti Landini usa «la franchezza che conoscete» per spiegare la sua scelta e fissare i binari su cui la Fiom continuerà a muoversi nei prossimi anni. Lo fa già nel ruolo di «segretario confederale» e quindi di «centro regolatore», la vetusta espressione che si usa in Cgil per definire la voce dell’organizzione. Usa sempre il «noi», parlando sempre a nome della Fiom in cui ha passato tutta la sua carriera sindacale. Solo nel finale gli scappa un «vostra», ma poi si riprende.
LA PRIMA SORPRESA del suo discorso riguarda proprio l’indicazione dei tempi che sotterra la possibilità di un traghettamento di Re David fino al congresso del prossimo anno. «Le soluzioni transitorie sono come le firme tecniche, una cazzata», dice facendo riferimento a quelle chieste dalla Cgil ai tempi di Pomigliano sul contratto Fiat. «Quando si elegge un segretario, si elegge un segretario: è una cosa seria. Quando si dura dipende poi da quello che si fa, ma pensare a incarichi a tempo farebbe male alla Fiom e alla persona», chiosa sul tema.
L’altra novità è «che l’intera segreteria rimette il mandato nelle mani del nuovo segretario come assunzione di responsabilità perché non è importante la fedeltà a qualcuno ma la lealtà all’organizzazione». Concetto ripreso dalla segretaria in pectore nel pomeriggio: «A settembre proporrò un allargamento della segreteria nazionale a cui anche la Cgil porterà un contributo»; «no ad una segreteria di transizione, il cambiamento va messo in pratica da subito», spiega Re David. Il tutto in nome «della reciprocità e normalità dei rapporti» fra Cgil e Fiom a chiudere anni di baruffe e portando un segretario in confederazione 16 anni dopo Angelo Airoldi con «l’obiettivo di arrivare ad un congresso unitario» nel prossimo autunno.
LA STAFFETTA Landini- Re David ha due punti fermi: «la continuità e un processo di rinnovamento». «L’esperienza mi ha rafforzato l’idea che fare il segretario della Fiom è bello ma complicato, nessuno nasce imparato. Serve esperienza sul piano contrattuale e dell’organizzazione. Servono conoscenze, capacità di relazione e di lavorare collegialmente». Il punto diventa un’autocritica: «Francesca ha una capacità di ascolto più alta di quella che ho avuto io». Quindi se la continuità significa «rispetto dell’identità che abbiamo costruito» dovrà andare di pari passo «con la sperimentazione e il rinnovamento che abbiamo già in parte praticato, non solo sul piano generazionale ma del nostro modo di lavorare e ragionare specie nell’innovazione contrattuale». Attenti però a non arrivare allo scontro generazionale o alla rottamazione: «L’età non è mai sinonimo di innovazione: i segretari più innovativi sono stati quelli che avevano l’età più alta», dice senza citare Sabattini.
Re David dunque è stata scelta per quello che l’ex rappresentante della minoranza camussiana Gianni Venturi definisce «profilo istituzionale», auspicando una gestione unitaria anche in Fiom.
LA CARATTERISTICA principale è però quella di essere la prima donna alla guida della Fiom in 116 anni di storia. «La scelta di una donna ci richiama alla cultura della diversità, di un processo che dovremo portare avanti, come anche da richiami fatti al sottoscritto in questi anni». Come nota più tardi il segretario confederale Franco Martini (presente al posto di Susanna Camusso, a Bruxelles per un convegno su Bruno Trentin) fa della Cgil l’organizzazione più femminista in Italia: «sono donna il segretario generale e da domani quattro delle prime cinque federazioni» (Filcams, Fp, Fiom e Flai ), creando un problema al contrario», scherza, «mentre l’organizzazione invece continua a basarsi su logiche maschiliste», conclude più serio.
Solo l’ultimo passaggio della relazione Landini la dedica ad un bilancio della sua gestione parlando della «riconquista del contratto nazionale unitario votato da tutti (tranne gli artigiani), mentre all’inizio del mio mandato non ne avevano neanche uno unitario».
DA LUNEDÌ LANDINI prenderà possesso del suo nuovo ufficio al secondo piano di Corso Italia. La prima segreteria nel pomeriggio definirà le deleghe accordate da Susanna Camusso. Che come annunciato ieri dal nuovo vicino di corridoio Franco Martini saranno in primis «la politica industriale» ora nelle mani di Vincenzo Colla, emiliano come lui e ad ora più serio candidato alla successione di Susanna Camusso assieme a Serena Sorrentino.
E PROPRIO IL CONGRESSO è stato un tema lungamente trattato da Landini, naturalmente senza mai parlare di una sua possibile candidatura. L’obiettivo per adesso è un altro: «La Cgil senza pluralismo non è la Cgil. Abbiamo davanti una fase molto complicata e difficile per fare scelte strategiche. La mia entrata in segreteria confederale è un messaggio di libertà di discussione, senza posizioni precostituite, non contano le rendite ma le idee. Mi batterò per regole democratiche perché ogni iscritto possa contare», spiega. L’urgenza è reale: «Dobbiamo fare in fretta dei cambiamenti perché diversamente nei prossimi anni è a rischio l’esistenza stessa del sindacato generale». Un cambiamento «per ricostruire un’unità vera del mondo del lavoro fondando sull’autonomia un nuovo progetto di modello sociale», conclude. Sembrano le parole dei tempi della Coalizione sociale. E invece sono la via per arrivare a cambiare la Cgil. L’applauso della platea è lungo, ma nessuna standing ovation. Il passaggio di consegne è già stato digerito. Il popolo della Fiom va avanti. Anche senza Maurizio.

il manifesto 14.7.17
Landini, sette anni in salita combattendo per i diritti
Landini, da Pomigliano al passaggio in Cgil. Il duello con Marchionne e vinto grazie alla «via giudiziaria». La sovraesposizione mediatica
Maurizio Landini a piazza San Giovanni
Massimo Franchi
Edizione del
14.07.2017
Pubblicato
13.7.2017, 23:59
Quando fu eletto segretario generale il primo giugno del 2010 in pochi conoscevano Maurizio Landini. Certo, era segretario nazionale della Fiom, aveva seguito vertenze «rognose» come Electrolux, Piaggio, Indesit ma nessuno poteva prevedere come «l’uomo con la maglietta della salute» potesse diventare un punto di riferimento per la riconquista della dignità «di chi per vivere deve lavorare».
SCELTO DAL CONTERRANEO reggiano Gianni Rinaldini si propone in continuità nel periodo già lungo dei contratti separati. Proprio in quei giorni però sta per scoppiare la bomba Fiat, quella che segnerà tutta la segreteria Landini. Il «ricatto» di Marchionne parte da Pomigliano, la fabbrica napoletana che diventerà il simbolo della strategia del «manager col maglioncino». In cambio del lavoro e di un nuovo modello – la Panda – ai sindacati e ai lavoratori viene chiesto di rinunciare a buona parte dei diritti conquistati: diciotto turni, pause ridotte da 40 a 30 minuti, aumento dello straordinario obbligatorio e, «più «inaccettabile di tutto», la clausola di salvaguardia sugli scioperi che sanziona lavoratori e organizzazioni che dichiarano scioperi. Il tutto in deroga al contratto nazionale costruendone in pratica uno nuovo: il Contratto collettivo specifico di lavoro.
Landini va a Pomigliano e, nonostante le forti pressioni anche dentro la Cgil per «una firma tecnica», guida la protesta al «modello Marchionne» e la campagna sul No al referendum che si tiene il 22 giugno e il plebiscito voluto da Marchionne e dai sindacati firmatari (Fim, Uilm, Fismic, Ugl) si ferma al 63,4 per cento. Nonostante tutto il mondo politico si schieri per il Sì la Fiom da sola porta il No ad oltre il 36 per cento. Da lì parte la battaglia per i diritti che porta alla grande manifestazione di piazza San Giovanni a Roma del 16 ottobre con un milione di persone, la prima in cui sul palco salgono non solo sindacalisti e lavoratori ma Gino Strada di Emergency e il comitato per l’acqua pubblica inaugurando un modello innovativo di alleanza sociale che si allargherà a Libera di Don Ciotti, a Stefano Rodotà a Gustavo Zagrebelsky.
SE SUL PIANO MEDIATICO è imbattibile e viene conteso da ogni talk show – da Santoro a Mediaset per finire a La7 perché come ha ricordato ieri Canio Calitri «la crediblità gli viene dal fatto che in tv dice le stesse cose che dice in fabbrica» – a livello organizzativo a Corso Trieste lascia molto a desiderare: accentratore e poco incline all’ascolto in molti territori l’organizzazione ha problemi non da poco.
Se la Fiom torna (o diventa) un punto di riferimento perfino per giovani, precari e disoccupati, Marchionne può sempre sostenere di aver vinto la sua guerra: a Mirafiori vince solo con il 54% (e fra gli operai perde) ma il suo modello si allarga e, “grazie” all’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori abilmente utilizzato, caccia la Fiom e la Cgil dalle sue fabbriche: a livello aziendale solo i sindacati firmatari degli accordi possono essere rappresentati.
Le foto dei delegati di Mirafiori che fanno gli scatoloni e arrotolano le foto di Berlinguer e Trentin fanno il giro del mondo. Ma lì parte la «via giudiziaria» e la controffensiva della Fiom. Che rientra in fabbrica «con la Costituzione in mano» grazie alla sentenza della Consulta del 3 luglio del 2013 che sanziona come illegittima la norma ristabilendo la rappresentanza per il maggior sindacato italiano anche nelle fabbriche ormai diventate Fca con sede legale in Olanda e quotata a Londra e poi a New York.
A posteriori si può dunque sostenere che se Marchionne non ha chiuso fabbriche in Italia lo si deve in buona parte alla battaglia Fiom. E non certo all’azione sindacale sempre acritica degli altri sindacati.
Ridurre però i sette anni di Landini alla sola battaglia con Marchionne è riduttivo. L’autonomia e l’indipendenza dei metallurgici della Cgil in piena coerenza con la lezione di Claudio Sabattini sono state riconquistate grazie a proposte innovative come l’uso dei fondi pensione per investire in Italia, la battaglia per una industria verde, le tante vertenze (le manganellate prese con gli operai delle acciaierie di Terni) in cui si è riusciti a rilanciare aziende date per morte, l’alleanza coi precari, la democrazia (il voto dei lavoratori) come precondizione per qualsiasi accordo.
L’ERRORE PRINCIPALE che si imputa a Landini è la presto sotterrata “Coalizione sociale”. Forse lusingato dall’attenzione che media, professori, vip e tanti politici, lancia la manifestazione di piazza del Popolo il 28 marzo 2015 viene da molti (Il Fatto in testa) percepita come la nascita di un partito o come la disponibilità di Landini a sfidare Renzi. In realtà lo stesso Landini fissa un obiettivo molto più sindacale: «Riunire il mondo del lavoro».
Ma tutto finisce lì e il flop è fragoroso.
Da quel momento però Landini corregge la sua posizione, si concentra solo sul sindacato. L’obiettivo è di «riconquistare un contratto nazionale unitario» dopo gli ultimi due separati. La traversata del deserto è lunga e faticosa: parte con il ricostruire i rapporti con Fim e Uilm e passa per una lunghissima trattativa con Federmeccanica. I compromessi accettati sono molti e duri da digerire: il welfare aziendale come quasi unica voce di aumento salariale, lo spazio lasciato al contratto aziendale di secondo livello. Ma l’obiettivo viene raggiunto. A questo punto Landini considera «conclusa una fase». E decide che è «venuto il momento di provare a cambiare la Cgil». Di certo la sfida maggiore delle non poche che ha già affrontato.

Corriere 14.7.17
L’italia che scappa di mano
di Ernesto Galli della Loggia

L’ Italia è di chi se la vuol prendere, da noi chiunque può fare quello che vuole. E quasi sempre lo fa. Oggi, nei giorni di una torrida estate che sembra conferire a ogni cosa i colori e i calori di un non troppo metaforico inferno, questa è l’immagine che il nostro Paese da di sé. Quella di un Paese in cui il governo e con lui tutti i pubblici poteri appaiono sul punto di perdere il controllo del territorio. Sono parole pesanti, lo so, e non prive anche di precisi echi ideologici, ma a un certo punto bisogna convincersi che la realtà non è né di destra né di sinistra. È la realtà e basta.
Una brutta realtà. Dalla Sicilia alla Calabria, alla Basilicata, a Napoli, decine di incendiari spinti da interessi criminali mettono tranquillamente a fuoco vastissime zone della Penisola. Da giorni, sotto la minaccia delle fiamme, città, paesi, centri turistici devono essere sgombrati precipitosamente senza che per ora si sappia di uno solo di questi delinquenti scoperto, arrestato e incriminato. Nelle periferie delle grandi città, in questa stagione ancora più soffocanti e orribili, dove i servizi sono perlopiù al collasso, può capitare benissimo — come capita a Roma — che dopo il tramonto sia virtualmente in vigore il coprifuoco, che viaggiare su un autobus la sera rappresenti un pericolo, che il cielo si copra per giorni e giorni dei fumi tossici dei materiali più inquinanti bruciati illegalmente; o — come capita a Milano — che interi caseggiati, interi gruppi di palazzi, e piazze e vie, siano di fatto nelle mani di bande di malavitosi abituati a farla da padroni.
Dappertutto nelle periferie dei grandi centri urbani della Penisola regnano praticamente indisturbati lo spaccio, la prepotenza, le risse continue specialmente fra immigrati. In questa stagione più che mai le classi meno favorite della popolazione sentono la loro esistenza quotidiana abbandonata dai poteri pubblici in una vera e propria terra di nessuno.
Le zone centrali e/o cosiddette residenziali non se la passano meglio. Sindaci pusillanimi e preoccupati solo dei loro interessi elettorali (percepiti peraltro con la miopia tipica di una classe di nani politici quali sono in larghissima maggioranza quelli di questi anni infausti) hanno lasciato dovunque dilagare le movide notturne: in pratica la licenza di fare ciò che vogliono rilasciata a coorti di giovani perlopiù desiderosi di ubriacarsi e di schiamazzare all’aperto, ma essendo sempre pronti alla rissa, al vandalismo, al gesto teppistico. Di fatto molte zone centrali (ma non solo) di un gran numero di città italiane stanno diventando di notte letteralmente invivibili.
Ma sempre più spesso lo sono anche di giorno. Numerose strade del centro di Roma sono ridotte ad esempio a una sorta di suk con decine e decine di luride lenzuola stese per terra a mostrare impunemente le più varie merci contraffatte, mentre schiere di altri abusivi non si stancano di circondare dappresso i turisti con la loro mercanzia. Sempre a Roma può capitare che per tutta l’estate un club privato organizzi per i festini dei suoi soci illustri spettacoli di fuochi artificiali e di botti assordanti che si prolungano anche dopo la mezzanotte: il tutto a poche centinaia di metri dal Comando generale dell’Arma dei Carabinieri. A Torino, sui lungo Po e dintorni nulla e nessuno sembra in grado di fermare il commercio clandestino di alcool ad opera specialmente di rivenditori bengalesi, all’occasione protetti contro le forze dell’ordine dalla complicità omertosa della collettività dei loro clienti. A Milano, dopo una certa ora il centralissimo corso Como si tramuta da luogo di abituale rifornimento della droga in una specie di zona di caccia libera dove, come riportano le cronache, è altissima la probabilità di essere aggrediti da bande di maghrebini a caccia di orologi e portafogli. Sia a Roma che a Torino che a Milano e in altre decine di città d’Italia, poi, la prostituzione — spessissimo minorile, spessissimo collegata alla tratta e a reti criminali africane o est europee — occupa impunemente di notte le zone urbane che più le aggradano: un fenomeno che per vastità non trova paragone in nessun’altra città dell’Europa occidentale.
Dappertutto infine, per dirne ancora una, specie dopo una certa ora le stazioni ferroviarie sono luoghi frequentabili solo a proprio rischio e pericolo, così come dappertutto o quasi le corse serali o notturne sui treni vicinali o regionali sono altamente sconsigliabili per le donne.
La realtà, dicevo all’inizio, non è né di destra né di sinistra, è la realtà e basta. E la realtà odierna dell’Italia è questa: una realtà che sta scappando di mano. Di fronte alla quale viene da chiedersi se il ministro degli Interni — cui spetta principalmente l’onere di provvedere in prima persona nonché istruendo e sollecitando prefetti, questori ma anche i sindaci e i corpi di polizia urbana — viene da chiedersi, dicevo, se il ministro Minniti sia informato adeguatamente di questa grigia realtà capillarmente diffusa. Se egli si rende conto che agli occhi di un numero crescente di italiani il loro Paese sta diventando un luogo sempre più difficilmente abitabile, un luogo tale da apparire addirittura ostile. Se egli si rende conto che anche l’allarme che in tanti nostri concittadini suscitano le ondate di immigrati è enormemente accresciuto dalla loro percezione di questa precarietà ambientale che monta, dalla sensazione di un degrado dei contesti urbani prodotta da incontrollati fenomeni di illegalità. Se non gli venga il sospetto, infine, al nostro Ministro, che pure la difficoltà dell’Italia di farsi ascoltare quando si tratta d’immigrazione, di farsi prendere sul serio dai suoi partner europei, forse dipenda per l’appunto dalla sua immagine di un Paese che, si sa, è abituato al disordine, al tirare a campare, alla prassi di un comando della legge sempre elastico e contrattabile.
Ma non basta. Di fronte all’Italia così malmessa di oggi è pure inevitabile chiedersi quale sia stata l’azione della magistratura. Se essa sia stata effettivamente all’altezza del suo compito di tutela giuridica della comunità tutte le volte, ad esempio — le non poche volte, direi — che è parsa indulgere a interpretazioni dei delitti e delle pene ottimisticamente irreali.
Una magistratura che prontissima e ferratissima nel criticare l’azione legislativa dell’esecutivo quando si tratta di quella che essa ritiene la propria sfera d’interessi e di prerogative, è viceversa timidissima quando si tratta di proporre, lei, leggi o procedure efficaci per difendere gli interessi elementari dei cittadini.

Il Fatto 14.7.17
La stalla fascista, i buoi sono già usciti
di Antonio Padellaro

Nella vicenda di Punta Canna l’attenzione mediatica si è comprensibilmente concentrata sugli aspetti offensivi e grotteschi (l’apologia del fascismo del duce balneare Gianni Scarpa) tralasciando il messaggio politico più insidioso condensato nel cartello pedagogico che recita: “In un paese devastato da ladri istituzionali e maleducati qui ci sono le regole che mancano, ordine, pulizia , disciplina, severità”. Nel mondo a parte che l’Italia democratica e antifascista si rifiuta di frequentare quelle parole sono senso comune e suscitano approvazione. Parliamo delle fiaccolate che divampano da Nord-est a Nord-ovest ogniqualvolta si annunci l’arrivo di extracomunitari richiedenti asilo o irregolari. E non importa se molti o pochi ma per questioni diciamo così di principio (immigrati fora dai ball). Parliamo del cosiddetto popolo della popolare Zanzara, su Radio24, che ogni pomeriggio scatena gli istinti peggiori contro extracomunitari, rom, ebrei, comunisti gay e assimilati, straordinaria materia di studio per comprendere “il presente che nutre il fascismo” (Nadia Urbinati su la Repubblica). Parliamo della realtà che formicola sotto la superficie della Repubblica nata dalla Costituzione, un’Italia che per mille motivi si sente calpestata e che ricicla simboli del passato anche i più abietti con la stessa voluttà di chi spacca a sassate le vetrine per lasciare comunque un segno. Un’Italia sporca, brutta e cattiva che a lungo andare potrebbe riservarci qualche non gradita sorpresa, come è accaduto all’America che ha portato in braccio Donald Trump alla Casa Bianca.
Da questa sommaria lista abbiamo volutamente escluso le forze cosiddette “populiste” come la Lega di Matteo Salvini e i 5Stelle per la semplice ragione che pur coltivando con diversa intensità xenofobia e cultura antimoderna rappresentano, ancora, dentro le istituzioni, un argine e insieme un filtro alle pulsioni più allarmanti della crescente rabbia collettiva. Ecco perché certamente animato dalle migliori intenzioni il ddl Fiano che inasprisce le sanzioni contro i comportamenti apologetici del fascismo appare come una medicina tardiva e inefficace. Come sempre accade quando si tenta di colpire gli effetti e non le cause della malattia.
Il fascismo del presente, del resto, vive e lotta a pieno titolo nelle istituzioni democratiche. Quelli del movimento di Casa Pound, per esempio, autoproclamatisi “fascisti del terzo millennio”, nella tornata amministrativa di qualche giorno fa hanno colto un lusinghiero successo a Lucca (quasi l’8%) e per un soffio non ha determinato l’elezione a sindaco del candidato del centrodestra. Bissando così il 6% dell’anno scorso a Bolzano (da uno a tre consiglieri) dove addirittura hanno sperimentato prove di dialogo col Pd. Per non parlare di Monza dove l’altro ieri è stato nominato un assessore del movimento neonazista LibertàAzione.
Perciò vorremmo chiedere pacatamente a Fiano come sia possibile oggi impedire ai corpi militarizzati di Casa Pound di esibire labari e braccia teso nelle sfilate per le strade di Roma o di Milano quando proprio predicando ordine, pulizia, disciplina, severità, ovvero i medesimi “valori” del camerata con la bandana di Chioggia stanno in modo del tutto legittimo raccogliendo vasti consensi tra gli elettori? Ha un senso chiudere la stalla quando i buoi sono scappati da quel dì, e ci riferiamo ai tanti giovanotti e giovanotte che in quei lugubri raduni inneggiano al duce senza averne la minima cognizione storica, mossi esclusivamente dall’impulso di sputare sulla democrazia come se fosse un app da cancellare sull’iphone. Intollerabile certo, ma esattamente come risulta insopportabile la solita frase fatta che accompagna i rituali dibattiti “sul ruolo della scuola che dovrebbe educare i giovani al rispetto della memoria”.
Al che per reazione uno davvero diventa fascista anche se non vuole. È chiaro a tutti che il fascismo contemporaneo si nutre anche dei problemi lasciati per troppo tempo a marcire dalla democrazia, che esso cresce e prospera sullo sputtanamento progressivo della politica, sulla distruzione del lavoro, sulle guerre infinite tra i poveri italiani e gli immigrati ancora più disperati, sulla solitudine esistenziale che alligna sulle “macerie dell’etica comunitaria” (Urbinati).
Ma soprattutto la voglia di un “uomo forte” è come un pugno sul tavolo davanti all’ossessiva coazione a ripetere che ogni sera ci giunge dagli schermi televisivi. Finché capita che Vittorio Feltri interpellato per la milionesima volta sulla questione che mai sarà risolta dell’immigrazione prorompa in un liberatorio : “Basta non ne posso più” e se ne vada a cena. Che fu in fondo lo stesso grido esausto con cui la democrazia liberale esalò l’ultimo respiro prima dell’avvento del bagnino Benito.

Il Fatto 14.7.17
L’italia brucia e il governo smonta i parchi
di Vittorio Emiliani

Nello spettacolo drammatico del fuoco che divora migliaia di ettari di bosco nel cuore del Parco Nazionale del Vesuvio a vantaggio degli abusivi o del Parco regionale dei Nebrodi da tempo nel mirino della mafia si rispecchia un autentico “smontaggio” dello Stato, ad ogni livello.
Dopo mesi di primavera precoce, le Regioni per la loro parte e il Ministero dell’Ambiente hanno predisposto per tempo i piani di azione e di prevenzione anti-incendio previsti dalla legge e più che mai indispensabili con l’aumento delle temperature? Non sembra proprio. In regioni strategiche – dall’Abruzzo alla Sicilia – non c’erano mezzi aerei di contrasto.
Il cambiamento climatico è un fatto, la desertificazione in Italia avanza da Sud a Nord: a che punto è l’attuazione della legge del 2000 sui catasti comunali dei terreni bruciati dove non si può né si deve costruire? Molto indietro. In compenso in Sicilia si continua ad avere un mega-organico di forestali i quali “hanno bisogno” di incendi da spegnere. Ci siamo capiti.
Nell’“orribile” 2007 furono 308 le richieste di intervento anti-incendio fra aprile e luglio, quest’anno sono già 430 e il fuoco non dà tregua. Nel Lazio, regione fertile per abusi e speculazioni edilizie, i roghi sono aumentati del 400%. Ma il ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti continua a parlare di “piromani” e ad “auspicare” più repressione. Già nel 2003 in Sicilia studi seri individuavano soltanto 4 cause naturali o accidentali di incendio, 101 “dubbie”, 25 colpose e ben 488 dolose (79%) su 618. Gli incendi estivi fanno parte del “fatturato” dell’economia criminale? Sì, dov’è lo Stato?
Lo Stato e per esso il governo, prima Renzi, poi Gentiloni, si è industriato in autentiche “controriforme” o in vere e proprie latitanze: 1) la situazione dei Vigili del Fuoco, uno dei corpi pubblici più efficienti, pronti al sacrificio, più vicini alle popolazioni colpite da ogni sorta di calamità, da ultimo il terremoto fra Lazio, Marche, Abruzzo sono da anni sotto organico di 3000 unità, con un’età media sui 50 anni, stipendi fra 1300 e 1500 euro appena e continui pensionamenti che le 2400 assunzioni del 2013 non compensano. Nell’era Berlusconi, loro come altri Corpi specializzati sono stati penalizzati e indeboliti rispetto alla Protezione Civile sacrificando grandi competenze.
2) La criticatissima “riforma Madia” della Pubblica Amministrazione, proprio mentre il cambiamento climatico ne esigeva il potenziamento specifico, ha cancellato dalla scena dei nostri monti la Guardia Forestale che tanti meriti si era conquistata in cento anni assecondando una importante ripresa della forestazione (spesso non pianificata purtroppo) su 3 milioni e mezzo di ettari aumentando notevolmente il miliardo e 24 milioni di tonnellate di carbonio organico sottratto all’atmosfera inquinata. Lo smembramento del Corpo Forestale assorbito nei Carabinieri dei Noe e il passaggio di competenze alla Protezione Civile “ha di fatto derubricato la questione incendi abbandonando le attività essenziali e strategiche di prevenzione”, si legge in una penetrante interrogazione dell’on. Serena Pellegrino (Si) e da altri.
Gli incendi stanno allontanando dalle montagne e persino dalle coste del Sud decine di migliaia di turisti. Un altro boomerang in piena fronte. Ma al Senato riemerge, pur modificata in qualche parte, la legge Caleo (Pd) che indebolisce il governo dei Parchi Nazionali nostra immensa ricchezza igienico-sanitaria, biologica, turistica, da tutelare metro per metro. E intanto bruciano boschi secolari, vengono carbonizzati nidi e covi di uccelli, di animali selvatici, rettili, insetti utili. E da questi terreni montani “cotti” a dovere aspettiamoci altri guasti con le piogge di novembre: frane, colate di fango, alluvioni. Altre tragedie da rincorrere.

La Stampa 14.7.17
Descalzi: “Accesso all’energia e istruzione. Solo così si ferma l’esodo dall’Africa”
L’ad di Eni: nessuno vuole lasciare la propria terra, creiamo cultura industriale
di Marco Zatterin

Si fa grave il tono della voce di Claudio Descalzi quando comincia a parlare del dramma dei migranti in fuga dall’ex «continente nero». «Nessun africano ha voglia di lasciare l’Africa - assicura -, è gente attaccata alla propria terra, alle tradizioni: quando scappano è perché non possono farne a meno, perché hanno problemi esistenziali». Conosce bene il problema, l’ad dell’Eni che, non a caso, è la più africana delle imprese italiane, oltre 8 miliardi di investimenti in 16 Paesi. Per questo si rammarica di come l’Europa, e non solo, ha concepito le politiche oltre il Mediterraneo. Per questo invita a un salto di qualità. Come? «Pensando al lungo termine quando si investe - risponde svelto - . Non solo al profitto immediato, ma alla sostenibilità del business».
È un punto di filosofia di impresa che impone una svolta di etica politica e un maggiore orgoglio politico. «Se l’Africa è il continente che cresce di più, e ne abbiamo bisogno - spiega il top manager milanese -, allora l’Europa deve trovare una visione unitaria per aiutare se stessa, sostenendo l’Africa. Se aiuti il tuo interlocutore a diventare più forte, sei più forte anche tu».
Cosa non ha funzionato?
«È il modello prevalente di sviluppo postcoloniale in Africa che ha mostrato limiti di sostenibilità: è quello che ci ha visti andare, esplorare e sfruttare i campi petroliferi, però esportando tutta la materia prima. Abbiamo lasciato l’Africa senza energia, dunque senza sviluppo e diversificazione industriale».
Di qui le migrazioni...
«Un esodo così forte è stato esacerbato dall’assenza di diversificazione. Il prezzo basso di petrolio e gas, lontano dalla soglia di profitto, ha causato ulteriore povertà in un sistema già povero, provocando disperazione. Il greggio in calo ha messo in estrema difficoltà molti Paesi».
Serve un cambio di passo?
«Nel momento in cui estraggo gas, posso scegliere di esportarlo tutto, oppure solo una parte e lasciare il resto nel Paese come investimento per la stabilità. L’Eni sta facendo questo. Riducendo in parte il profitto di oggi, ma aumentando valore, sostenibilità e credibilità per il futuro. Un esempio è la Libia, dove abbiamo cominciato a distribuire gas, il sessanta per cento di quello estratto, senza obbligo contrattuale. L’effetto è che ci considerano più credibili».
L’impegno è oneroso.
«L’Europa ha messo tanti soldi a disposizione dell’Africa, centinaia di miliardi in mezzo secolo. Ma sono state iniziative più umanitarie che altro. Poche volte, sono stati dati contributi per sviluppare accesso all’energia e formazione in ambiti specifici con il necessario accompagnamento».
Sono queste le priorità «per aiutarli a casa loro»?
«Certamente. L’energia è una leva lunga, aiuta l’affermarsi di una cultura industriale e dello sviluppo. Per far rimanere le persone nella propria terra occorre farle studiare e formarle. Un 20% dei fondi vanno destinati ai giovani, 2-3 anni in cui tutti possano seguire una fase di preparazione che li porti ai mestieri che, nel frattempo, vengono creati».
L’Ue ha stanziato 2,6 miliardi per l’Africa Trust. Però la cassa è ancora vuota.
«I fondi arrivano se c’è una forte motivazione da parte di chi deve versarli, il che richiede leadership molto chiara. Succede nei governi come nelle aziende: le cose funzionano quando il vertice ci crede, sennò i soldi da soli non bastano. Occorre condivisione degli obiettivi. Se moriamo nelle burocrazie, negli attacchi politici perché qualcuno contesta idee solo perché le ha avute un altro, non c’è speranza».
Messa così, costringe a riflettere sull’assenza di leadership europea di questi mesi.
«In Europa c’è chi sottostima il problema delle migrazioni. Manca una sufficiente sensibilità del fatto che gli esodi siano un problema esistenziale gravissimo, così serio da poter far cadere qualunque struttura politica. È uno tsunami, non può essere considerato “un problema di qualcun altro”. Da noi, governo e parlamento, bussano a un’Europa che sembra non sentire. Non si accetta che sia un movimento globale che comporta conseguenze che vanno al di là del nostro continente».
Torniamo alla Libia. È la porta che bisogna chiudere.
«Stabilizzare la Libia è una questione centrale. Non è semplice. Succederà solo quando si sarà raggiunta una unità nazionale completa. C’è pressione sull’Europa ma anche sulla Libia. La questione va risolta alla radice».
È difficile, dopo che gli hai preso il petrolio per anni, convincerli alle rinnovabili?
«Il cambiamento climatico e le sue problematiche magari non sono prioritari visto i problemi esistenziali in essere. Però le rinnovabili lo sono. Abbiamo chiuso accordi di sviluppo delle rinnovabili, nel nostro ambito petrolifero, con Egitto, Tunisia, Algeria, Ghana. Discutiamo con altri 4 o 5 Paesi».
L’Enel è attiva nelle rinnovabili. È possibile una cooperazione africana?
«Siamo disponibili a studiare progetti sulle rinnovabili con chiunque e anche con Enel. Ci sono però dei vincoli. Noi operiamo all’interno delle nostre attività petrolifere, dove abbiamo terreni, strutture, reti. Lavoriamo in seno a contrattualistiche consolidate, dove possono seguirci i partner delle joint venture da noi operate. Ciò non significa che non saremmo interessati a studiarne la fattibilità».
Gira una voce nei corridoi europei. Dice che l’Italia ha risparmiato gli sbarchi dei migranti a Malta in cambio di attenzioni per l’Eni. Che ne dice?
«L’unico modo per risponderle sarebbe una citazione di Fantozzi e la Corazzata Potëmkin. Quindi non lo farò».

Repubblica 14.7.17
Evviva il padre che scende dal piedistallo patriarcale
La crisi della figura paterna e il suo possibile riscatto
di Massimo Recalcati

L’interrogativo che questo piccolo libro pone in modo nuovo riguarda quello che resta del padre nell’epoca della sua evaporazione. Questa era la domanda che mi interessava, non solo come psicoanalista, ma anche come padre: cosa resta del padre nel tempo della sua dissoluzione? Nel tempo in cui la sua autorità e la sua forza normativa sembrano essersi irreversibilmente esaurite? Dobbiamo buttare via tutto del padre? Dobbiamo dire basta coi padri? Constatare il suo coma senza speranza? Il padre è un ferro vecchio della cultura patriarcale che deve essere archiviato senza alcuna nostalgia? Il carattere neo-libertino del nostro tempo sembra non aver dubbi a proposito: si tratta di sopprimere senza indugi il padre come limite
insopportabile alla nostra libertà e alla nostra volontà illimitata di godimento. Il nostro tempo è un tempo intrinsecamente parricida. Se la figura del padre è innanzitutto quella figura che custodisce il senso dell’impossibile, il comandamento sociale oggi dominante proclama, contro ogni padre, che tutto è possibile, proclama una libertà che rigetta ogni esperienza del limite e della mancanza.
Di fronte a questa deriva che non coinvolge evidentemente solo la psicoanalisi, ma la nostra intera società, la mia prospettiva voleva essere diversa. Non unirmi al coro che celebra la morte del padre – la nudità del Re è, del resto, un’evidenza sotto gli occhi di tutti –, né essere tra coloro che ne rimpiangono nostalgicamente l’assenza – non c’è ai miei occhi niente di più odioso del paternalismo e dei suoi derivati –, ma provare a ripensare radicalmente la funzione paterna. Come? Cosa, appunto, resta del padre? Si tratta di ripensare la sua identità non più dall’alto della gloria del suo comando infallibile o del suo potere, ma, come direbbe il giovane Marx della dialettica di Hegel, “dai suoi piedi”. È questa la vera posta in gioco di questo piccolo e fortunato libro: ripensare il padre dai suoi piedi. Questo significa innanzitutto non rinunciare al padre, evitando però di situarlo nella posizione verticale dell’Ideale, del Padrone, della guida infallibile, dell’autorità che ha l’ultima parola sul senso della vita e della morte, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Significa correggere la rappresentazione patriarcale del padre. Qual è il centro di questa rappresentazione ideologica? Il padre con baffi o barba, virile, austero, maschio, sposo di una donna che vive accanto al focolare domestico, il padre depositario della parola che chiude tutti i discorsi, simbolo di una Legge che schiaccia il desiderio nutrendosi del suo potere. È questa la versione del padre del patriarcato. Ebbene, come sappiamo, questo padre è evaporato. Ma questo padre – il padre dello “sguardo severo” e della voce grossa della tradizione patriarcale – esaurisce l’essere del padre in quanto tale? Il suo tramonto non ci conduce forse a cogliere, proprio nel tempo della sua fine, della sua estinzione, il vero statuto del padre e della sua funzione? Il padre che resta al tramonto del padre del patriarcato è il padre del dono della parola piuttosto che del suo sequestro, è il simbolo di una Legge che non si realizza tanto nella proibizione e nell’interdizione, ma che sa aprire la vita alla forza del desiderio; è quella figura che sa generare un rispetto che non passa dal timore ma che si genera dalla testimonianza. Pensare il padre dai piedi significa considerare il padre come colui che porta la parola e non come colui che la rivendica di sua proprietà, come colui che sa aprire e non chiudere i discorsi, come colui che sa, attraverso i propri atti, non porsi come modello esemplare da imitare, ma come testimone. Di cosa? Del fatto che la vita può avere un senso, uno splendore, può essere sottratta alla tentazione della distruzione. In quel che resta del padre, dai suoi piedi, dalla sua caduta dal piedistallo patriarcale, è custodita, in realtà, la vera funzione del padre: umanizzare la Legge, liberarla dalla violenza cieca della Legge, unire e non opporre, come ricorda Lacan, la Legge al desiderio. In questo senso Cosa resta del padre? è un libro cristiano nel senso più radicale del termine. Esso vede nel resto del padre – del padre che resiste – l’emancipazione della Legge dal volto sacrificale, patibolare, sadico della Legge. Come Gesù afferma di essere venuto per portare a compimento la Legge – quella della tradizione ebraica – liberandola dalla sua intrinseca violenza, del carattere solo vendicativo della Legge, attraverso la potenza dell’amore, allo stesso modo il padre testimone di cui parlo in questo libro costituisce un tentativo di condurre la Legge del padre al suo compimento, ovvero liberarla da un uso solo normativo-repressivo della Legge stessa. Il padre che dice “No!” – il padre dell’interdizione –, è corretto dalla figura del padre come donatore, capace di amare e non opprimere la libertà segreta del figlio, è corretto dalla figura del padre del “Si!”. Questo “Si!” non cancella il “No!” ma porta, appunto, cristianamente a compimento la natura simbolica dell’interdizione svelandola come una donazione: la donazione della possibilità del desiderio da una generazione all’altra.
È questa la lezione che Cosa resta del padre? raccoglie da alcuni testimoni chiave e contemporanei di questa figura del padre testimone: Lacan innanzitutto, ma anche La strada di Cormac Mc Carthy, Patrimonio di Philip Roth e l’ultimo cinema di Clint Eastwood. Quale lezione? Quella che la paternità – nel tempo del declino della sua rappresentazione patriarcale – non può essere ridotta ad un evento della biologia, del sangue, della stirpe, del sesso del genitore. I padri sono in questo senso sempre molteplici e irriducibili alle vicende del romanzo familiare come, per fare un solo esempio, accade al giovane Tao protagonista, insieme al vecchio ombroso Walt, di Gran Torino di Eastwood. Il padre non coincide con lo spermatozoo: c’è padre solo dove c’è la trasmissione di una eredità capace di umanizzare la Legge, c’è padre solo dove c’è testimonianza che la vita può essere desiderata sino alla sua fine, c’è padre solo quando si offre al figlio una versione singolare della forza del desiderio, c’è padre, come afferma Lacan, quando la Legge sa incarnarsi nel desiderio.
IL LIBRO Cosa resta del padre? di Massimo Recalcati (Raffaello Cortina pagg. 140, euro 12). Il libro esce oggi con una nuova prefazione

il manifesto 14.7.17
L’insostenibile spinta del destino
Luigi Pirandello, tra libri a lui dedicati e iniziative che prendono il volo
Ricorrenze. A centocinquant'anni dalla nascita, un percorso critico sulla figura dello scrittore e drammaturgo di Sonia Gentili

«Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui».
Non deve sembrare incongruo riattraversare oggi la produzione di Luigi Pirandello, autore ben digerito dai manuali scolastici e tuttavia sfuggente alle canonizzazioni per il suo posizionamento rispetto alla nostra tradizione letteraria, partendo dalle severe indicazioni che l’autore vergò su un foglietto in merito alle proprie esequie. La volontà di essere avvolto nudo in un lenzuolo va letta naturalmente come rifiuto di indossare la maschera anche al cospetto della morte: l’attinenza di questa scelta finale con la visione del mondo dell’autore che fece delle Maschere nude il paradosso identitario su cui incardinare il proprio teatro e la propria concezione dell’io è evidente.
IL VERO DRAMMA della scena e della narrazione pirandelliana non è però di ordine rappresentativo – la cosiddetta destrutturazione dell’io, con le ovvie connessioni al contesto europeo, surrealista, cubista, psicanalitico ecc. – bensì di tipo epistemico, poiché la nudità, cioè la dimensione di verità dell’io, coincide con la negazione della sua conoscibilità. A questa aporia di fondo, che separa non tanto il vestito da chi lo indossa, quanto la conoscibilità dell’abito dall’inconoscibilità di colui che lo porta, deve riconnettersi non solo il tema fondamentale della produzione romanzesca a partire dal notissimo Uno, nessuno e centomila (iniziato nel 1909 e pubblicato nel ’25) ma anche il pessimismo ironico e molto leopardiano con cui Pirandello interroga le opposte certezze della cultura del suo tempo.
Nella novella La casa del Granella (1905), l’avvocato Zummo si trova ad affrontare con gli strumenti «positivi» e scientifici della giurisprudenza il caso che oppone la famiglia Piccirilli, inquilina di una casa infestata da spiriti, al Granella, proprietario della dimora, che nega il fenomeno. L’avvocato, esponente prototipico della cultura del suo tempo sospesa tra culto positivistico della scienza e culto misticheggiante di ciò che alla scienza sfugge, passa dall’una all’altra «fede» scoprendo che il mistero dello spirito, cioè dell’anima immortale, esiste, ma… «potevano quei poveri Piccirilli condividere questo generoso entusiasmo del loro avvocato? Lo presero per matto. Da buoni credenti, essi non avevano mai avuto il minimo dubbio su l’immortalità delle loro afflitte e meschine animelle».
caro-maestro-ca
Pirandelo con Marta Abba
IL PERCORSO CULTURALE del personaggio Zummo dalla fede nella scienza alla fede nel misticismo dell’anima è sbeffeggiato da Pirandello come banale riscoperta dell’esistenza di ciò che sfugge all’occhio umano, vissuta con la stupida esaltazione della novità. Che questo percorso non sia fantasia, ma pura realtà ideologica di primo Novecento, lo prova uno scritto di Giovanni Pascoli di sei anni precedente, cioè L’era nuova (1899), in cui si teorizza che le evidenze «positive» della scienza hanno provato l’ineluttabilità del nostro destino di morte, ma la fede religiosa ci consente il «riconoscimento e la venerazione» di tale destino.
L’ITINERARIO DI PASCOLI che parte dalla fede nella scienza per approdare a quella nel mistero della morte è analogo a quello sbeffeggiato nello Zummo pirandelliano. Tanto il misticismo scientistico – religioso di Pascoli è celebrativo e patetico, quanto la sua liquidazione è attuata da Pirandello con asciutta ironia antiprogressiva: agli ex devoti al positivismo poi riscopritori del mistero Pirandello risponde che il cammino del pensiero umano torna circolarmente sulle invarianti esistenziali; l’unica novità è l’entusiasmo, del tutto incongruo, con cui la scoperta di ciò che già si sapeva (o meglio: si sapeva di non poter conoscere) viene compiuta.
TANTO BASTA a confermare da un lato il nocciolo misticheggiante del socialismo pascoliano, sintesi di scientismo e fideismo che lo scrittore assorbì dal prete modernista Giovanni Semeria, approdato presso entrambi all’esaltazione della morte in guerra (Pascoli in occasione della campagna di Libia del 1911, Semeria come interventista nel 1914) e, dall’altro, a mostrare che l’adesione pirandelliana al fascismo, oggettiva e indiscutibile, resta inconciliabile con la filosofia dell’autore. Pirandello non ebbe un rapporto facile col regime, che al momento opportuno seppe riconoscerne e ostacolarne il formidabile potenziale antiautoritario: nel 1933 vari brani della Favola del figlio cambiato, libretto pirandelliano dell’omonima opera di Malipiero, vennero sforbiciati dalla censura mussoliniana.
Ma torniamo ancora alla nudità che Pirandello chiese per il proprio corpo defunto e di qui procediamo di nuovo verso la sua opera. Nel mondo pirandelliano la messa a nudo dell’io, cioè la sua verità, risiede nella sua inafferrabilità radicale e assoluta: La vita nuda (1907) è la celebre novella in cui si narra l’impossibilità di ritrarre fedelmente un morto nel monumento funebre a lui dedicato.
Con i nipotini
La volontà pirandelliana di sottrarsi alla celebrazione funebre e di consegnarsi nudo alla morte è, infatti, diametralmente opposta alla celebrazione del sepolcro e alla monumentalizzazione della memoria come mezzo di sopravvivenza presso i posteri che conosce nel Foscolo dei Sepolcri e nel culto neoclassico della marmorea eternità dell’arte il suo capitolo più noto. Ma in sostanza tutta la linea maestra della nostra tradizione letteraria corre sul filo del mito di eternità dell’autore attraverso l’opera resa marmorea dal sepolcro e consegnata alla memoria dei posteri.
POCHI SCRITTORI hanno avuto il coraggio intellettuale di irridere quest’immagine delle opere umane riducendola ad illusione: prima di Pirandello lo ha fatto Leopardi col mausoleo di sabbia sotto cui resta sepolto il protagonista del Dialogo della Natura e di un Islandese; prima ancora lo avevano fatto i rari autori che si usa porre nel solco di Luciano di Samosata, il grande scrittore tardoantico autore dei Dialoghi dei morti che ha inventato lo sguardo sulla terra dalla luna – cioè da un punto di vista altro, che relativizza radicalmente quello umano –preso a modello da Leopardi per la composizione delle Operette morali.
Ironia leopardiana e umorismo pirandelliano sono le maggiori forze di questa linea autoriale minoritaria eppure capitale, che rifiuta la letteratura come monumento eternatore per praticarla come indagine antropologica sulla natura radicalmente inafferrabile e transeunte dell’umano.

il manifesto 14.7.17
La storia italiana passata al setaccio
Ritratti. La scomparsa dello studioso inglese Denis Mack Smith che scrisse sul nostro Risorgimento e sul fascismo. A mediare il rapporto con il nostro paese concorse Benedetto Croce
di  Claudio Vercelli

Se ne è andato a 97 anni, dopo una vita passata a studiare l’Italia, l’Europa e, in misura di molto minore, la storia mondiale. Soprattutto si era concentrato sulla nostra Penisola, delle cui vicende più recenti era divenuto un raffinato conoscitore. Denis Mack Smith, nato a Londra nel 1920, dopo essersi laureato a Cambridge, aveva conosciuto una lunga e fortunata carriera accademica, diventando membro di istituzioni prestigiose e celebrate, come la British Academy, l’All Souls College di Oxford, il Wolfson College.
IL SUO PROFILO INTELLETTUALE, e il suo stesso aspetto, entrambi al medesimo tempo dinoccolati, austeri ma anche divertiti, sembravano contraddistinguerne l’appartenenza a una élite di pensiero depositaria delle vestigia di grandezza dell’Inghilterra. Senza eccessive pretese egemoniche, ma con un calcolato aplomb oxfordiano. In realtà, proveniva da una famiglia di ceto medio, molto distante dalle classi dirigenti coloniali e dal notabilato che avevano contrassegnato la politica del suo Paese. Così come il suo liberalismo aveva accenti a tratti radicali.
L’Italia l’aveva conosciuta e amata sui banchi del college, per poi frequentarla, a guerra conclusa, in lungo e in largo, non prima di essersi laureato con una tesi dedicata al nostro Risorgimento. Il suo primo impatto fu con una nazione dilacerata dagli esiti del conflitto. A mediarne il rapporto concorse attivamente Benedetto Croce, che gli aprì i battenti di casa, la sua biblioteca e lo accreditò presso il suo nutritissimo gruppo di amicizie e conoscenze. Queste ultime, insieme ai ripetuti colloqui con Don Benedetto, svoltisi in una sorta di impasto tra italiano e napoletano, si sarebbero rivelate strategiche nella formazione del pensiero dello storico anglosassone. Il quale, dopo avere calcato gli archivi italiani, essersi impratichito con la nostra storiografia e acclimatato, ma non addomesticato, ai regimi culturali del paese, nel 1959, per la traduzione di Alberto Aquarone, pubblicò la sua Storia d’Italia, cento anni che andavano dall’unificazione al secondo dopoguerra. La casa editrice era Laterza, allora presieduta dalla figura carismatica di Vito, e il volume, destinato nelle sue numerose riedizioni a conoscere una straordinaria diffusione e un insperato successo di pubblico, fondò una sorta di canone narrativo delle vicende peninsulari. Si trattava di un lavoro che incontrò da subito la rigida opposizione di una cospicua parte degli studiosi italiani. Così nel caso di un indomabile Rosario Romeo, ma anche di Federico Chabod e dello stesso Gaetano Salvemini, che ben prima della sua pubblicazione avevano identificato, nella stessa struttura del testo, vizi di sostanza.
L’IMPRONTA al medesimo tempo divulgativa, assertiva e vivacemente critica era messa alle corde di un preponderante giudizio di superficialità, che gli veniva attribuito come stigma inemendabile. Gli si rimproverava di affastellare fatti e personaggi, senza badare troppo a coerenze di interpretazioni, privilegiando semmai il ricorso ai bozzetti in soggettiva e pervenendo a giudizi di valore scarsamente comprovabili e comunque difficilmente condivisibili.
L’ANEDDOTICA DI CONTRO ai grandi quadri interpretativi, in altre parole. Irritava anche la sua lettura del Risorgimento, al netto di mitografie cristallizzate ma anche con un angolo visuale attento alle sensibilità europee. Vito Laterza aveva colto le opportunità critiche e anche polemiche che il libro portava con sé, laddove queste si traducevano sia in una breccia rispetto all’acribia della storiografia di taglio più strettamente accademico sia a un mercato di lettori che reclamava opere nuove, innovative nel linguaggio e nei contenuti.
Denis Mack Smith stava dentro l’uno e l’altro registro, cosa che mantenne nella sua ricchissima produzione bibliografica che arriva fino agli anni più recenti. Di certo irritavano le sue conclamate simpatie per figure «rivoluzionarie» come Garibaldi e Mazzini, di contro ai giudizi severissimi nei confronti di Cavour, della classe politica liberale e, soprattutto, della monarchia sabauda, dipinta, soprattutto nella persona di Vittorio Emanuele II, come una struttura feudale e dispotica, quasi amorale, senz’altro reazionaria. Sul fascismo lo studioso avrebbe poi licenziato sia una corposa biografia dedicata a Mussolini, pubblicata nel 1981 che, una decina di anni dopo, una indagine sulle Guerre del Duce.
PRECEDENTEMENTE, aveva già aperto un vero e proprio conflitto nei confronti di Renzo De Felice, accusandolo di andare verso i pericolosi lidi di una eccessiva condiscendenza culturale verso il capo fascista. Per Mack Smith il problema di fondo rimaneva la fragilità delle élite liberali italiane. Da ciò, e dalla incompiutezza dei processi di modernizzazione, faceva derivare le fortune del fascismo. Dello storico britannico rimane la sua solida adesione al piglio narrativo tipico di certa scuola britannica. Ripresa dal suo più importante allievo, Christopher Duggan.

Il Fatto 14.7.17
“Migranti prodotti dall’Occidente: salviamoli”
Hanif Kureishi
Lo scrittore anglo-pachistano sull’inazione europea e il caso del piccolo malato di Londra
di Andrea Valdambrini

Nel suo romanzo più noto, Il Budda delle periferie, ha descritto l’esplodere del multiculturalismo nei quartieri poveri e caotici della Londra anni ’90. Britannico di origine pakistana, romanziere, sceneggiatore (My Beautiful Laundrette è il film di Stephen Frears che lo ha lanciato nel 1985) e regista, Hanif Kureishi è in questi giorni a Roma dove ha presentato ieri sera al Festival delle Letterature di Massenzio, curato da Maria Ida Gaeta, il suo ultimo romanzo, Uno zero (pubblicato in Italia da Bompiani).
Dai tempi del Budda delle periferie a Londra di oggi, come è cambiato il multiculturalismo?
Sono nato a Londra a metà anni ’50, cresciuto negli anni ‘60 e ‘70. Durante la mia giovinezza, l’idea di una società multietnica era appena agli albori. Ho vissuto fino in fondo in un Paese che usciva faticosamente dal passato coloniale, in cui i bianchi e i loro valori rappresentavano la normalità. Finalmente, durante gli anni ’80 le persone hanno cominciato a pensare che la società era cambiata, e con essa i suoi riferimenti: grazie ai molti migranti, arrivati a Londra dopo la guerra, si era ormai un mosaico di differenze. Resta importante capire due cose: da un lato, come noi figli del multiculturalismo ci percepiamo. Dall’altro se la Gran Bretagna vuole tornare all’illusione neo-imperiale, o se invece non ha bisogno, come credo, di tornare a riflettere sul tema dell’inclusione.
Si riferisce all’impatto di Brexit sulla società?
Durante la campagna elettorale, abbiamo visto un enorme crescita del nazionalismo. È rinata l’identità britannica, l’idea della razza, perfino del sangue e il territorio. Da molto tempo non avevo sentito parole d’ordine di questo genere. Si è trattato di un’operazione che ha approfittato della debolezza di persone marginalizzate per gli effetti del capitalismo e dalla globalizzazione.
Cosa ci insegna la tragedia di Grenfell Tower, il grattacielo londinese nel cui rogo il 14 giugno sono morte 87 persone?
Latimer Road (la strada del quartiere di Kensington in cui sorgeva il grattacielo andato a fuoco ndr) è vicinissima a dove abito: ricordo il fumo, il caos, che vedevo dalla finestra di casa. Questi fatti hanno toccato direttamente poveri, rifugiati, richiedenti asilo, oltretutto in uno dei quartieri tradizionalmente più ricchi della città.
Come giudica Sadiq Khan – sindaco di Londra di origine pakistane, proprio come lei – che ha avuto un importante ruolo nella gestione dell’emergenza a Grenfell?
Lui è esattamente il simbolo della nuova Gran Bretagna, è intelligente, profondo. Speriamo che in futuro non sarà mai come Boris Johnson, che ha svenduto la città al capitalismo. Londra è diventata, anche per colpa sua, un posto dove vivono o super-ricchi o poverissimi, e questo non mi piace.
Dall’altra parte della Manica, a Calais, centinaia di disperati attendono di essere accolti nel Regno Unito. Una speranza legittima o, come dicono altri, una pretesa impossibile da soddisfare?
Chi ha prodotto i rifugiati? Risponderei il capitalismo che genera disuguaglianze, le guerre che hanno destabilizzato il Medio Oriente, il cambiamento climatico. In una parola, l’Occidente. Dobbiamo guardare alle cause prima di vedere solo il risultato. Ecco perché è nostro dovere morale accogliere queste persone.
Ha un’opinione sul caso Charlie Gard che lega idealmente il suo Paese all’Italia, in questo momento?
Da un lato c’è l’autorità dei medici e dell’ospedale che ha in cura il bambino, dall’altro il diritto dei genitori: esempio di una burocrazia in cui gli individui non sono più protagonisti. Personalmente, non ho fiducia nella scienza, quando essa ha la pretesa di dominare la vita delle persone.

Il Fatto 14.7.17
Erdogan, il signore del caos: la Turchia adesso è tutta sua
Erano le 23, la gente correva per strada e non si sapeva più dove fosse il presidente. Prima dell’alba iniziò la “vendetta”
Erdogan, il signore del caos: la Turchia adesso è tutta sua
di Marco Barbonaglia | 14 luglio 2017
|
Nei locali e nelle meyhane di Kadikoy, nella parte asiatica di Istanbul, la gente beveva birra oppure raki allungato con acqua. Le stradine del centro erano affollate all’inizio di quel caldo e umido weekend di mezza estate. Capii che qualcosa di strano stava accandendo quando un gruppo di amici mi disse che i due ponti sul Bosforo erano stati chiusi. Pensammo a un attentato, erano passate due settimane dall’attacco all’aeroporto Ataturk. Poi mi accorsi che la gente si riversava troppo rapidamente fuori dai locali e riempiva le strade in modo ordinato ma frenetico, gli sguardi preoccupati, il passo veloce. Dei discorsi concitati riuscivo a cogliere qualche parola. Poi ne sentii una: “darbe”, colpo di stato. Non erano ancora le 23.
Per qualche ora, la notte del 15 luglio di un anno fa, parve che un gruppo di militari fosse riuscito a riportare le lancette indietro di 40 anni. I golpisti avevano bombardato il quartier generale della polizia, dell’intelligence e un centro di addestramento della forze speciali ad Ankara . Il premier Yildirim, nel frattempo, con un tweet aveva denunciato il tentativo di golpe e invitato i cittadini a resistere. Secondo la ricostruzione ufficiale, il primo ministro, che si trovava nella parte asiatica di Istanbul, partì subito, via terra, per Ankara dove arrivò, tra interruzioni e cambi di strada, 12 ore dopo.
Mentre alla tv di stato Trt, la giornalista Tijen Karas veniva obbligata a leggere una dichiarazione di un non ben definito “Comitato per la Pace”, tutti si domandavano che fine avesse fatto Erdogan. Si sarebbero, poi, viste e riviste le immagini dei soldati che facevano irruzione nell’albergo nel quale il presidente si trovava, in vacanza, a Marmaris. Troppo tardi, però. Erdogan era già fuggito.
Si disse che stesse cercando di riparare in Qatar, dopo il rifiuto della Germania di accoglierlo. Lo si era visto fare capolino da un cellulare tra le mani di una conduttrice della Cnn Turk dal quale invitava la popolazione a scendere in strada. Il Parlamento ad Ankara veniva bombardato e i militari sul primo ponte sul Bosforo stavano sparando sulla folla che aveva seguito l’invito del presidente.
I jet sorvolavano a bassa quota Istanbul e Ankara, terrorizzando la popolazione. Sentivamo il loro fragore che si alternava a forti esplosioni e agli spari per le strade che, per esempio a Kadikoy, sarebbero andati avanti fino al mattino. Si capì che il golpe era definitivamente fallito già verso le 3.30, con Erdogan atterrato a Istanbul accolto da una folla festante. Uno dei colpi di stato più brevi e malriusciti della storia sul quale ci sarebbero state infinite teorie e ricostruzioni.
Pochi oggi mettono in dubbio che si sia trattato di un vero tentativo di golpe (secondo Ankara orchestrato da Fethullah Gulen). Secondo alcuni, però, il governo accortosi che era destinato al fallimento, lo cavalcò e lo utilizzò per regolare i conti. In primis, proprio con i gulenisti.
A distanza di un anno le epurazioni non sono ancora finite. Oltre 100mila persone sono state licenziate, 30mila sono state sospese, in più di 50mila in carcere perché sospettati di legami con Gulen. Sono stati chiusi giornali, scuole, banche; giornalisti e parlamentari in manette.
Nella notte tra il 15 e il 16 luglio quasi 250 persone erano morte (li chiamano i martiri) oltre 2000 erano rimaste ferite. Quando l’alba aveva iniziato a rischiarare le città ferite, era ormai chiaro che c’era un solo vincitore: Recep Tayyp Erdogan.
Popolare e forte come non mai, capace di portare in piazza milioni di persone, dopo qualche mese Erdogan si lanciò a rincorrere un suo vecchio cavallo di battaglia: la riforma costituzionale in senso presidenzialista.
Una battaglia che, però, è riuscito a vincere di strettissima misura, trovandosi contro circa la metà del Paese in una votazione nella quale sono anche state denunciate irregolarità. Due mesi dopo, proprio quando pareva che lo spazio per il dissenso fosse ormai pochissimo, al termine di una marcia per la giustizia da Ankara a Istanbul, Kilicdaroglu, leader del Chp, ha portato in piazza oltre un milione di persone a Maltepe. Una manifestazione che idealmente fa da contraltare a quella, oceanica, di Yenikapi (sempre a Istanbul) del 7 agosto 2016, tre settimane dopo il tentato golpe.

il manifesto 14.7.17
Il premio Nobel Liu Xiaobo è morto. Un duro colpo per l’immagine della Cina
Cina. Pechino si ritrova così con un premio Nobel per la pace, ottenuto nel 2010, e mai ritirato, che muore in ospedale, sottoposto a un regime carcerario. Era successo solo in un’altra occasione, nel 1939.
di Simone Pieranni

Di sicuro la Cina supererà anche questo, ma la morte di Liu Xiaobo, in ospedale ma di fatto agli arresti, costituisce un duro colpo all’immagine che Pechino ha provato a diffondere negli ultimi tempi. Liu Xiaobo era in carcere dal 2009, condannato a 11 anni per aver tentato di «sovvertire» l’ordine statale cinese. negli ultimi tempi le sue condizioni mediche si erano aggravate per un cancro al fegato in fase terminale. La Cina gli aveva permesso le cure in un ospedale, benché sottoposto al regime carcerario.
A NULLA SONO SERVITE le richieste di amici e famiglia perché potesse essere curato all’estero, eventualità che avrebbe anche permesso la sua liberazione. Pechino si ritrova così con il vincitore di un premio Nobel per la pace, ottenuto nel 2010, e mai ritirato, che muore in ospedale, sottoposto a un regime carcerario. Era successo solo in un’altra occasione, nel 1939, sotto il nazismo.
IL PREMIO NOBEL dell’epoca era morto sotto custodia dei nazisti, non propria un bel precedente per Pechino. La Cina ha dimostrato la sua durezza e spietatezza: prima ha arrestato Liu punendolo in modo clamoroso, 11 anni per un reato di opinione; poi ha impedito a lui e a sua moglie, ai domiciliari a Pechino da anni ormai, di andare a ritirare il premio. Infine non gli ha concesso la libertà, neanche quando era chiaro che le condizioni di Liu erano ormai disperate.
LE REAZIONI non si sono fatte attendere. Il Comitato per il premio Nobel ha accusato il governo cinese di essere responsabile della morte «prematura» del vincitore del premio per la pace 2010: «Abbiamo trovato molto sgradevole che Liu Xiaobo non sia stato trasferito in una struttura dove avrebbe potuto ricevere cure mediche adeguate prima di diventare un malato terminale».
L’alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Zeid Raad Al Hussein, ha specificato: «Proviamo un profondo dolore, il movimento per i diritti umani ha perso un difensore dei sani principi, che ha dedicato la sua vita a difendere e promuovere i diritti umani, in modo pacifico e coerente, e che è stato incarcerato per essere rimasto saldo su ciò che credeva». L’Onu, come gli Usa, hanno chiesto alla Cina di consentire a Liu Xia, moglie di Liu Xiaobo, di potersi trasferire all’estero.

il manifesto 14.7.17
Gaza allo stremo: 2 ore di elettricità al giorno
Palestina. All'assedio israeliano che non permette l'ingresso continuativo di energia si aggiunge la disputa Anp-Hamas. Ospedali al collasso, frigoriferi e condizionatori spenti in un'estate torrida. Onu: «Tra 3 anni la Striscia invivibile». Da tutto il mondo appelli perché si intervenga
di Michele Giorgio

«A Gaza solo le famiglie ricche riescono a sopportare queste condizioni, gli altri possono solo provare a sopravvivere. Il caldo è insopportabile e la notte siamo al buio completo, senza energia elettrica».
Così ci diceva ieri sera Amer Hijazi, un abitante di Gaza. Si riferiva ai pochi palestinesi che, grazie a generatori elettrici privati, tengono in funzione frigoriferi, ventilatori e condizionatori d’aria. Più di tutto hanno la luce in casa, un «lusso» davvero raro a Gaza dove i due milioni di abitanti stanno affrontando uno dei periodi più difficili.
«Perché ci infliggono queste punizioni, siamo degli esseri umani», ripeteva Hijazi accusando chi tiene Gaza in questa condizione: Israele, l’Egitto e, sempre di più, anche l’Anp di Abu Mazen e il movimento islamico Hamas impegnati in una disputa politica di cui pagano le conseguenze solo i civili.
L’unica centrale che fornisce energia elettrica a Gaza è stata di nuovo chiusa mercoledì sera per mancanza di gasolio interrompendo la fornitura quotidiana di 60 megawatt. L’elettricità che arriva dall’Egitto non è disponibile per guasti alle linee di trasmissione.
Da ieri perciò, su un fabbisogno estivo di 450 megawatt, Gaza può contare solo su 70 che giungono da Israele. Fino a qualche settimana fa la fornitura era maggiore ma Abu Mazen – per mettere sotto pressione Hamas – ha annunciato che avrebbe pagato solo il 60% della bolletta energetica di Gaza, aprendo la strada ad un’ulteriore riduzione.
Alla fine di giugno la crisi era stata parzialmente alleviata da alcuni milioni di litri di gasolio forniti dall’Egitto che avevano consentito alla centrale elettrica di operare a metà potenza.
Le forniture sono state interrotte dopo gli attacchi dell’Isis ai soldati egiziani nel Sinai. Si sussurra però che l’alt alle autocisterne dirette a Gaza sia il risultato delle pressioni dell’Anp sul presidente egiziano al Sisi.
«Questa situazione non è sostenibile – avverte Mohammed Thabet, della società per l’energia elettrica di Gaza – La gente non può avere una vita normale con 2-3 ore di elettricità al giorno».
Alla crisi energetica e alla cronica scarsità di acqua potabile, si è aggiunta la politica di «disimpegno» (non dichiarato) di Abu Mazen che ha ridotto salari e sussidi ai dipendenti dell’Anp (oltre 6mila dei quali sono stati «pensionati») per costringere Hamas a rinunciare al controllo di Gaza.
Riflessi gravi dello scontro si hanno anche sull’assistenza ai malati gravi di Gaza. Gli islamisti da parte loro rifiutano di sciogliere il loro «comitato governativo» e di permettere che un esecutivo di «consenso nazionale», guidato dal premier dell’Anp a Ramallah, estenda la sua autorità su Gaza.
Un quadro di eccezionale gravità che martedì ha visto il responsabile dell’Onu per gli affari umanitari, Robert Piper, dichiarare Gaza «invivibile» con tre anni di anticipo rispetto ai tempi indicati dall’Onu nel 2012.
Si moltiplicano gli appelli a livello internazionale. «Gaza deve vivere per la vita di tutta la Palestina» (www.we4gaza.org) raccoglie adesioni ovunque, anche in Italia, contro le politiche di «assedio» di Gaza praticate da Israele e sostenute dall’Egitto: «Non si tratta di una catastrofe naturale, ma prodotta dall’uomo».
Altrettanto forte è l’appello della Rete degli ebrei contro l’occupazione che chiede l’afflusso immediato di energia, la cessazione dell’assedio di Gaza e la fine dell’occupazione militare israeliana della Cisgiordania.