SULLA STAMPA DI MARTEDI11 LUGLIO
https://spogli.blogspot.com/2017/07/sulla-stampa-di-martedi11-luglio-lue.html
L’Ue ignora le proposte di Renzi
“Parliamo con Gentiloni e Padoan”
“Decifit, debito e Fiscal Compact: l’ex premier non ha alcun ruolo”
Matteo nega l’isolamento
“Il premier la pensa come me”
Corriere 11.7.17
Troppo imitato: copyright sul velo di Madre Teresa
S i definiva «povera tra i poveri» ma il suo ordine, quello delle Missionarie di Carità, potrebbe presto arricchirsi grazie a un copyright sul suo velo. Organizzazioni di carità oppure scuole, non avrà importanza: chi utilizzerà (senza pagare) il marchio registrato sul copricapo di Madre Teresa di Calcutta rischia «severe sanzioni legali». È stato Biswajit Sarkar, avvocato dell’ordine fondato dalla religiosa albanese nel 1950, a depositare il marchio «per contrastare l’abuso della reputazione della Santa»: il famoso velo con le tre bande azzurre su sfondo bianco, «unico al mondo», sarebbe stato utilizzato per iniziative — commerciali e non — senza l’approvazione delle Missionarie. «Così l’organizzazione originaria rischia di perdere la sua identità», ha ammonito Sarkar, che ha già messo nel mirino anche Amazon India, colpevole di venderne una versione per bambini.
il manifesto 11.7.17
Il discreto potere di un sogno imperiale
Saggi. «Cina globale» di Simone Pieranni per manifestolibri. La via della seta che conduce a una società cinese della conoscenza. Un progetto che si scontra con la perdurante leadership degli Stati Uniti
di Toni Negri
Simone Pieranni ci offre, in un rapido scritto, l’immagine della Cina globale (manifestolibri, pp. 95, euro 8). Ci propone cioé la questione del presentarsi della Cina sull’orizzonte globale e si interroga su cosa significhi. Fino ad un decennio fa, prima della grande crisi, una tale questione si sarebbe detta inverosimile (anche per i «pochissimi» che, come Giovanni Arrighi, se l’erano posta con toni profetici). Oggi invece, corrisponde ad una urgenza dell’intelligenza geopolitica. Centralità globale della Cina, dunque? La cosa puo essere analizzata da due punti di vista. Da un lato, considerando la continuità della grande rinascita della nazione cinese: una rinascita costruita e gestita dal Pcc e collegata sempre di più, ad una identità fantasmata in un lontano passato imperiale, prima dell’epoca delle umiliazioni, prima della vergogna coloniale subita a partire dal diciannovesimo secolo, capace di ritrovare una forte dinamica. Questa vocazione la Cina la trova a partire dalla grande crisi del 2008. Essa è l’unico grande paese industriale che subisce la crisi in maniera secondaria: ciò le permette oggi di esprimere una politica globale, da «grande potenza».
COMPLEMENTARE sarà un’altra domanda: al nuovo secolo cinese corrisponde forse il declino americano? Si può davvero pensare che il predominio geopolitico americano abbia lasciato spazio alla nuova potenza cinese? La discussione è aperta. E, prudentemente, Pieranni analizza le ragioni che vanno a favore o contro quella previsione. Particolare attenzione concede all’opera di Joseph Nye Jr e alla sua teoria del soft power americano: laddove alla domanda sul declino americano si risponde che gli Stati Uniti restano il paese più potente, sia dal punto di vista militare, sia dal punto di vista economico (avendo intrecciato il mondo di un sistema orizzontale di rapporti politici, finanziari, monetari, industriali e commerciali) ma che questa loro condizione, organizzata appunto su strumenti e su un deposito di soft power, non mantiene più una dimensione egemonica.
È quindi sul terreno egemonico, che l’alternativa cinese si propone. Essa evita di presentarsi in un confronto diretto con la potenza americana ma agisce piuttosto in maniera trasversale. Ecco ad esempio i principali fondamentali del soft power cinese secondo Pieranni: «è in questo senso il contrario di quello americano a cui siamo stati abituati in Occidente. La Cina non pone condizioni o problematiche di natura politica: democrazia o meno, gli affari si possono fare egualmente… La globalizazione cinese ed il suo concetto di global governance si basa dunque su alcuni assiomi: armonia dal punto di vista diplomatico, mercati liberi ed in grado di far girare agevolmente merci e investimenti, pace tra le nazioni e un “destino comune” fatto di prosperità».
A PARTIRE da questi presupposti, da alcuni anni la Cina si è lanciata nel grande progetto della «via della seta» : un percorso marittimo e terrestre, sul quale costruire infrastrutture che permettano un più stretto collegamento fra la Cina, l’Asia centrale e meridionale e l’Europa. Una grande banca di sviluppo è stata disposta a questo progetto, per la prima volta competitiva con le banche di investimento internazionali (più o meno sotto controllo Usa). Ma la competitività è fortemente sottaciuta da parte cinese ed investitori di tutti i paesi (ivi compresi americani) sono sollecitati alla partecipazione. Su queste basi programmatiche, e più recentemente assumendo una posizione di contrasto con ogni riflusso protezionista ed a favore del mercato globale, la Cina è comparsa come garanzia della globalizzazzione, nello stesso momento in cui le politiche di Trump facevano tremare molti dei paesi fin qui impegnati nell’enorme conflitto di dare regole al mercato globale.
Pieranni sottolinea anche le difficoltà che nel produrre questo progetto e nel portarlo a termine, la Cina si troverà dinanzi. Le vede, ovviamente, nell’asprezza del compito da perseguire sulla «via della seta», nell’incrociarsi di ostilità nazionaliste e di pretese egemoniche (India e Russia particolarmente attive a situare il loro « maldipancia» su una mediana di accettazioni e di rifiuti). Insiste anche sulle incertezze, le turbolenze e gli improvvisi sussulti che la struttura del partito comunista cinese – pur essendosi avviato ad un ulteriore passo nella direzione della trasparenza dei processi decisionali e della democrazia interna del paese – rischia sempre di subire.
MI CHIEDEREI a questo punto, se due ulteriori questioni non debbano essere sollevate. La prima, che è la più importante, riguarda lo studio delle interazioni di questo processo internazionale egemonico intrapreso dalla Cina e l’attuale fase di trasformazione del paese e soprattutto del suo modo di produzione: la mutazione cioé della struttura produttiva, dall’essere il laboratorio industriale globale della produzione mercantile, al rapido ed impetuoso divenire imprenditore del General Intellect, il centro globale della produzione robotizzata ed automatica. L’equilibrio tra questa trasformazione e l’allargamento globale dello spazio finanziario e commerciale non andrà senza difficoltà. E non sarà facile riorganizzare un mercato interno del lavoro che le classi scolarizzate e l’intellettualità di massa cominciano ad occupare in maniera stabile. In secondo luogo, per dirla chiaramente, sono talvolta spaventato dall’intensità della lotta ideologica attorno alla ridefinizione della «nazione» cinese. È fuori dubbio, e Pieranni sarà d’accordo, che ogni definizione di populismo diventerà derisoria se dovessimo confrontarla alla nascita di un eventuale nazionalismo cinese, all’emergere, non più fantasmatico, di un «dragone rosso». Malgrado tutto – ed è opportuno doverlo ammettere – il partito comunista cinese si rivela assai efficace nel controllare ogni pericolo su questo terreno.
IL LIBRO di Pieranni non è cosi secco come la nostra presentazione lo ha fatto. È al contrario elegante e fluente ed il ragionamento politico è interrotto da informazioni interessanti e curiose – come ad esempio quelle che riguardano il controllo dei «corridoi» creati sulla «via della seta» e l’espandersi, anche al servizio delle imprese cinesi, delle milizie mercenarie create negli States (Blackwater e altre).
Ed ha, inoltre, il merito tutto teorico di identificare il nuovo terreno sul quale, oggi, la ricerca dell’ordine globale (e le alternative ad esso) non puo non concentrarsi. L’ordine globale sta infatti costruendosi sull’orizzontale dei rapporti di forza piuttosto che sull’asse verticale del potere sovrano, ed è investito da flussi globali ed attraversa le frontiere, si propone di coordinare mobilità e molteplicità degli attori. Se lì si forma l’ordine mondiale, è lì dentro che dobbiamo analizzare i rapporti di sfruttamento ed organizzare la lotta di classe.
il manifesto 11.7.17
Ritrovata l’unità con Camusso, Landini entra nella segreteria Cgil
Sindacato. Il leader delle tute blu lascia la Fiom e prende posto nel board confederale. Il congresso si terrà nel 2018. Tra i papabili alla successione con Serena Sorrentino
di Massimo Franchi
Con la proposta di Susanna Camusso di far entrare in segreteria confederale Maurizio Landini fatta ieri in Assemblea generale, la Cgil col voto di questa mattina ritorna ad avere una gestione unitaria dopo tanti anni di divisioni. Dal percorso della più grande organizzazione sociale d’Italia – oltre 5 milioni di iscritti – può venire un insegnamento importante per tutta la sinistra. Quello di mettere da parte le divergenze personali in nome dell’unità.
Il rapporto tra la segretaria generale e il leader della Fiom è stato in questi anni anche troppo sviscerato. Sono passati poco più di quattro anni dal 20 gennaio 2014, giorno in cui Camusso mandò una lettera al Comitato di garanzia per chiedere se i comportamenti di Landini rispettassero lo Statuto. È stato il momento di più acuta divergenza: l’oggetto del contendere era la norma del Testo unico sulla rappresentanza che prevedeva una commissione paritaria sindacati-imprenditori nel caso di mancato rispetto delle regole anche sugli scioperi. In quei giorni si parlò addirittura della possibilità che la Fiom lasciasse la Cgil formando una nuova confederazione.
Ma la differenza che ancora oggi è plasticamente visibile a chi frequenti partiti e sindacati è che il livello di discussione e preparazione in Cgil è molto più alto. Pochi giorni dopo la lettera, infatti, Camusso e Landini erano insieme a confrontarsi davanti ai lavoratori a un’assemblea all’ex Pignone a Firenze in vista del congresso che si tenne a Rimini.
Lì fu Mirko Lami, lavoratore delle acciaierie di Piombino, ad avere l’applauso più lungo quando chiese ai due di smettere di litigare e trovare una soluzione per il bene della Cgil. La ricucitura iniziò qualche mese dopo. Certo, a rendere il tutto più semplice ha contribuito il quadro politico: Renzi che ascolta solo Confindustria e cancella l’articolo 18 e buona parte dei diritti (e del diritto) del lavoro, un Pd che rompe completamente con la Cgil.
E così si arriva alla proposta che a inizio 2016 ricompatta la Cgil e la fa uscire dall’angolo: la Carta universale dei diritti e i referendum abrogativi. Una mossa che i «riformisti» (storicamente vicini al partito, perfino al Pd) in confederazione considerano estremista e che invece Camusso impone.
Se la Cgil in quel momento sterza a sinistra da quel momento parallelamente è la Fiom a diventare più confederale. Tanto che Maurizio Landini – dopo aver vinto la battaglia giudiziaria per riportare la Fiom in Fiat dopo la cacciata di Marchionne – ha iniziato una lunga traversata del deserto per ricomporre un minimo di unità sindacale fra i metalmeccanici, suggellata dalla firma del contratto lo scorso dicembre. Un accordo difficile, non senza compromessi al ribasso (la parte sul welfare aziendale soprattutto) che ha comunque dimostrato come fosse falsa l’accusa che voleva «la Fiom come il sindacato del No, che non firma mai niente».
L’importanza della firma unitaria è tale che proprio per questo quasi certamente Camusso darà a Landini la delega alla contrattazione, ora a metà fra Franco Martini e Vincenzo Colla. Dopo il voto di oggi che ratificherà il passaggio di Landini in confederazione la gestione unitaria avrà come primo appuntamento un’assemblea programmatica sul Mezzogiorno a Lecce a settembre e un’assemblea programmatica a fine anno per decidere come arrivare al prossimo congresso.
Se, come scontato, si rispetterà la scadenza degli otto anni di mandato di Camusso, il congresso si terrà inusualmente in autunno del 2018, evitando la sovrapposizione con le elezioni politiche e il probabile impasse di governo. Camusso ha già fatto capire la sua idea per la successione: non è un mistero che punti a Serena Sorrentino, giovane già passata in segreteria e mandata a «farsi le ossa» nella categoria dei pubblici da 8 anni senza contratto. Su di lei c’è il gradimento dei pensionati dello Spi e dei «riformisti». L’altro papabile «continuista» è Vincenzo Colla, ex segretario dell’Emilia Romagna. Detto questo però Landini potrà giocarsi le sue carte, specie se in questo anno dimostrerà di avere dalla sua quell’appoggio insperato avuto in ogni assemblea Cgil a cui ha partecipato in questi ultimi due anni.
il manifesto 11.7.17
Ius soli, il governo fa slittare ancora l’approvazione
Cittadinanza. Il consiglio dei ministri non autorizza la fiducia e sposta il testo in coda ad altri provvedimenti. La legge rischia di essere archiviata
di Carlo Lania
Sepolto sotto una valanga di provvedimenti in modo da farlo slittare. Se va bene, entro luglio l’aula del Senato potrà al massimo avviare la discussione generale sullo ius soli, rinviando poi un eventuale voto sul provvedimento a settembre quando il parlamento riaprirà dopo la pausa estiva. Se va bene, perché l’alternativa è che la legge, attesa da venti anni da almeno 800 mila ragazzi figli di immigrati che vivono nel nostro paese, rischi ancora una volta di finire nel dimenticatoio. Per le divisioni all’interno della maggioranza, con Alternativa popolare di Angelino Alfano sempre più decisa a fermarla, ma anche per l’indecisione del Pd, impaurito dai sondaggi e dalle conseguenze che il via libera al provvedimento potrebbe avere sull’elettorato. E questo anche se Matteo Renzi continua a ripetere, come ha fatto anche ieri presentando il suo libro, di voler vedere la legge tagliare il traguardo al più preso.
Anche se non c’erano stati annunci ufficiali, dal consiglio dei ministri di ieri sarebbe dovuta arrivare l’autorizzazione a porre la fiducia sulla riforma della cittadinanza, dando così seguito a tante dichiarazioni di principio sulla volontà di approvare la legge. Ufficialmente invece, l’argomento non sarebbe stato affrontato dal governo che ha comunque autorizzato la fiducia su tre decreti all’esame del parlamento: Mezzogiorno, Banche venete (attualmente alla Camera ma atteso al Senato nei prossimi giorni) e vaccini, che quindi avranno la precedenza. A questi si aggiungono due progetti di legge, uno dei quali sullo spettacolo e, per finire, il ddl che autorizza il comune di Sappada a distaccarsi dalla regione Veneto per entrare a far parte del Friuli Venezia Giulia. Tutto in discussione a Palazzo Madama e da discutere e approvare prima della riforma della cittadinanza. Con un calendario così, le possibilità di arrivare entro la fine del mese al voto sullo ius soli sono praticamente nulle. Il timore di molti, compresi alcuni parlamentari dem, è che a settembre, quando mancheranno ormai meno di sei mesi alle elezioni, difficilmente si tornerà a parlare di un tema così spinoso.
Che le cose potessero finire in questo modo era nell’aria. Anche se il diritto a diventare cittadini italiani di migliaia di ragazzi nati nel nostro Paese o che ne frequentano le scuole non c’entra niente con l’emergenza dovuta ai numerosi sbarchi di migranti, quest’ultima ha finito inevitabilmente col condizionare il dibattito. Dopo Silvio Berlusconi, per il quale il provvedimento rappresenterebbe un fattore di attrazione per i migranti, ieri è stato il ministro della Affari regionali Enrico Costa a chiedere alla maggioranza un ripensamento: «Sarebbe miope – ha detto in un’intervista al Messaggero – non osservare che il tema dei dello ius soli nell’immaginario collettivo si interseca a quello dell’emergenza migranti, a torto o a ragione».
La riforma resta così sospesa nell’aria. Già era stata fatta slittare in occasione del referendum costituzionale del 4 dicembre, perdendo così mesi preziosi. Nel frattempo l’aggravarsi della crisi dei migranti ha condizionato le scelte del governo e, come dimostrano le ultime uscite di Renzi, anche del Pd. Come se non bastasse, poi, le mancate risposte da parte dell’Unione europea alle continue richieste di collaborazione di Roma rendono il tutto più difficile per il governo, non potendo vantare come risultato conseguito neanche il coinvolgimento degli altri paesi europei.
Ieri Renzi ha continuato a difendere il provvedimento, che in passato ha più volte definito una norma di civiltà. «Io sono per lo ius soli. Il Pd è per lo ius soli, e lo confermiamo con forza a maggior ragione con quello che dico sui migranti», ha spiegato al programma radiofonico Zapping riferendosi alla sua richiesta di porre un tetto al numero dei migranti in arrivo in Italia. Sì alla legge anche dal ministro dell’Agricoltura e vicesegretario del Pd Maurizio Martina, per il quale la riforma va approvata «se necessario anche con la fiducia». Peccato, però, che al momento di fiducia se ne veda poca.
La Stampa 11.7.17
Cucchi, a giudizio i carabinieri
Tre sono accusati di omicidio
di Edoardo Izzo
Il giorno della verità è più vicino. E se da un lato la vita di Stefano Cucchi è ormai perduta per sempre, dall’altro la sua famiglia spera, dopo 8 anni, di avere un po’ di giustizia. Andranno infatti a processo il prossimo 13 ottobre i cinque carabinieri: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco (che rispondono di omicidio preterintenzionale), Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi (che rispondono di falso e calunnia il primo, e solo di calunnia il secondo). «Finalmente i colpevoli della morte di mio fratello Stefano saranno costretti a rispondere di quanto commesso. Non potranno più nascondersi dietro la divisa dell’Arma», ha commentato commossa la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi.
Le carte dell’inchiesta Cucchi bis raccontano una realtà amara: Stefano sarebbe morto per mano di quei tre carabinieri che nella notte tra il 15 ed il 16 ottobre 2009 - dopo averlo fermato per un controllo - lo picchiarono selvaggiamente «con schiaffi, calci e pugni», provocando esiti permanenti. Nei referti medici si parla di tumefazioni ed ecchimosi alle guance e alla fronte, ecchimosi al cuoio capelluto di diverse entità, frattura della terza vertebra lombare e frattura scomposta della quarta vertebra sacrale, infiltrazioni emorragiche, escoriazioni sulla tibia sinistra e al ginocchio destro.
La rottura della vertebra e la lesione delle radici posteriori del nervo sacrale portarono ritenzione urinaria e bradicardia giunzionale «con conseguente aritmia mortale». Le conseguenze dei colpi - inoltre - sono state aggravate da una totale negligenza in ospedale, e non c’entra nessun attacco epilettico come sosteneva una perizia. Anche se i legali dei militari sono convinti che il pestaggio non c’entri nulla con il decesso e che molto sia dipeso dalle mancate cure dei medici dell’ospedale Sandro Pertini.
Una morte sino ad oggi senza responsabili - tre giudizi di merito, oltre ad una pronuncia della Cassazione hanno portato solo ad assoluzioni (definitive quelle degli agenti penitenziari in servizio nelle celle di sicurezza del Tribunale di Roma, confermate nei due giudizi di appello quelle dei medici del Pertini) - che trova nelle solide acquisizioni di questa seconda inchiesta del pm di Roma Giovanni Musarò i presupposti per la celebrazione di un nuovo processo e per riscrivere da capo la storia della morte di Stefano.
Il Fatto 11.7.17
Il caso Contrada è la vera offesa a Falcone
di Gian Carlo Caselli | 11 luglio 2017
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Proviamo a fissare alcuni punti imprescindibili per ragionare sulla sentenza della Cassazione del caso Contrada.
1) La responsabilità del dott. Contrada per i gravissimi fatti che egli ha commesso è supportata da solide prove riscontrate da molti giudici (Tribunale, due volte la Corte d’Appello e Cassazione). Lo stesso ufficio che ora ha cambiato idea negando validità alla condanna definitiva.
2) La mafia non è solo kalashnikov, tritolo e traffici vari a partire dalla droga. Questo è il lato militare/gansteristico del pianeta mafia. Ma c’è anche quello oscuro e osceno (nel senso letterale e traslato di “fuori scena”). Sono le collusioni segrete con persone delle istituzioni e dell’imprenditoria. Quelle che contribuiscono alla conservazione e al rafforzamento dell’organizzazione. La sua spina dorsale. È proprio quel che ha fatto Contrada sistematicamente. Per esempio favorendo la continuazione della latitanza di alcuni boss, tra cui Salvatore Riina. Per cui sostenere che Contrada non sapeva di violare la legge penale è roba surreale. Che ricorda certe battute di Totò delle quali un illustre critico ha detto “che mettono in dubbio la stessa esistenza della realtà”.
3) L’unico strumento per contrastare le collusioni è il concorso esterno in associazione mafiosa (416 bis). Negare la configurabilità del concorso esterno, nerbo della mafia, equivale in pratica a negare la stessa mafia. Lo hanno fatto – senza minimamente curarsi della concretezza dei fatti – la CEDU (Corte europea dei diritti dell’uomo) e la Cassazione, la cui decisione avrebbe ricalcato la CEDU. Passi per quest’ultima, formata in stragrande maggioranza da magistrati stranieri. Ma la Cassazione no! Sa bene che Cosa Nostra esiste. Sa bene che negare il concorso esterno significa colpire l’unica concreta possibilità (ai tempi di Contrada come oggi) di intervenire contro le collusioni, elemento vitale della mafia. Negare il concorso esterno è un’offesa alla logica e al buonsenso. Soprattutto è un’offesa a Giovanni Falcone che di questo strumento aveva fatto uso. Per di più sostenendo (ordinanza-sentenza del maxiter del 17 luglio 1987) che “le collusioni di persone inserite nelle pubbliche istituzioni… sono sussumibili a titolo concorsuale. E bisogna farlo se davvero si vuole ‘voltare pagina’ per contrastare efficacemente ‘la crescita di Cosa Nostra e la sua natura di contropotere’.
4) Dunque è una bufala che non esista il concorso esterno in associazione mafiosa. Esiste da sempre nel nostro ordinamento per tutti reati, in base all’art. 110 del codice penale. Nel furto è colpevole il ladro ma anche il palo, che realizza appunto il reato di concorso esterno. E non si capisce perché quel che vale per tutti i reati non debba valere anche per la mafia. Salvo concedere un privilegio inammissibile ai collusi (in prevalenza “eccellenti”…) e alla organizzazione criminale.
5) Un’altra bufala è che il concorso esterno in mafia ha cominciato ad esistere solo dopo le elaborazioni della Cassazione. A parte che mai la suprema Corte ha ipotizzato una tesi così stramba, pur essendosi occupata della materia decine e decine di volte, l’elaborazione presuppone necessariamente il reato. Se non c’è reato non c’è neanche possibilità di elaborazione. Elementare!
6) Infine io non credo che la Cassazione possa accucciarsi pedissequamente su una sentenza straniera, sia pure della CEDU. Penso debba prima operare una rigorosa verifica della rispondenza alla specificità del caso concreto. E qui si tratta di configurabilità del concorso esterno, già riscontrata da quattro sentenze emesse – si badi – in nome del popolo italiano. Ne va dell’indipendenza della magistratura! Un fondamentale valore costituzionale. Di cui tutti i magistrati devono essere gelosi. Persino la Cassazione…
di Gian Carlo Caselli |
Così la galassia nera e Mussolini
sono diventati un brand su Facebook
Pagine e gruppi sul social network, per vendere un’affiliazione o una merce
di Federico Capurso
«Benito Mussolini è ora in diretta», avvisa Facebook, in un pomeriggio qualunque del 2017, riportando il video di un discorso del Duce dal balcone di piazza Venezia. Si passa quindi a Instagram, il social network della fotografia, e un “sondaggio sponsorizzato” da Mussolini in persona si impone categorico alla vista dell’utente: «Vorreste il ritorno del Duce?». Se si risponde, si può vincere l’Agenda storica, promette l’inserzione.
La nuova frontiera dei nostalgici del Ventennio è in Rete. Un florido sottobosco di pagine, siti e blog, che negli ultimi anni ha raccolto migliaia di simpatizzanti e i numeri, anche se non emergenziali, sono in crescita. La proposta di legge del Pd, ora in discussione alla Camera, si propone di punire con il carcere da sei mesi a due anni la propaganda del regime fascista e nazifascista. E per arginare il proliferare dell’ideologia nera online, la pena è aumentata di un terzo se il reato viene commesso via web.
I social network, d’altronde, sono diventati il primo veicolo di diffusione di queste idee, come testimoniano le migliaia di pagine e gruppi Facebook dedicati al Ventennio e ai suoi protagonisti. Luoghi virtuali che si guadagnano le simpatie degli utenti grazie a un approccio sempre più multimediale, con video e foto pubblicate ogni giorno. Materiale, questo, che viene spesso riadattato ai temi mediatici del momento. «No allo Ius Soli», può capitare di veder dire a Mussolini. E ancora: «Mussolini a differenza dei nostri politici», come recita il titolo di una delle centinaia di pagine Facebook a lui dedicate. Una modernità affiancata sempre, però, al ricordo pungente di «quando c’era lui».
Il nome “Benito Mussolini” rimane ovviamente il brand di punta sui social network, come testimoniano i 140 mila fan di un omonimo profilo e le centinaia di altre pagine e gruppi a lui intitolati. Di riflesso, però, anche chi non è strettamente legato al nome di Mussolini inizia ora a riscuotere un relativo successo online. Come «Rivoluzione fascista», con più di 30 mila seguaci, tra le prime ad utilizzare i “video in diretta”, tra i quali si segnala la quattro ore di “santa messa live” celebrata a Predappio in ricordo di Mussolini dal prete fascista don Giulio Tam. Ci sono i “Giovani Fascisti Italiani”, nati su Facebook appena due anni fa, ma che contano già oltre 86 mila fan. O la pagina “Laziale e fascista”, che lega alla fede calcistica quella politica, con quasi 90 mila utenti registrati.
Su Instagram, il social network della fotografia, spunta persino il profilo «ufficiale» di Benito Mussolini. Il gestore pubblica foto commentandole in prima persona: «Un mio ritratto datato 1924. Olio su tela», si legge nella didascalia di un dipinto che ritrae Mussolini a cavallo. E ovunque, tra i virtuali avventori fascisti, è un tripudio di saluti romani e autoscatti con in mostra il tatuaggio del Duce.
La passione politica, così, può diventare business. Predappio, paese natale di Mussolini, è un concentrato di negozietti con in vendita prodotti fascisti. Molti di loro, come Ferlandia, sono stati tra i primi ad aprire anche online. Il catalogo è vasto: dall’acqua di colonia di Predappio, con tappo di legno del Duce, alle bottiglie di «vino Nero». Poi c’è chi, da vero fascista 2.0, dopo aver ottenuto migliaia di fan sui social network ha smesso di pubblicare foto del Duce, preferendogli la pubblicità dei siti acchiappa-clic. O chi, come i già citati “Giovani fascisti italiani”, dalla propria pagina Facebook pubblica foto di gadget e abbigliamento in vendita, rimandando anche al sito Duxstore.it. Per sapere il prezzo di un goliardico manganello, però, il gestore chiede di «essere contattato in privato, camerata».
Corriere 11.7.17
Mdp si ritrova. E valuta l’uscita dal governo
Oggi la riunione degli eletti. Speranza: ne parleremo. Le prossime mosse dividono D’Alema e Bersani
Monica Guerzoni
ROMA «Finché mi sarà dato di esistere, non potrà stare tranquillo...». L’anatema che D’Alema indirizza a Renzi da Marina di Pietrasanta non lascia preludere nulla di buono per i rapporti elettorali tra i fuoriusciti e il Pd. Il fondatore di Articolo 1-Mdp, furioso per essere stato sostituito alla guida delle Fondazioni europee, accusa i dem di aver esercitato «forti pressioni» sui socialisti e medita rivincite: «Renzi si è vendicato della mia esistenza, ma la mia esistenza sarà per lui un problema».
L’ex premier non lo dice, ma i suoi assicurano che D’Alema ha tutta l’intenzione di candidarsi per togliere voti al Pd al Sud, dove «ogni volta che parla riempie le sale e le piazze». E lo stesso ha in mente Bersani, che in Emilia-Romagna ha ancora un forte seguito. «Metteremo nelle liste un mix di forze giovani e politici di esperienza — è il piano di D’Alema —. Con il proporzionale faremo un risultato a due cifre». A sinistra si respira un’aria da regolamento di conti e non solo tra D’Alema e Renzi, che il predecessore a Palazzo Chigi accusa di essere «sempre in giro a fare guai». Tensioni e incomprensioni si registrano anche tra Campo progressista di Pisapia e Mdp, nonché all’interno del movimento di D’Alema e Bersani. A sentire i renziani i due ex ds sono ai ferri cortissimi, non tanto per antiche gelosie, quanto per importanti divergenze di linea politica.
Massimo avrebbe interpretato le parole di Pier Luigi dal palco di piazza Santi Apostoli come la disponibilità a sciogliere Mdp e a mettersi, da subito, al seguito di Pisapia leader di Insieme. Ma D’Alema vuole prima rafforzare il movimento a colpi di tessere e poi allargare il campo, e sarebbe stato questo sfasamento temporale a provocare scintille.
Pippo Civati si appella alla generosità dei compagni: «Queste eventuali divisioni fanno male. Il lavoro che dobbiamo fare è tenere insieme tutti». Ma i bersaniani soffrono i «troppi portavoce autogestiti» di Pisapia e lo spronano a battere un colpo: «Se lui è il federatore, ci federi...».
Nodi destinati a venire al pettine oggi, quando Roberto Speranza riunirà parlamentari e amministratori locali. Felice per il nuovo acquisto di Gianluca Busilacchi, che era capogruppo del Pd nel consiglio regionale delle Marche, il coordinatore smentisce attriti: «Tra D’Alema e Bersani c’è totale sintonia, non ci sono ambiguità». Proverà a mediare tra chi vuole sciogliere Mdp e chi rafforzarlo? «Non ce n’è bisogno — stempera le tensioni Speranza —. Parlare di scioglimento è sbagliato, nessuno ci ha chiesto di farlo. Ma alle Politiche dovremo arrivare con un nuovo soggetto, non con un cartello elettorale».
Enrico Rossi non teme rese dei conti in assemblea, eppure ammette qualche difficoltà: «C’è il problema di rendere più trasparenti i rapporti con Pisapia». L’altro fronte si aprirà presto con il governo, che per Rossi è «la brutta copia di quello di Renzi». L’uscita dalla maggioranza è questione di settimane. «Siamo in difficoltà — riconosce Speranza —. Oggi ne parleremo».
Corriere 11.7.17
La Fiom si affida a una donna Che non è mai stata in fabbrica
Landini lascia a Re David ed entra nella segreteria Cgil
di Enrico Marro
ROMA In 116 anni di storia la Fiom non solo non ha mai avuto un segretario generale donna, ma neppure che fosse nato sotto la linea dell’Arno. Francesca Re David, 57 anni, che con ogni probabilità venerdì verrà eletta a capo dei metalmeccanici della Cgil, è invece romanissima: nata nella Capitale, laureata in Storia alla Sapienza, vive a Roma con la sua famiglia, il marito Fabio Venditti, già giornalista Rai, e due figlie grandi. Dopo tre capi della Fiom emiliani (Sabattini, Rinaldini e Landini), si direbbe una svolta. In realtà, tutti nel sindacato per prima cosa dicono che è una scelta «nel segno della continuità». Perché è dalla fine degli anni Ottanta, quando da ricercatrice entra in contatto con la Cgil e con la Fiom, che Re David non ha più lasciato i metalmeccanici. Ricoprendo sempre posizioni di responsabilità e caratterizzandosi per l’assoluta fedeltà ai segretari generali.
Se una differenza c’è, in particolare con gli ultimi due leader della Fiom, è che Re David non viene dalla fabbrica, ma è una funzionaria, donna d’apparato, militante politica arrivata al sindacato. In questo più simile a Sabattini. Come lui, comincia il suo impegno nel Pci giovanissima e rimane iscritta al partito anche quando questo si trasforma in Pds. Lo lascia da quando diventa Ds. Resta, da allora, a sinistra del partito. Anche se, sul suo profilo Facebook, nega di essere andata in piazza per la manifestazione di Pisapia.
Rifondazione comunista, quando aveva ancora un peso, le propone la candidatura alle elezioni. Sceglie di restare alla Fiom. Ma con Sabattini, che nel 1997 l’aveva voluta nella segreteria nazionale, teorizza l’«indipendenza» dei metalmeccanici dalla casa madre Cgil. La Fiom rompe quindi con Cofferati e resta all’opposizione in Cgil anche con Epifani e Camusso, fino alla ricucitura recente, che ha portato Landini nella segreteria confederale della Cgil su proposta della stessa Camusso, aprendo così la strada a Re David.
Una ricomposizione, quella tra Fiom e Cgil, favorita da Matteo Renzi, che rompendo gli storici legami con la Cgil ha provocato il ricompattarsi della confederazione su posizioni a sinistra del Pd, dove da tempo era attestata la Fiom. Re David dunque raccoglie questa eredità di cui è stata partecipe.
Il 5 dicembre, all’indomani della vittoria nel referendum, ha commentato: «Il rottamatore ha prodotto la rivincita di tutti i rottamati. Ora, per piacere, vogliamo darci una mossa?». Continuità, dunque. Ma sarà difficile vederla così tanto in tv come Landini. Il carisma non s’inventa, ma dicono che Re David sia una «tosta». Di sicuro è simpatica, facile alla battuta, tanto che nella Fiom c’è chi la chiama la Monica Vitti delle tute blu. E a ben vedere al cinema c’è finita, nel 2016. Interpretata dall’attrice Michela Cescon nel film diretto dal marito Fabio Venditti, Socialmente pericolosi , che racconta un episodio della loro vita, quando ospitarono a casa un camorrista malato grave agli arresti domiciliari. Ora, però, la parte spetta direttamente a lei.
Corriere 11.7.17
Picchia la compagna fino a ucciderla «Se lo merita, non aveva lavato i piatti»
di Agostino Gramigna
Bari, arrestato un romeno. La madre della vittima: non voleva denunciarlo
La madre tiene in mano una foto tessera della figlia come a volere ricordare che è esistita, che aveva un volto, un nome e una vita. Anche se la vita di Anita valeva quanto quella di una serva, almeno per l’uomo che aveva scelto di amare. Lui la prendeva a schiaffi e pugni se non ubbidiva ai suoi ordini. Fino all’ultima aggressione, quella mortale, per non aver voluto lavare i piatti.
Anita Betasta Rzepecka, 30 anni, è morta in un ospedale di Bari, dopo la violenza subita tra le mura di un casolare abbandonato alla periferia di Bari. Marian Sima, un romeno di 44 anni, l’ha schiaffeggiata e le ha fatto perdere l’equilibrio. Cadendo, Anita ha sbattuto violentemente la testa sul pavimento. È rimasta agonizzante per ore. Lui indifferente in piedi davanti al corpo, ha preso una bottiglia e ha bevuto.
Barbara, mamma di Anita, racconta che lui la picchiava ogni santo giorno e che ogni scusa era buona. Se non puliva la casa, se non faceva come diceva lui. Ed era sempre ubriaco. «Io non potevo fare niente e lei non voleva denunciarlo. Quattro giorni fa l’ha picchiata con tanta violenza e mia figlia è svenuta a terra. Poi l’ha lasciata lì».
Mamma e figlia erano arrivate insieme in Italia dalla Polonia. Barbara vive in una baracca, Anita invece abitava con Marian Sima e altri suoi connazionali romeni in un casolare nel quartiere Japigia. Sima è stato portato in carcere con l’accusa di omicidio volontario. Il dramma è avvenuto giovedì scorso, Anita è morta in ospedale il giorno dopo ma la notizia è stata diffusa solo ieri dopo l’arresto del romeno. È stato un coinquilino della coppia, al rientro la sera nel casolare, a soccorrere la donna e chiamare il 118.
Anita subiva violenze da circa due anni ma non s’è mai rivolta alle forze dell’ordine. Racconta Barbara: «Spesso la minacciava con un coltello alla gola, anche in mia presenza. Le dicevo di lasciarlo perché era un violento. Ho provato tante volte, vai a denunciarlo, vai alla polizia». Ma Anita aveva il terrore che le azioni di Marian potessero diventare ancora più violente.
«Perché hai fatto questo a mia figlia?», ha domandato Barbara all’uomo. Le ha risposto freddamente: «Tua figlia merita tutto questo perché non aveva ripulito casa e non aveva lavato i piatti». Ai vicini di casa invece aveva raccontato storie diverse. Che Anita era caduta da sola mentre saliva le scale, che si era fatta male mentre era in bagno e che si era sentita male dopo essersi ubriacata. Barbara ora chiede giustizia: «Non solo per mia figlia ma per tutte le donne morte come lei».
Corriere 11.7.17
Messico
I 43 studenti scomparsi e la trappola per gli esperti
di Guido Olimpio
Nome in codice Pegasus. Una trappola cibernetica con la quale le autorità messicane avrebbero spiato i membri della «Inter American Commission on Human Rights», esperti chiamati a risolvere un caso non meno scandaloso: la sparizione, nel settembre 2014, di 43 studenti. Di loro non si sa più nulla: solo due sono stati identificati e le indagini ufficiali hanno soltanto creato ostacoli alla verità. Forse è per questo che hanno deciso di tenere sotto controllo gli esperti stranieri usando un sistema acquistato dal governo. Costo: 80 milioni di dollari, versati alla casa produttrice, una società israeliana.
Tutto è iniziato con il lancio del classico «amo». Un messaggino inviato al cellulare di uno dei coordinatori della Commissione. È stato questo il grimaldello che ha aperto una breccia: gli spioni hanno carpito email, testi, foto, contatti e violato le comunicazioni criptate. E gli investigatori non sono stati le uniche vittime. Giornalisti, rappresentanti di associazioni umanitarie e politici dell’opposizione — secondo la denuncia del New York Times — sono finiti nella grande rete di sorveglianza. Le rivelazioni hanno aggiunto rabbia per un mistero che attende una soluzione.
La scomparsa degli studenti a Iguala nasconde probabilmente connessioni e complicità a livello statale. In base ad una prima ricostruzione i ragazzi sarebbero stati fatti sparire dall’attacco congiunto di una banda criminale e agenti corrotti. I banditi sospettavano che i giovani facessero parte di una gang rivale. Ma molti elementi chiamano in causa entità superiori e militari. Resta sempre la domanda angosciante: che fine hanno fatto gli aspiranti maestri? Uno degli arrestati ha sostenuto di averli bruciati vicino ad una discarica, tesi che però non è stata avvalorata da fonti indipendenti. Allo sdegno si aggiunge la convinzione di manovre al di sopra della legge. Proprio in questi giorni si chiede di chiarire cosa sia avvenuto a Villa Union dove militari e agenti hanno ucciso 17 (o forse più) presunti narcos nel corso di un conflitto a fuoco seguito ad un agguato. I familiari parlano di persone giustiziate a bordo di veicoli, con colpi esplosi a distanza ravvicinata.
Corriere 11.7.17
Sabbia, acqua sporca e checkpoint: dove nuotano i potenti della Cina
di Guido Santevecchi
Anche i capi del Partito-Stato che domina la Repubblica popolare cinese vanno in ferie in estate. «Vacanze di lavoro», naturalmente. E se i compagni sovietici avevano Yalta, i cinesi hanno Beidaihe. In questa località di mare, meno di 300 chilometri a Est di Pechino, si è fatta la storia politica della Cina moderna. Una storia di trame segrete. E a Beidaihe in questi giorni si sta preparando il XIX Congresso del Partito comunista (sarà in autunno, data ancora da comunicare), appuntamento quinquennale che servirà a cementare il potere quasi imperiale di Xi Jinping. Negli Anni 50 Mao Zedong e i suoi uomini decisero qui, durante il ritiro d’estate, di cannoneggiare Taiwan, vararono il primo Piano quinquennale e il famigerato Balzo in avanti. C’è una spiaggia lunga una ventina di chilometri a Beidaihe, la guida turistica sottolinea che «la sabbia è di buona qualità e gli squali sono rari» (a parte quelli del potere, che incrociano numerosi e furtivi). In effetti, il Corriere ha potuto verificare che l’unico piccolo fastidio per i villeggianti sono le meduse e i giornalisti stranieri.
Treno veloce
Siamo arrivati in treno veloce da Pechino in meno di due ore, tra la folla di turisti comuni. Alla stazione di Beidaihe abbiamo dovuto mostrare il passaporto quattro volte, la prima appena scesi dal treno, la seconda per lasciare la banchina, la terza per entrare nell’area uscite, la quarta prima di passare attraverso tornelli d’acciaio. Fuori, pattuglie e mezzi della polizia.
Però, il paesaggio è bello, ordinato, pulito e tranquillo. Il lungomare somiglia a quello di Ostia o Riccione, in scala cinese, vale a dire più grande. Viali ombreggiati da pini e profumo di frittura di pesce trasportato dalla brezza. Oggi l’acqua del mare è sporca (inquinamento industriale) ma in passato Mao, Lin Biao, Zhou Enlai e Deng Xiaoping ci hanno fatto il bagno con figli, nipoti e seguito di cortigiani. A quei tempi il popolo cinese non andava in vacanza e mostrarsi al mare forse dava ai dirigenti il modo di comunicare la loro superiorità e fiducia. Oggi che tutti i cinesi possono prendere le ferie e girare per il mondo, di Xi al mare non filtrano foto: il nuovo imperatore evidentemente non vuole concedere questa visione al suo popolo, sempre per rimarcare la distanza affascinante che separa il vertice dalla base. Le ville, i bungalow e le spiagge degli alti dirigenti sono lontane da quelle aperte al pubblico, in fondo a un lunghissimo vialone alberato, separate da transenne e cordoni di agenti.
Ci sono molte scritte sulle cabine degli stabilimenti balneari: «Seguire sempre il Partito!», «Unirsi strettamente intorno al Comitato centrale, il cui cuore è il compagno segretario generale Xi Jinping!».
Check point sulle strade e anche in spiaggia. Qui, nella parte aperta a tutti (10 milioni di turisti l’anno), sono allineate centinaia di pensioni, alberghi e sanatori delle fabbriche minerarie, chimiche, delle acciaierie, degli enti statali. Le insegne, retaggio del passato, dicono: «Riposo e cura dei lavoratori».
Alta stagione
Sono entrato in alcuni alberghi, chiedendo di vedere le stanze e informandomi sul prezzo, dichiarandomi turista in fuga dal caldo soffocante della capitale, 37 gradi stabili. Sono stati gentili di fronte a un cliente straniero munito di carta di credito. Costo: tra i 600 e i 980 renminbi a notte (85-120 euro), ma i prezzi salgono in alta stagione. Arredi da vecchia pensione italiana, bei terrazzi, odore di muffa, bagni arrugginiti. Molti avvisi in cirillico, orologi con l’ora di Mosca, perché qui vengono tantissimi russi con voli charter per le vacanze, altro che Yalta.
Ma quando stavo chiacchierando con una ragazzina russa, Katya, un uomo della sicurezza vedendo il taccuino è subito intervenuto con la domanda: «jizhe?», giornalista? e mi ha «avviato» all’uscita.
Sul bagnasciuga pattuglie in mimetica e mitra, tra gente in costumi da bagno che da noi erano già fuori moda cinquant’anni fa e donne con burkini antisole, guanti e cappelli per prevenire l’abbronzatura. Oltre ai soldati dei corpi speciali, gli unici armati sono i bambini che hanno palette per le buche lunghe e solide come vanghette militari: sono meticolosi i cinesi, anche in vacanza.
Posto di controllo
Procediamo fino a un ultimo posto di controllo. «Il mare è pulito qui», assicura un poliziotto che sbarra la strada davanti alla zona riservata ai nuovi timonieri statali, «ma è meglio se il bagno lo va a fare più in là, circolare!».
Non è mai sicuro quando i leader del Partito-Stato guidati da Xi Jinping scendono a Beidaihe. I giorni sono variabili da luglio a metà agosto: si può solo immaginare da alcuni indizi, come la presenza di poliziotti supplementari in guanti bianchi piazzati sotto l’ombrellone in spiaggia e l’agenzia Xinhua che improvvisamente smette di dare notizie sulle visite e i discorsi pubblici dei dirigenti. Un segnale che l’inizio degli arrivi dei potenti è cominciato: traffico interrotto improvvisamente sulla strada di ritorno verso la stazione: «Qualcuno di loro che passa, sono veloci, entro cinque minuti al massimo riaprono», dice il tassista a bassa voce.
A Beidaihe in questa estate rovente Xi Jinping deve preparare il Congresso d’autunno e disegnare, non sulla sabbia, l’organigramma del nuovo Comitato centrale permanente del Politburo, visto che 5 dei 7 membri andranno in pensione. Inutile avventurarsi in un toto-politburo. A Pechino tutti parlano di Wang Qishan, 68 anni, il capo della Commissione di Disciplina del partito che ha raggiunto il limite d’età ma che Xi vorrebbe tenere al suo fianco per continuare a fare pulizia di corrotti e avversari politici.
Corriere
L’anima diventa stella: i misteri dell’islam alauita
di Viviana Mazza
Gli alauiti sono la setta cui appartiene il presidente siriano Bashar Al Assad: una minoranza di poco più di un milione di persone (il 10% della popolazione del Paese), originariamente asserragliata sulle montagne del nordovest, ma che più di 40 anni fa ha preso il potere a Damasco. E pochi saprebbero dire quali siano le credenze dei suoi fedeli. Questo perché gli stessi alauiti raramente ne parlano, affermando semplicemente di appartenere a un ramo dell’islam sciita. E lo stesso clan degli Al Assad non accenna mai alla propria religione.
In Il musulmano errante (edito da Rosenberg & Sellier), Alberto Negri, inviato del «Sole 24 Ore», ricostruisce le vicissitudini di questa setta, che ha fatto della taqiyya (la dissimulazione) una strategia di sopravvivenza. La storia si apre sulla strada per Aleppo, dove un autista alauita gli spiega che le anime non muoiono mai e, dopo molte trasmigrazioni, quelle dei veri credenti si trasformano in stelle. Poi l’uomo fa un nome: Al Khasibi.
Se l’iniziatore degli alauiti fu Ibn Nusayr, Al Khasibi, nato nell’873, fu colui che ne codificò la dottrina, mentre un altro membro, Soleyman Effendi — convertitosi all’islam sunnita, poi all’ebraismo, al cristianesimo ortodosso e a quello anglicano — rivelò al mondo il loro credo. Benché come gli sciiti venerino Ali, gli alauiti non lo considerano solo un discendente di Maometto, bensì l’incarnazione stessa di Dio; non andavano in moschea, non praticavano il Ramadan e osservavano rituali diversi.
Durante il Mandato francese, dal 1922 al 1937, fu garantito loro uno Stato ma questo separatismo non poteva resistere all’ascesa del nazionalismo arabo. Così nel 1936 si proclamarono musulmani con la convalida del gran mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, un sunnita (nessun’autorità siriana voleva metterci la firma). Più tardi quando il padre di Bashar, Hafez Al Assad, divenne il primo presidente non sunnita, cercò una legittimazione: ma solo alcuni religiosi sciiti furono disposti a dichiarare che gli alauiti erano musulmani, suggellando un’alleanza tra i due regimi che dura fino a oggi.
il manifesto 11.7.17
C’è vita a sinistra e serve una lista, contro i malati di realismo
C'è vita a sinistra. Le mie obiezioni a chi interviene sul Forum del giornale e dice «con questi personaggi, con questo dibattito non andiamo da nessuna parte». Invece di dire «ci sto, mi interessa»
Al forum sulla sinistra del 6 luglio
© Ginevra Lucidi
Enzo Scandurra
Edizione del
11.07.2017
Pubblicato
10.7.2017, 23:59
Dopo il Forum C’è vita a sinistra (il manifesto, 8 luglio), ho letto, con attenzione, i commenti scambiati attraverso le reti dei social. Commenti disincantati, qualche volta delusi, del tipo: «Con questi personaggi e con questo dibattito, non andiamo da nessuna parte».
Ho da obiettare.
Quando studiavo Storia dell’Architettura mi insegnarono che le cattedrali si costruiscono con le pietre che si trovano nei dintorni. Ma per non far torto ai partecipanti del Forum – nei riguardi dei quali questa affermazione potrebbe essere scambiata quasi per un insulto -, voglio dire che i D’Alema, gli Asor Rosa e gli altri partecipanti (forse non tutti) si sono dimostrati disponibili (e a titolo gratuito, politicamente parlando) a mettersi in gioco, a spendersi per la comune causa di un vero cambiamento a sinistra, come si conviene agli intellettuali e ai politici coraggiosi e degni di questo nome.
In questo confronto i veri “vecchi” mi sono sembrati coloro che si ostinano a non scorgere i tanti segnali (contraddittori? Forse) di vita a sinistra, come fossero in attesa di un messia che sveglia d’incanto le masse addormentate.
In una intervista (Alias dell’8 luglio), a proposito del film di Rossellini Germania anno zero, Luc Dardenne afferma che: «Bisogna cominciare con il cominciamento. E il cominciamento di tutto è il coraggio».
Coraggio che «è il momento della decisione radicale, un momento di rottura e non la risultante di un processo di continuità, il momento di una decisione che non è frutto di un sapere e che, al contrario, si produce grazie e malgrado la conoscenza del pericolo che si corre, della paura che si avverte».
Ora io credo che siamo in questa fase particolare che richiederebbe l’abbandono (non la rimozione, certo) delle incertezze, delle tante illusioni tradite, degli errori compiuti in questo tentativo, per scoprirci ottimisti e fiduciosi e coraggiosi “malgrado”, malgrado tutto. E questo anche perché ogni cinismo politico, sia pur improntato al realismo di ciò che è successo, in questa fase, è una manifestazione di rinuncia.
Siamo ormai diventati troppo abili nel criticare Renzi e le sue derive di destra, così come siamo diventati professionisti della disfatta che quasi evochiamo, prima ancora di metterci in marcia, prima ancora che questa si realizzi (o si autorealizzi).
Quando ascolto D’Alema parlare della nuova sinistra, o Asor Rosa, o Montanari, non mi chiedo cosa abbiano fatto, o non fatto, costoro nel passato. Mi dico invece: ma non è quello che speravamo che costoro prima o poi facessero? Che gridassero ai quattro venti che “il sovrano è nudo”, come sapevamo da tempo, ma come non riuscivamo a dire? Non parlavamo noi del silenzio (colpevole) degli intellettuali?
So che non basta. Non saranno (solo) loro a cambiare le cose (ma neppure essi lo pensano); ma perché tanto cinismo e risentimento di compagni mascherato da realismo? Il realismo può diventare una malattia mortale quando ci impedisce di vedere i segnali del cambiamento; diventa un freno alle passioni, irretisce le menti anziché illuminarle.
Abbiamo già un campione del realismo: è Renzi, che ad ogni girar di vento, cambia tattica e obiettivi (ora, ad esempio, è in sintonia con Salvini sulla questione della difesa delle frontiere). Realisti erano quegli intellettuali che, appena affermato il fascismo, si radunavano sotto il balcone di Piazza Venezia per sentire i discorsi del Duce. E poi, a sera, si rivedevano in un’osteria a ridacchiare delle cose ascoltate: «questo qui», dicevano con realismo, «non dura più di un mese». Mussolini dimostrò più fantasia di loro e sappiamo come è andata a finire quella storia.
Mi piacerebbe che su questo giornale e sui social arrivassero migliaia (milioni?) di lettere con la scritta «Io ci sto!» o, «Per favore, voi che avete l’ambizione di rappresentarci, mettete da parte i vostri problemi personali; vogliamo una sola lista di sinistra alle urne, altre soluzioni non le accetteremmo».
Non sarebbe falso ottimismo ed è inutile invocare la memoria triste dell’Arcobaleno.
La storia non si ripete mai nello stesso modo due volte, se non nelle menti malate dei realisti. Uno slogan del maggio francese del Sessantotto diceva: «Ancora uno sforzo compagni…», e questa volta la storia può cambiare.
il manifesto 11.7.17
A Firenze Diritti a sinistra
di Amos Cecchi
A Firenze è in atto un’aggregazione pluralistica – Diritti a Sinistra – che si propone di contribuire alla ridefinizione di un pensiero critico quale base per un nuovo e forte soggetto politico della sinistra. Il largo dispiegarsi dell’iniziativa, con l’attivazione di tante persone, manifesta una domanda politica in formazione e induce ad una riflessione generale.
1. Non c’è dubbio che a fronte di un importante confronto politico-elettorale (in autunno o in primavera) sia necessario che l’area potenziale di sinistra abbia a disposizione una proposta unitaria, credibile, innovativa. Con un’offerta attraente della sinistra, si può puntare a scomporre gli esistenti rapporti di forza ed a far pesare la sinistra sulla prospettiva del nostro Paese. Pur avendo coscienza che una risposta significativa, sul piano della contingenza politico-elettorale, è una condizione necessaria ma non sufficiente per dispiegare, in modo nuovo, un’azione di cambiamento nel nostro Paese.
2. Lo stato politico della sinistra è grave. Al di là di formazioni politiche largamente in fieri, gran parte della sinistra potenziale si presenta oggi non impegnata, o distante dalla politica (e dal voto), o votante (con relativa convinzione) per aggregazioni di differente populismo. Essa appare davvero un volgo disperso che nome non ha.Riaprire un dialogo qui, seppur necessario, non è semplice. Con un impegno, in più modi, da parte di tanti, può essere intercettata una domanda che, ancora assai ingessata, sta disvelandosi con segni importanti – dal referendum ambientale a quello costituzionale – e che, se si incide sui punti nevralgici della condizione di vita di tanta parte della società italiana, può anche diventare montante. Indispensabile è una riflessione critica profonda. Non soltanto sulla piega impressa al Pd negli ultimi anni. Ma anche e soprattutto sull’azione prevalente della sinistra negli ultimi 20-25 anni. C’è da uscire da quella che, esplicitamente o implicitamente, è stata una lunga e spessa subalternità, politica e culturale, al liberismo ed al politicismo.
Lavoro, scuola, ambiente, welfare, differenze di genere e individuali, Europa: a cominciare da qui, c’è da costruire una larga cultura politica di sinistra, una capacità di analisi e di elaborazione, nuova e radicale. In grado di contrastare e rovesciare la logica che un potere reale accentratosi in specie nella finanza sta dispiegando sull’economia e sulla società, con un modello che produce, al contempo, una disuguaglianza sociale insostenibile, una profonda sottoutilizzazione delle forze produttive sociali ed una perdurante stagnazione economica, insieme ad alti livelli di profitto. C’è da mettere, quindi, al centro i nodi di fondo del Paese e dell’Europa riaprendo, intorno ad essi, una polarizzazione politica di fondo, sinistra/destra, in grado di contenere e relegare ai margini le differenti forme di populismo.
3. Il rilancio di una sinistra forte e inclusiva, in grado di pesare nel Paese e in Europa, con un soggetto politico compiuto, passa, oggi, anche per una ridefinizione del modo di far politica e, quindi, per la ri-costituzione di un suo popolo attivo − pluralistico e multiforme (non soltanto un elettorato con cui confrontarsi alle scadenze formali). La politica, non esaurendosi nella dimensione dei partiti e delle istituzioni, necessita che altre funzioni, ugualmente politiche e altrettanto importanti, seppur richiedenti modalità di organizzazione, partecipazione e comunicazione differenti (da sperimentare), siano, in un rapporto di inter-azione, esercitate intensamente. Un popolo attivo, soprattutto in questa fase di crisi di legittimazione della politica, donando socialmente impegno politico-civile, può anche offrire, nell’interscambio, una forma di garanzia etica all’azione della sinistra.
4. In tal senso, è importante che le iniziative in tante aree del Paese si mettano in rete, coordinandosi e valorizzando il proprio ruolo, iniziando a costituire quell’entroterra politico-culturale di massa di cui la sinistra ha estrema necessità.
il manifesto 11.7.17
Erdogan risponde alla marcia: 47 accademici arrestati
Turchia. Domenica un milione e 600mila persone alla giornata conclusiva della camminata di 480 km per la giustizia. Il Chp, promotore dell’iniziativa, presenta i 10 punti del programma di opposizione
di Dimitri Bettoni
ISTANBUL Si è chiusa domenica la marcia della giustizia, con una grande folla ad attenderla al termine degli ultimi chilometri di un percorso che l’hanno condotta da Ankara fino al distretto di Maltepe ad Istanbul, reclamando giustizia per il paese.
Le opposizioni festeggiano un’iniziativa considerata di grande successo attraverso un manifesto di dieci punti programmatici elencati da Kilicdaroglu nel suo discorso finale: condanna del tentato golpe e richiesta di un’indagine sui reali mandanti politici, rimozione immediata dello stato di emergenza e ritorno allo stato di diritto, fine delle violazioni dei diritti umani, abolizione di tutti gli impedimenti agli appelli contro i provvedimenti dello stato di emergenza, reintegro degli accademici licenziati e rilascio di tutti i parlamentari arrestati, abolizione delle modifiche costituzionali introdotte con il referendum di aprile, rimozione dei meccanismi di controllo dell’esecutivo sul parlamento e stop all’erosione del principio costituzionale del secolarismo, lotta alla discriminazione della donna, fine della politica estera aggressiva intrapresa dal governo.
È battaglia di numeri sui partecipanti: l’organizzazione reclama 1.600.000 presenze in strada, mentre l’ufficio del governatore di Istanbul stima in 170mila i cittadini che si sono riuniti nel parco sulla costa del Mar di Marmara.
La marcia ha ricevuto il sostegno trasversale di tutte le forze d’opposizione ad Erdogan, che sperano di aver dato la prima picconata al clima di intimidazione degli ultimi due anni e di incoraggiare i cittadini a tornare ad una vita politica partecipata.
Ma un’altra vittoria è nel capitale politico che il partito repubblicano Chp ha guadagnato agli occhi dell’opinione pubblica, magari da non dilapidare nei clamorosi autogol degli anni scorsi come l’appoggio alla rimozione dell’immunità dei deputati.
Il partito si appresterebbe ora a lanciare quella che hanno annunciato come la più grande petizione per chiedere la liberazione di tutti i giornalisti e degli accademici detenuti in Turchia.
Nel frattempo il governo sdogana la marcia e continua a spingere sull’acceleratore della repressione. Il portavoce Akp Mahir Unal ha attaccato Kilicdaroglu accusandolo di voler «scatenare l’anarchia» nelle strade.
Erdogan, sulla via del ritorno dal G20 in Germania, ha liquidato la marcia come l’iniziativa di un partito che nulla ha che fare con la giustizia, ricordando sia l’espulsione nel 1999 dal parlamento di Merve Kavakçı nel 1999 per via dell’hijab da lei indossato, sia la sua stessa incarcerazione al tempo del suo mandato come sindaco di Istanbul.
La vera risposta del governo alla marcia giunge però nei fatti. Altri 47 tra accademici e personale delle università Bogazici e Medeniyet sono stati arrestati.
Ancora una volta l’accusa è di collusione con Fetullah Gülen e la sua organizzazione. Contestato l’uso dell’applicazione per smartphone Bylock, che le autorità considerano una delle prove di affiliazione e sarebbe stata utilizzata dagli aderenti al gruppo per comunicare tra loro.
Tra gli arrestati Koray Caliskan, docente di scienze politiche della Bogazici. Il giornale Sabah, nota bocca del governo, ha pubblicato presunti tweet dove Caliskan avrebbe difeso Gülen, ma sul suo profilo abbondano i cinguettii in sostegno alla marcia per la giustizia, alla lotta degli accademici Nuriye Gulmen e Semih Ozakca incarcerati e in sciopero della fame, al movimento Lgbt in Turchia. Temi lontani dal conservatorismo religioso del gulenismo.
Che non ci si debba aspettare alcun cambio di rotta dal governo nei prossimi tempi appare chiaro anche dall’incontro tra Erdogan e il segretario di stato americano Rex Tillerson, avvenuto a margine del 22° Congresso mondiale sul petrolio, in corso ad Istanbul.
I due avrebbero discusso della situazione nel nord della Siria, con la Turchia che spinge per ottenere l’avallo americano sulla sua presenza nella regione e prova al contempo a rompere l’alleanza americana con i curdi della Rojava.
Tillerson ha auspicato che le relazioni tra i due paesi, «straordinariamente importanti per ragioni di sicurezza, economiche e geostrategiche, possano essere riparate dopo un periodo di difficoltà».