SULLA STAMPA DI MERCOLEDI 5 LUGLIO
Corriere 5.7.17
Cuba, riaprono le case dell’amore Motel a ore per tutte le tasche
di Sara Gandolfi
Le «posadas» statali torneranno a regalare un po’ di privacy alle coppie
Cuba,
si sa, è terra di passioni. A volte, però, l’amore costa davvero caro.
Cinque dollari per tre ore: l’equivalente di un sesto del salario medio,
ossia 29,60 dollari (anche se poi si arrotonda sempre, inventandosi
qualcosa sul mercato nero). Non è il prezzo di una prostituta o
dell’ingresso ad un postribolo, ma la tariffa delle case d’amore
private, o «particular», dove le coppie che di norma condividono
l’abitazione con almeno tre generazioni di parenti possono finalmente
trovare una pur fugace intimità. Un salasso. Per questo l’Empresa
provincial de Alojamiento dell’Avana, praticamente il nostro ente
statale per le case popolari, ha deciso di riaprire le «posadas»
dell’amore, motel che affittano le stanze ad ore, con tariffe alla
portata di tutte le tasche.
Non è una novità. Il quotidiano del
regime Trabajadores , organo del sindacato di Stato, spiega che la prima
posada della capitale — «Carabanchel» — fu aperta alla fine del XIX
secolo nel centro storico della città, poi seguirono decine di
stabilimenti, anche dopo l’avvento della rivoluzione castrista. Negli
anni Novanta, però, «a causa della crisi economica», quasi tutti furono
trasformati in abitazioni d’emergenza per le vittime degli uragani. I
pochi che restarono aperti, «con il tempo soffrirono della mancata
manutenzione e quindi di un notevole deterioramento, fino alla lenta
scomparsa».
Ma cinque dollari per tre ore di privacy amorosa sono
davvero troppi, avverte il quotidiano dei lavoratori cubani. Anche se i
privati, aggiunge, offrono «aria condizionata, frigorifero, acqua fredda
e calda, e un comfort adeguato». Non alcol, però. Quello si paga a
parte, «una bottiglia di rum ha prezzi stratosferici», assicura il
foglio di regime.
Il problema, ammette il quotidiano, è che oggi chi
non può permettersi la stanza ad ore si ingegna con alternative «poco
consone» come gli ospedali, i parchi, le scale buie, la spiaggia e
perfino il celebre Malecón, il lungomare dell’Avana.
Per il momento,
lo Stato riaprirà una sola posada, l’hotel Vento. Ma all’Avana sono in
progetto altre quattro posadas: La Monumental, Edén Arriba, Edén Abajo e
l’hotel Ocho Vías. «Perché — sostiene Trabajadores — diversificare le
opzioni per fare l’amore è una necessità che deve raggiungere tutti e
non può trasformarsi in un lusso». D’altra parte, qualcuno ai piani alti
deve aver capito che si tratta pure di un mercato piuttosto redditizio.
I clienti possibili sono amanti clandestini, ma anche coppie sposate in
fuga dal trambusto del clan e i divorziati costretti a continuare a
convivere con l’ex, per mancanza di alloggi alternativi. Tutti i cubani
sopra i trent’anni, ricorda il giornale, hanno qualche ricordo
nostalgico di «quel primo bacio indimenticabile e del portiere che a un
certo punto bussava per dire che il tempo del loro amore era finito».
Il Fatto 5.7.17
Inps, Boeri: “Chiudere frontiere agli immigrati? Costa 38 miliardi e distrugge nostro sistema di protezione sociale”
Il
presidente dell'istituto di previdenza, nella relazione annuale al
Parlamento, sottolinea l'urgenza di un salario minimo. E chiude al
possibile stop nel 2019 dell’adeguamento all’aspettativa di vita per la
pensione di vecchiaia: "Non è una misura a favore dei giovani", i costi
si "scaricherebbero sui nostri figli e sui figli dei nostri figli"
qui
https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/07/04/inps-boeri-chiudere-frontiere-agli-extracomunitari-costa-38-miliardi-e-si-distrugge-il-nostro-sistema-di-protezione-sociale/3705407/
il manifesto 5.7.17
Inps: «Immigrati essenziali per il nostro Stato sociale»
Il
rapporto annuale . Il presidente Boeri dice no alla chiusura delle
frontiere: creerebbe un buco di 38 miliardi. Sì al salario minimo
fissato dalla legge. Cambiare i contratti a termine, squilibrati a
favore dell’impresa
di Antonio Sciotto
«Chiudere le frontiere
potrebbe costare un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse
dell’Inps. Insomma una manovrina in più da fare ogni anno per tenere i
conti sotto controllo». Conti alla mano, il presidente dell’Inps Tito
Boeri ieri – in occasione della relazione annuale sull’attività
dell’istituto – ha fornito nuovi numeri su un tema che sta dividendo il
Paese. E ha invitato a non alzare muri: «Non abbiamo bisogno di chiudere
le frontiere – ha spiegato – Al contrario, è proprio chiudendo le
frontiere che rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione
sociale».
«GLI IMMIGRATI – ha concluso sul punto Boeri – offrono un
contributo molto importante al finanziamento del nostro sistema di
protezione sociale e questa loro funzione è destinata a crescere nei
prossimi decenni man mano che le generazioni di lavoratori autoctoni che
entrano nel mercato del lavoro diventeranno più piccole».
Ma la
relazione è stata l’occasione per il presidente Inps di dire la sua su
molti altri temi, in alcuni casi appoggiando le politiche del governo –
con un elogio del Jobs Act, contro l’articolo 18 – in altri attaccando
di petto i sindacati, facendo intendere che i dati diffusi dalle stesse
organizzazioni sulla loro rappresentanza siano gonfiati. Ancora: Boeri
ha auspicato l’istituzione di un minimo salariale fissato dalla legge –
sulla scorta dei nuovi voucher, che già fissano una paga oraria
sganciata dai contratti – e ha chiesto di modificare i contratti a
termine, oggi troppo sbilanciati a favore degli imprenditori e a danno
dei lavoratori.
PRIMA DEI NODI politici, uno sguardo ai dati del
rapporto Inps: nel 2016 i pensionati con un reddito mensile sotto i
mille euro sono stati 5,8 milioni, il 37,5% del totale dei pensionati
italiani (15,5 milioni). Erano stati il 38% nel 2015: più alta la
percentuale di donne sotto i mille euro – il 46,8% sul totale delle
pensionate – a fronte del 27,1% degli uomini. Sono invece 1,06 milioni i
pensionati sopra i 3 mila euro al mese e 1,68 milioni (il 10,8%) quelli
che restano sotto i 500 euro al mese.
Nel 2016 l’Inps ha chiuso con
un bilancio di esercizio negativo per 6,046 miliardi, in miglioramento
rispetto ai 16,2 miliardi di rosso del 2015. Il patrimonio netto si è
ridotto alla cifra di 254 milioni di euro. Il contributo degli immigrati
è evidente: tanto più se si considera che per il momento è più alto il
valore dei contributi incassati rispetto a quello delle prestazioni
erogate.
IL PRESIDENTE BOERI è entrato quindi nel dibattito
sull’adeguamento automatico dell’età, pronunciandosi sul possibile stop
nel 2019: il blocco dell’adeguamento all’aspettativa di vita per la
pensione di vecchiaia «non è una misura a favore dei giovani – ha
spiegato – perché i costi si scaricherebbero sui nostri figli e sui
figli dei nostri figli». «Sarebbe meglio – ha quindi aggiunto –
fiscalizzare una parte dei contributi all’inizio della carriera
lavorativa per chi viene assunto con un contratto stabile».
Elogio
poi per la cancellazione dell’articolo 18: «Ha rimosso il tappo alla
crescita delle imprese sopra la soglia dei 15 dipendenti». «I nostri
studi – ha spiegato – dimostrano che c’è stata un’impennata nel numero
di imprese private che superano la soglia dei 15 addetti: dalle 8 mila
al mese di fine 2014 siamo passati alle 12 mila dopo l’introduzione del
contratto a tutele crescenti».
ANCORA, BOERI nega che vi siano legami
tra la rimozione dell’articolo 18 e il boom dei licenziamenti
disciplinari: «Avrebbe dovuto caratterizzare essenzialmente le imprese
con oltre 15 dipendenti, ma in realtà – ha spiegato – la crescita del
tasso di licenziamento è stata più rilevante nelle piccole imprese,
sostanzialmente estranee a tali riforme».
Altro nodo toccato, i
contratti a termine: Boeri nota che dopo la fine dei ricchi incentivi a
quelli a tutele crescenti (da inizio 2016) sono tornati ad aumentare,
cannibalizzando le assunzioni stabili. Sarebbe perciò «opportuno
riconsiderare il regime dei contratti a tempo determinato, che
trasferiscono troppa parte del rischio di impresa sul lavoratore,
potendo essere rinnovati ben cinque volte nell’arco di tre anni».
OK
AL SALARIO minimo fissato dalla legge: «Avrebbe il duplice vantaggio di
un decentramento della contrattazione e di uno zoccolo retributivo
minimo per quel crescente numero di lavoratori che sfugge alle maglie
della contrattazione», e dalla paga fissata dai nuovi voucher (9 euro al
netto dei contributi sociali) «il passo è breve».
Bene il Rei, il
nuovo reddito di inclusione sociale, ma la platea è ancora troppo
ristretta e le somme erogate sono ancora troppo basse: «Manca ancora in
Italia uno strumento universalistico a sostegno della disoccupazione e
dell’indigenza».
il manifesto 5.7.17
Per i migranti l’alternativa c’è
di Luigi Manconi
Tra
le molte insidie della discussione pubblica sul tema dell’asilo e
dell’immigrazione, c’è quella – velenosissima – che porta a raffigurare
la situazione come uno scenario nichilista senza salvezza, senza rimedio
e senza via d’uscita.
Non è affatto così. In questa materia,
politiche razionali e intelligenti, pur ardue e faticose, sono possibili
e previste tra le pieghe dalle normative e delle convenzioni europee; e
alcune di esse sono state già sperimentate e diffusamente applicate con
un certo successo.
Nel 2013, all’indomani del naufragio di Lampedusa
del 3 ottobre, avanzammo una serie di proposte molto concrete per
affrontare la crisi umanitaria nel Mediterraneo. L’obiettivo era quello
di evitare la lunga e dolente teoria delle morti in mare e l’intenzione
quella di indurre l’Unione europea a farsi carico della questione
migratoria adottando meccanismi di condivisione e solidarietà tra gli
Stati.
Innanzitutto fu elaborato un piano di ammissione umanitaria,
molto dettagliato e circostanziato, che prevedeva canali legali e sicuri
verso l’Europa per i profughi bisognosi di protezione: un piano ancora
attuale e sempre più necessario. La seconda proposta riguardava la
possibilità che il governo italiano ricorresse alla concessione della
protezione temporanea ai profughi sbarcati sulle nostre coste in base a
quanto previsto dalla direttiva 55 del 2001. Ed è, questa, una
opportunità estremamente importante che va presa in serissima
considerazione al più presto. Quella direttiva, infatti, stabilisce
standard minimi per la concessione della protezione temporanea in caso
di afflusso massiccio, nonché la promozione dell’equilibrio degli sforzi
tra gli Stati membri che accolgono gli sfollati. La durata della
protezione temporanea è di un anno e gli Stati membri sono obbligati a
indicare la propria capacità di accoglienza; e a cooperare per il
trasferimento della residenza delle persone da uno Stato all’altro.
Nei
giorni scorsi ho riproposto in molte sedi l’adozione di questo
provvedimento, e così hanno fatto Radicali italiani e Comunità di
Sant’Egidio, come alternativa all’idea, difficilmente praticabile e da
scongiurare, della chiusura dei porti italiani alle navi dei profughi. A
ulteriore sostegno della richiesta sulla protezione temporanea, da
avanzare rapidamente in sede Ue, si ritrova nella storia recente del
nostro Paese un concreto e istruttivo precedente. Nel 2011 il governo
Berlusconi di fronte agli arrivi, già allora consistenti, di profughi
provenienti dalla Tunisia, concesse «un permesso di soggiorno per motivi
umanitari», della durata di 6 mesi, rinnovati in seguito per un altro
anno. Qualora una richiesta analoga del governo italiano al Consiglio
europeo non venisse accolta, si potrebbe comunque procedere all’adozione
a livello nazionale di un provvedimento simile a quello del 2011. A
marzo di quell’anno, alcune migliaia di tunisini entrarono o provarono a
entrare in Francia muniti di permesso temporaneo valido per
attraversare le frontiere: si aprì un contenzioso con l’Italia e la
questione si impose a livello europeo. A maggior ragione oggi, in un
contesto molto più delicato, precario e complesso, porre in questi
termini la necessità di una presa in carico della gestione dei flussi da
parte di tutti gli Stati membri avrebbe un impatto forte, senza mettere
a rischio l’incolumità delle persone in fuga.
Velleitario? Poco
credibile? Ma davvero qualcuno può pensare che la concessione di un
permesso di soggiorno per motivi umanitari sia meno realistica della
cupa distopia della «chiusura dei porti italiani»?
La Stampa 5.7.17
Professori assunti in anticipo, cattedre assegnate in estate
Dopo
le polemiche dell’anno scorso l’impegno del ministro Fedeli: “Alla
prima campanella tutte le classi avranno i loro insegnanti”
di Flavia Amabile
Ricordate
l’anno scorso il balletto dei supplenti e delle materie senza
insegnanti fino a gennaio? Quest’anno la ministra dell’Istruzione Fedeli
ha promesso che i problemi non si ripeteranno. Tutto l’iter delle
assunzioni e della gestione della fase finale dell’avvio dell’anno
scolastico seguirà un iter con scadenze prefissate in grado di garantire
che tutto si svolgerà nel migliore dei modi.
è una delle promesse
più forti che potevano arrivare dal Miur nei confronti di genitori,
dirigenti e studenti ancora alle prese con le conseguenze di un anno
scolastico che in molti casi ha avuto forti ritardi nella didattica. Se
il ministero riuscirà a mantenerla sarà la migliore dimostrazione di una
netta svolta nella gestione dell’istruzione rispetto alla ministra
precedente, Stefania Giannini. Matteo Renzi da presidente del Consiglio
non aveva mai fatto mistero di non aver gradito l’attuazione della
riforma della scuola. Dal suo punto di vista avrebbe dovuto essere uno
dei fiori all’occhiello del suo mandato: si è rivelato, invece, uno dei
punti deboli con un’emorragia di voti in un mondo che era sempre stato
fedele al Pd.
Con Gentiloni a Palazzo Chigi e Valeria Fedeli alla
guida del Miur, l’atteggiamento del governo nei confronti dei professori
è molto cambiato. C’è stato un lungo lavoro di dialogo con i sindacati e
di messa a punto in modo concordato di tutte le procedure. «Il Miur -
spiega la ministra - lavora da oltre sei mesi per questo obiettivo. È un
impegno preso con la scuola, con le ragazze e i ragazzi, con le loro
famiglie. Rispetto al 2016/2017 abbiamo operato per concludere ogni
attività almeno un mese prima».
Quest’anno saranno 52 mila i posti
disponibili per le assunzioni, compresi i 15.100 in più previsti dalla
Legge di Bilancio grazie alla trasformazione di una parte dell’organico
di fatto in organico di diritto. Le procedure per le assunzioni, si
concluderanno «entro il 14 agosto, con decorrenza dei contratti dal
primo settembre. Lo scorso anno si chiusero il 15 settembre», promette
la ministra. Si riuscirà a definire in tempi più rapidi anche il quadro
delle assegnazioni provvisorie dei supplenti che dovranno essere
completate entro il 31 agosto mentre l’anno scorso terminarono a
ottobre. Per rispettare l’impegno si deve ridurre al minimo il numero di
ricorsi, quindi ci saranno maggiori e migliori controlli. «Bisogna
combattere gli abusi», è l’avvertimento. «Dobbiamo agire a tutela di chi
ha veramente bisogno, per questo oggi scriverò a Inps, Regioni e
ministero della Salute affinché sia aperto un tavolo». Grazie alle nuove
assunzioni, però, si potranno avere almeno 15 mila supplenti in meno.
Per
la mobilità, il ministero ha avuto diversi elementi a rendere meno
complicato il quadro in cui operare. Innanzitutto, le cifre: la mobilità
avviene sul 30% dei posti, non sulla totalità come lo scorso anno. Ed è
su base volontaria, non obbligatoria. «Finora - annuncia la ministra -
sono 5200 i docenti, dall’infanzia alla secondaria di primo grado, che
cambieranno regione in base alla loro richiesta». In totale ci sono
139.583 richieste di trasferimento.
E’ evidente che questo lavoro non
eliminerà i problemi, la ministra ne è consapevole. Ad esempio,
avverte: «alcuni posti non saranno coperti con le assunzioni.
Mancheranno docenti di matematica, lo sappiamo già ora, sono un numero
inferiore dei posti disponibili. Stiamo facendo di tutto per rendere
appetibile questo insegnamento».
Repubblica 5.7.17
Massimo Bray, ex ministro della cultura“Troppi errori, la sinistra torni a parlare a chi non le crede più”
Mauro Favale
ROMA.
«Si dice spesso che la frammentazione è nel dna della sinistra. Ecco,
io punterei a cambiarlo questo dna». Massimo Bray ha 58 anni e di
mestiere è direttore generale dell’Enciclopedia Treccani. Tra il 2013 e
il 2014 è stato ministro della cultura del governo Letta. Nel febbraio
2015 si è dimesso da deputato; ad aprile di quest’anno è stato nominato
presidente della Fondazione per il Libro che organizza il Salone di
Torino. Un curriculum di un uomo di sinistra a lungo accostato a Massimo
D’Alema (è stato direttore della rivista Italiani/Europei) ma con la
tessera del Pd ancora in tasca. Un anno fa il suo nome è circolato per
la candidatura a sindaco di Roma alla guida di una coalizione in
competizione col Pd. «Ho rifiutato perché non voglio dividere la
sinistra. Non serve a nessuno e gli elettori non capirebbero».
Eppure
sembra quello l’approdo finale: da una parte il Pd di Matteo Renzi
dall’altra la formazione guidata da Giuliano Pisapia. Bisogna
rassegnarsi alla frammentazione?
«Sarò un inguaribile ottimista ma io credo che mettendo da parte i personalismi una sintesi sia ancora possibile».
Si iscrive anche lei al partito della coalizione unita?
«Forse è il caso di non parlare più di primarie, secondarie, coalizioni, listoni, leggi elettorali, soglie di sbarramento».
Questo lo dice anche Renzi.
«Sì,
ma io voglio una sinistra che ripensi il capitalismo così come si è
strutturato in questi decenni, che superi le diseguaglianze, che difenda
i beni comuni, che definisca un piano di investimenti pubblici, che dia
un futuro al Mezzogiorno e torni a coinvolgere i giovani. La
maggioranza degli astenuti alle Comunali arriva da lì, da ragazzi che
non pensano alla politica come qualcosa che li appassiona. Sono loro i
primi a cui dobbiamo rivolgerci».
A partire da cosa?
«Da alcune
priorità: lavoro, scuola, ambiente, cultura, impresa, agricoltura,
turismo. Ma per farlo dobbiamo tornare ad ascoltare questo Paese, dire
la verità e riconoscere gli errori».
C’è stata troppo poca autocritica nel Pd dopo le Comunali?
«Se
potessi dire qualcosa a Renzi gli direi di ripartire dall’entusiasmo
con cui nacque il Pd, da quell’idea di tenere insieme i riformismi di
questo Paese, dalla costruzione di un soggetto che ripensasse l’idea di
partito, un soggetto con il quale la sinistra italiana provava a
interpretare le sfide del XXI secolo».
E adesso, invece? Può esistere un centrosinistra senza il Pd?
«Non può esistere un centrosinistra senza quell’idea di Pd».
E allora? Cosa impedisce il riavvicinamento? I personalismi?
«Il
personalismo mi pare sia un male che ha colpito non solo la sinistra e
non solo il nostro Paese. L’epoca delle leadership è destinata a finire,
le scelte non possono essere calate dall’alto, ma condivise, creative e
non burocratiche. Mi dispiace sfogliare i giornali e vedere un mondo a
cui sono legato sentimentalmente che non riesce a uscire dalla
litigiosità e a lanciare un vero progetto per il Paese».
Repubblica 5.7.17
“Caso Alpi, impossibile arrivare alla verità”
La
procura di Roma chiede l’archivazione dell’indagine: nessuna prova per
risalire a killer e movente La rabbia della madre a 23 anni
dall’omicidio della figlia: è una vergogna, non credo più nella
giustizia
di Daniele Mastrogiacomo
ROMA. «Sono furibonda. E
molto amareggiata», dice la signora Luciana Alpi. «La richiesta
d’archiviazione non me l’aspettavo. C’erano tutti gli elementi per
riaprire il caso. Ormai sono disillusa. Non credo più nella giustizia.
Si è fatto di tutto per perdere tempo: 16 mesi per fare una rogatoria e
stabilire che l’unico grande testimone di questa vicenda aveva detto il
falso. Una vergogna. Ma non mi arrendo. Fino a quando potrò, inseguirò
la verità».
La morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è destinata a
restare senza un colpevole. Quell’agguato nella Mogadiscio scossa dai
primi lampi di una guerra civile che dura ancora adesso è ancora un buco
nero avvolto dai misteri e dalle menzogne. Per la seconda volta in
dieci anni, la procura di Roma ha chiesto di archiviare il caso perché è
impossibile individuare i killer, i mandanti e il movente del duplice
delitto. Con una motivazione di 80 pagine, la pm Elisabetta Ceniccola e
il procuratore capo Giuseppe Pignatone spiegano che il tempo (23 anni),
le condizioni attuali della Somalia e l’assenza di qualsiasi traccia sui
possibili assassini e mandanti, rendono difficile poter riaprire un
procedimento che faccia luce su uno dei grandi misteri italiani.
Federazione
della Stampa e sindacato Rai (Usigrai) esprimono «rabbia e sconcerto».
«Riteniamo — dicono in un comunicato — che la ricerca della verità debba
proseguire non solo nei confronti delle vittime ma anche perché in uno
stato di diritto non possono essere consentite omissioni e reticenze».
La
verità storica è quasi sempre diversa da quella giudiziaria. È raro
trovare in sede processuale conferma degli elementi che il tempo e le
circostanze offrono nel corso degli anni. Gli indizi non sono prove.
Restano dei sospetti. E i sospetti, sebbene coincidenti e ripetuti, non
sono sufficienti a formulare un verdetto di colpevolezza al di là di
ogni ragionevole dubbio. I killer di quell’agguato, avvenuto il 20 marzo
del 1984 a Mogadiscio, sono stati loro stessi inghiottiti dal buco nero
che avvolge tutta questa tragedia. Probabilmente sono morti. Spariti
anche i testimoni che hanno assistito alla violentissima sparatoria.
Come molte prove. Una tra le tante: alcuni taccuini su cui Ilaria aveva
raccolto gli appunti del suo ultimo servizio, quello che l’aveva portata
verso l’estremo lembo settentrionale della Somalia, a Bosaso, per
intervistare il sultano del posto. Erano nei suoi bagagli, caricati a
bordo della nave militare italiana che avrebbe riportato a casa le due
salme.
L’agguato a Ilaria e Miran è stato premeditato. Insolito.
Unico nel suo genere, sebbene a Mogadiscio nessuno si poteva sentire al
sicuro. In guerra muoiono anche i giornalisti. Ma chi ha ucciso i due
inviati del Tg3 sapeva dove erano andati, cosa avevano fatto, cosa
raccolto, cosa chiesto e visto. Ha teso una trappola a due scomodi
testimoni di una verità imbarazzante. Forse un traffico d’armi, forse un
traffico di rifiuti. Probabilmente entrambi, organizzati e portati a
termine attraverso le navi che la nostra Cooperazione internazionale
aveva fornito alla Somalia di Siad Barre. Ipotesi, naturalmente. Ma
supportate da una serie di testimonianze poi smentite e riconfermate;
smontate infine da due Commissioni parlamentari d’inchiesta e da quattro
indagini.
Ed è proprio questo susseguirsi di mezze verità e tante
menzogne ad aver sollevato il polverone. Sostenere, come fa adesso la
procura, che non ci siano stati depistaggi nella tragedia di Miran e
Ilaria lascia interdetti. C’è una sentenza, della Corte d’Appello di
Perugia, che afferma esattamente il contrario. È stata emessa il 19
ottobre scorso. Ha stabilito che l’unico condannato, il somalo Hashi
Omar Hassan, una pena a 26 anni, era innocente. Il supertestimone che lo
indicava tra i killer dei due giornalisti, Ahmed Ali Rage, ha ammesso
di aver detto il falso perché «gli italiani avevano fretta di chiudere
il caso».
Nessuno, inquirenti in testa, si è mai preoccupato di
verificare se il supertestimone avesse detto la verità. Rage, dopo il
suo verbale d’accusa, ha potuto espatriare e vivere alla luce del sole
prima in Germania e poi in Inghilterra. È stata una giornalista della
trasmissione di Rai 3 “Chi l’ha visto?” ad averlo rintracciato. Alla
collega ha detto quello che poi ha ripetuto davanti ai giudici: era
stato convinto ad accusare il somalo di turno. Ma non è bastato neanche
questo a squarciare il velo di menzogne e ipocrisie che ha seppellito
definitivamente un crimine ancora scomodo per molti.
La Stampa 5.7.17
L’India guarda a Israele per un patto su sicurezza e nuove tecnologie
Modi primo leader di Delhi nello Stato ebraico
di Giordano Stabile
C’era
anche una nuova specie di crisantemo, battezzata «Narendra Modi», ad
accogliere il primo ministro dell’India al suo arrivo in Israele. Un
omaggio al leader e alla cultura indù, che vede in quel fiore un simbolo
di lunga vita e ricchezza. Gli israeliani hanno fatto le cose in grande
per la prima visita di un premier indiano in carica: i due Paesi si
sono sempre guardati con simpatia, se non altro per i comuni nemici
musulmani, ma da due campi diversi, quello occidentale per lo Stato
ebraico, quello dei «non allineati» per l’India. L’incontro fra Modi e
Benjamin Netanyahu, che ieri pomeriggio si sono abbracciati
all’aeroporto Ben Gurion con l’energia di due vecchi amici, è
l’occasione per forgiare un’alleanza strategica e il leader indiano è
stato accolto con onori riservati solo a Donald Trump.
Modi resterà
in Israele per tre giorni, prima di volare in Germania al summit dei
G20. Se Israele trova un amico da un miliardo e duecento milioni di
abitanti, un mercato che cresce più della Cina, al sette per cento
all’anno, il leader nazionalista indù vede nello Stato ebraico un
modello di sviluppo tagliato su misura per le esigenze dell’India. I tre
giorni serviranno a definire accordi su tre piani: la collaborazione
nell’industria informatica e hi-tech, il trasferimento di tecnologie
agricole, soprattutto per le coltivazioni nei terreni aridi, la
collaborazione militare, specie nel campo missilistico.
La Silicon
Wadi vicino a Tel Aviv, e la «Cupertino dell’India», Bangalore, sono i
due grandi centri asiatici per le tecnologie del Ventunesimo secolo.
L’India è interessata al modello delle start-up, che ha contribuito alla
crescita media del sei per cento degli ultimi anni in Israele. Per lo
Stato ebraico il mercato indiano offre la possibilità di far fare un
salto di dimensioni alle proprie imprese. Alle nuove tecnologie sono
anche legate le innovazioni che hanno trasformato il deserto del Negev
in un giardino. Tra le eccellenze visitate da Modi, e molto apprezzata,
c’è per esempio la Danziger Flower Farm, pioniere nella floricoltura.
L’India
ha territori immensi semi-aridi, ed è lì la frontiera per sfamare i 25
milioni di nuovi cittadini che nascono ogni anno. Modi e Netanyahu
puntano a triplicare gli scambi commerciali, fermi a meno di 2 miliardi
di dollari. Undici ministri del governo israeliano hanno lavorato a
progetti in comune, con investimenti per 80 milioni. Israele vuole
attirare più turisti, ora sono soltanto 45 mila, puntando anche sulla
comunità di 85 mila indiani che ospita. In cinquemila daranno questa
sera il benvenuto al loro premier alla Fiera di Tel Aviv. Ma il piatto
forte saranno gli accordi nel settore dell’industria militare.
L’India
ha una sua industria missilistica avanzata e guarda con estremo
interesse al sistema anti-balistico Arrow-3, lo scudo ideale per fermare
la minaccia dei missili del Pakistan, potenza nucleare e storico
avversario. Tanto più oggi, con Modi che spinge sull’acceleratore del
nazionalismo indù anti-islamico. Un accordo in questo campo porterebbe
l’alleanza su un quarto livello. Israele ha sempre puntato ad accordi
con potenze «alle spalle» del mondo arabo-musulmano. Con l’Etiopia
cristiana in Africa, con l’Iran dello Scià, rivale delle potenze arabe,
fino al 1979, con la Turchia pilastro della Nato in Medio Oriente.
Questo sistema di alleanze è però in gran parte in pezzi. Con l’India,
terza potenza economica mondiale, Israele avrebbe una seconda
assicurazione sulla vita, dopo quella americana.
La Stampa 5.7.17
Gerusalemme, un museo multimediale per camminare fra le radici del cristianesimo
Aperto al pubblico il primo nucleo presso il Monastero della Flagellazione
di Lea Luzzati
Un
museo multimediale fra le mura della Città Vecchia è quasi una
contraddizione in termini, certamente una sfida al tempo che le sue mura
trattengono, a tutte le possibili declinazioni della fede che qui si
incrociano quotidianamente, a volte si scontrano ma non di rado
convivono dentro una specie di pace calda, o forse guerra fredda.
Invece,
il primo nucleo del nuovo Terra Sancta Museum è stato appena aperto al
pubblico presso il Monastero della Flagellazione: costruito in
collaborazione con lo Studium Biblicum Franciscanum, la Custodia e
l’associazione Pro Terra Sancta, si tratta di un cammino nella storia di
Gerusalemme dall’epoca di Gesù al presente.
Progetto tanto ambizioso
quanto al passo con i tempi, il Terra Sancta Museum, nel cuore di
Gerusalemme, presenta un percorso di visita che si snoda in luoghi
diversi della Città Vecchia, nella sua santità ma soprattutto nella sua
straordinaria narrativa. Una volta ultimato sarà un grande museo
dedicato alla millenaria presenza cristiana nella città santa, un vero e
proprio museo diffuso che avrà sede nel Monastero della Flagellazione e
nel Convento di San Salvatore, con una sezione archeologica ricca di
reperti e una più propriamente storica e didascalica.
Sarà
soprattutto un percorso lungo la Via Dolorosa, dentro la pietra dura e
luminosa di Gerusalemme, in quel passato così lungo che in fondo sta già
tutto nelle brevi e drammatiche ore della Passione, nelle sue stazioni,
passo dopo passo verso il Calvario. Sarà una esperienza da vivere più
che da visitare per fedeli d’ogni confessione e per chi la fede non ce
l’ha, ma a Gerusalemme sente che tira un’aria speciale e il cielo ha una
luce che non ha da nessun’altra parte del mondo.
La nuova ala
multimediale del museo è dunque ora visitabile nel monastero della
Flagellazione, là dove significativamente comincia il percorso della Via
Dolorosa (il sito si trova in corrispondenza della seconda stazione):
qui il visitatore viene trasportato nella città del tempo di Erode
attraverso le immagini, i suoni, la narrazione. Gli effetti speciali
delle nuove tecnologie servono non tanto per lasciare a bocca aperta o
per far vivere al visitatore un’esperienza «estrema», piuttosto per
accompagnarlo nel passato con l’immediatezza che solo i sensi ci
permettono. Ma si tratta anche, e soprattutto, di un percorso di
conoscenza storica.
E se la tecnica multimediale è ormai entrata
nella dotazione dei musei e costituisce un’esperienza di visita comune,
averla qui, in questo luogo e dentro questa storia, è qualcosa di
speciale. È vero che Gerusalemme è un posto che fa perdere le coordinate
del tempo e dello spazio, è vero che questa città è un melting pot dove
tutto si incrocia e alla fine riesce a pure a convivere - non senza
conflitti, contraddizioni, frustrazioni e ferite aperte, certo. Ma
attraversare un’epoca storica e spirituale così profonda e cruciale
attraverso una esposizione multimediale così sofisticata e convincente è
davvero qualcosa di unico.
L’obiettivo è infatti non solo quello di
far esplorare Gerusalemme e la cristianità, ma anche di informare il
visitatore su questa millenaria presenza cristiana nella sua vita, nella
discrezione di innumerevoli gesti quotidiani. Far sentire questa
presenza più vicina e familiare ad ogni visitatore - cristiano, ebreo,
musulmano o di qualunque altra confessione, o di nessuna confessione. E
non ultimo, favorire il dialogo attraverso la conoscenza di un passato
che immancabilmente si rivela più comune di quanto non ci si immaginasse
prima di entrare nel vivo di quella storia. Perché Gerusalemme ha
quello straordinario talento di rimanere sempre la stessa malgrado i
cambiamenti che ha subito, malgrado gli innumerevoli passi che hanno
lisciato e lucidato le pietre del selciato, gli innumerevoli sguardi che
si sono levati verso il cielo azzurro, fra un muro di pietra e l’altro.
La Stampa 5.7.17
Tanta voglia di imperialismo
Mario
Liverani racconta gli esordi della politica di potenza in Assiria Il
suo saggio suggerisce il confronto col presente: dagli Usa al Califfato,
non si tratta più di dividere ma di unificare e imperare
di Domenico Quirico
È
arrivato il momento di riprender in mano la parola: imperialismo.
Eppure non sembran proprio tempi adatti: dopo tante conquiste e tanti
successi di ogni tipo, l’Occidente comincia a passare di moda. Merita
attenzione in quanto è braccato e con le spalle al muro, in quanto
affonda sempre più. Altro che imperialismo. Perfino l’ultimo impero
aggressivo e invincibile, quello per antonomasia, l’America, ridotta a
Trump, se perdura, se lancia ancora missili, è perché non ha la forza di
capitolare, si regge sull’automatismo del declino. Gli imperi sembrano
intaccati nella sostanza, marci alle radici. Perché più l’uomo acquista
potenza più diventa vulnerabile. Sotto l’azione delle appartenenze
(nazionali ma non solo) le Unità andavano in frantumi.
E invece torna
la voglia di imperi per regolare gli sconquassi inestricabili del
mondo, questa frenesia della fine di cui siamo tutti preda. La
tolleranza è sentita ormai come un sintomo di debolezza e di
dissoluzione, gli imperi rassicurano perché restaurano un passato
vissuto come età aurea, sono l’antidoto alla lebbra delle tribù, troppo
piccole per confortare paure immense. Vivere in un impero ci rende
decisi, ci offre una causa. Ci permette un quarto di nobiltà. Gli
imperi, è il loro segreto, non sono costruzioni politiche, sono una
condizione.
Una parola infangata
Certo: questa tendenza al dominio
con connesso sfruttamento è stata vittima dell’abuso che ne fecero, per
infangarla, Lenin e Rosa Luxemburg e, a ruota, i terzomondisti. Fu il
profeta dell’Ottobre a coniare una definizione perfino per
l’espansionismo rimessiticcio del duce, l’imperialismo dei pezzenti…
Morta quella stagione vulcanica di politici e profeti sovvertitori,
bravissimi a metter ogni cosa in subbuglio e repentaglio, e a divenire a
loro volta imperialisti di successo, circolavano formule più mellifue.
Finita insomma la fase guerresca e conquistatrice degli imperi, era
l’età, come dire, amministrativa, economica ovvero il governo pacifico e
regolare, ordinato e legale che chiamiamo mondializzazione.
Un
fecondo, scintillante libro, Assiria, la preistoria dell’imperialismo,
saggio di storia antica anzi antichissima di Mario Liverani pubblicato
da Laterza, apparentemente dedicato ai bellicosi e indolenti signori di
Nimrud e di Ninive, ci suggerisce interessanti contemporanee voragini: a
noi che folleggiamo su modernissimi precipizi.
Liverani individua il
cuore eterno, obbligatorio della voglia di imperi nella volontà di una
«missione imperiale», quella che un tempo si chiamava ideologia. E
questa ideocrazia, se si scende all’osso, è il progetto di conquistare
tutto il mondo, sulla base di una teoria politica o teleologica: la
diffusione della civiltà tra i barbari o la conversione al vero dio
ovviamente unico. Raggiungere la fine della Storia in fondo è l’utopia
di tutti i sistemi totalitari (le democrazie credono o dovrebbero
credere nel virtuoso continuo disfarsi e rifarsi).
Questo principio
cosmologico varia nel tempo e si nobilita volentieri dal lato spirituale
a quello economico (agli antichi tributi degli Assiri e dei Romani
subentrano i privilegi commerciali e finanziari degli imperi moderni e
modernissimi), ma è alla base di ogni impero. Come diceva uno dei più
grandi imperialisti di tutti i tempi, Cecil Rhodes (che sognava di
annettere anche la Luna all’impero britannico!), bisogna «combinare il
commercio con l’immaginazione, ovvero creare una immagine altruistica
dell’impero».
Il capolavoro inglese
Non si può dire che avesse
fallito questa propaganda se la maggior parte degli inglesi era convinta
che la guerra boera, pulizia etnica, Lager e massacri compresi, fosse
servita a aumentare il prestigio morale del Regno Unito! L’imperialismo
inglese: 20 milioni di elettori detenevano il destino di 450 milioni di
persone! Un capolavoro.
Le tentazioni comparative che il libro di
Liverani solleva sono moltiplicate da consonanze geografiche. Riappaiono
le parusie unificatrici, le idolatrie semplificatorie, il dispetto per i
confini. Nella Terra tra i due fiumi dove fiorirono le sofisticate
strategie assire (misto modernissimo di brutalità guerriera e di
comunicazione terroristica) oggi si estende il progetto di un impero in
culla, quello islamico. Gli avventurieri del jihad salafita lavorano e
uccidono per costruire il Califfato universale: distruggere i piccoli
Stati inventati dall’Occidente per dividere gli uomini della vera Fede,
un impero di uomini puri. Ecco la scorciatoia per risanare l’islam,
tradito dai nazionalismi panarabi, dai socialismi e dagli islamisti
tiepidi e pudibondi. Alcune strategie dei jihadisti, terribile a dirsi,
sembrano affondare indietro nel tempo degli Assiri: ad esempio lo
sgozzamento dei prigionieri, come espediente di guerra psicologica.
Sargon e Salmanassar facevano minuziosamente scolpire queste atrocità
sui bassorilievi, i boia di Abu Bakr le filmano, stessa necrofilia della
guerra. Identico lo scopo, diffondere il sentimento della impossibilità
di battersi contro di loro: «… ai superstiti che non avevano colpa né
peccato, imposi il pesante giogo della mia signoria...».
La scommessa di Putin
Spezzettati
in piccole nazioni fallite, i sunniti sognano dunque questo impero
teocratico, il più assoluto. Sul piano teologico replica l’Iran che
aspira (con la bomba atomica!) a una ricomposizione «imperiale» unitaria
dello spazio sciita, che assorba una parte dell’Iraq, la Siria e il
Libano degli Hezbollah. Un contro-impero nel Vicino Oriente. Non più
dunque il dividere e imperare degli antichi, ma semmai unificare e
imperare.
La scommessa politica di Putin, ad esempio, si basa
esplicitamente sulla ricostruzione di uno spazio imperiale ora defunto,
quello dell’Urss. La Crimea e il Donbass riconquistati: ma anche la
Siria, pedine iniziali della ricomposizione imperiale di uno spazio
«sovietico» andato in mille pezzi. Non a caso l’industria degli
armamenti e la sua modernizzazione è il settore economico in cui la
Russia ha più investito la rendita petrolifera. Strumento di potenza
certo, anche se guardando le cifre non è in grado di gareggiare con gli
Stati Uniti su un piano globale; ma soprattutto un modo per sedurre e
intimidire movimenti e Paesi impegnati in guerre civili o etniche.
E
gli Stati Uniti, potenza decadente? Il suo manifesto imperiale,
esplicito, restano le novanta pagine del Re-building America’s defenses,
settembre del Duemila prima dell’avvento di Bush alla Casa bianca.
Manifesto neoconservatore e passaggio appunto dal pragmatismo alla
ideologia, invita ad agire affinché la realtà venga uniformata alla idea
imperiale: l’egemonia americana deve durare il più a lungo possibile
per creare le condizioni di una pace americana. Globale.
La Stampa 5.7.17
“C’è un altro mondo oltre quello noto. Ecco come lo troveremo”
La scoperta del bosone di Higgs è una fine e un inizio Ora si apre l’era avventurosa della “Nuova Fisica”
di Gabriele Beccaria
Se
volete far chiacchierare un fisico teorico (e non fare brutte figure),
punzecchiatelo sul tema del momento, lo «scenario da incubo». Scoprirete
un mondo inatteso.
Dal 2012, da quando fu individuato il celebre
bosone di Higgs, la particella che dà la massa a ciò che conosciamo,
migliaia di studiosi sono rimasti a mani vuote. Nessuna nuova particella
è emersa e la tanto attesa «Nuova Fisica» non si è materializzata.
Tanti interrogativi restano aperti, da ciò che compone il nostro
Universo su scale cosmologiche a quale sia il contenuto del mondo su
scale più piccole di quelle indagate finora. Ecco perché l’incubo. Che
significa frustrazione e impazienza. Ma anche ostinazione, come emergerà
dalle tante «lectures» previste al mega-meeting di Venezia.
Antonio
Riotto, lei è professore di fisica teorica all’Università di Ginevra, ed
è uno di questi esploratori della vasta terra incognita: anche lei si
sente prigioniero dell’incubo?
«Mi sento ottimisticamente
preoccupato: noi fisici teorici abbiamo costruito varie estensioni del
Modello Standard basate su varie considerazioni logiche. E siamo
fiduciosi che siano corrette, per molte ragioni».
Come fate a essere così sicuri?
«Che
ci sia un’altra fisica oltre il Modello Standard è assodato, seppure in
maniera indiretta. Per esempio per il fatto che i neutrini abbiano un
massa diversa da zero oppure per la presenza della materia oscura, la
cui origine è ancora sconosciuta, o, ancora, per la presenza di barioni
rispetto agli antibarioni nell’Universo osservato. La questione è
ottenere delle evidenze dirette della fisica oltre il Modello Standard
e, questa, non si è ancora mostrata. Ma non è detta l’ultima parola».
Che cosa sperate che avvenga?
«Lhc,
l’acceleratore di particelle del Cern, sta funzionando e potremmo avere
fortuna, mentre ci sono molti esperimenti sulla materia oscura. Tutto
potrebbe cambiare da un momento all’altro: chi avrebbe detto, per
esempio, che avremmo scoperto le onde gravitazionali così presto?».
Che cosa manca al Modello Standard della fisica attuale?
«È
una costruzione stupenda, con l’Higgs che rappresenta l’ultimo
tassello. Ma è come una piramide rovesciata, con la punta rappresentata
dall’Higgs in basso, e quindi in una posizione instabile».
Incompleta per certe caratteristiche dello stesso Higgs: è così?
«L’Higgs,
in effetti, è molto particolare: mentre le altre particelle conosciute
hanno una massa non sensibile ai fenomeni quantistici che avvengono su
scale microscopiche (in gergo le chiamiamo “correzioni quantistiche”),
l’Higgs, non appena si accoppia ad altre più pesanti, tende ad
acquistare una massa più grande di quella che al momento misuriamo, vale
a dire 126 GeV. Noi chiamiamo questa questione “problema della
naturalezza”. Essenzialmente, la massa dell’Higgs tende ad essere
destabilizzata, se si accoppia a particelle più pesanti. Conclusione:
non è naturale il fatto che l’Higgs sia così leggero e questo è un
problema molto dibattuto nella nostra comunità».
Come si può spiegare altrimenti questa anomalia?
«Esistono varie soluzioni teoriche, tra cui la teoria della supersimmetria».
Supersimmetria che punta a dimostrare che cosa?
«Evita
proprio che l’Higgs tenda ad avere una massa più grande. In questa
teoria, infatti, si amplia lo spettro delle particelle. Per ciascuna del
Modello Standard ne esiste una corrispondente supersimmetrica: così,
per esempio, a ogni bosone corrisponde un fermione e a ogni particella
con spin intero una con spin semi-intero. Queste nuove particelle
supersimmetriche evitano che la massa dell’Higgs si destabilizzi. Ma,
visto che queste non si sono ancora materializzate, ecco che torna in
scena l’incubo: manca ancora l’evidenza sperimentale di un quadro
teorico così elegante e matematicamente convincente».
Adesso dove si indirizzano le speranze di una possibile evidenza di fisica oltre il Modello Standard?
«Le
speranze sono vive più che mai. Potrebbe manifestarsi con gli
esperimenti di Lhc anche se, per esempio, la natura potrebbe aver deciso
di far apparire la supersimmetria ad energie più elevate e che al
momento non sono a noi accessibili. Un’ulteriore possibilità è legata
alla materia oscura e ai tre modi per assegnarle una carta d’identità».
Quali sono?
«Il
modo diretto, nel caso questa interagisca con un rivelatore, e il modo
indiretto, rilevando i prodotti dell’annichilazione di due ipotetiche
particelle di materia oscura nello spazio. E infine tramite lo stesso
Lhc: la materia oscura potrebbe essere prodotta e lasciare una traccia
attraverso la cosiddetta “missing energy”, l’energia mancante rispetto a
quella iniziale delle particelle che collidono. Se questo dovesse
avvenire, si aprirebbero scenari incredibili».
Proviamo a evocarli.
«Avremmo
finalmente la Nuova Fisica. Per il cosmologo la materia oscura è un
fluido che fa evolvere l’Universo secondo certe dinamiche e che è
responsabile delle strutture che osserviamo, mentre la determinazione
della sua massa e delle sue caratteristiche, a seconda che possa essere
ultrapesante o leggera oppure ultraleggera, indicherebbe verso quali
estensioni del Modello Standard indirizzarci. E, dal momento che sono in
gioco particelle molto difficili da rilevare, proprio la cosmologia
potrebbe essere in grado di dare informazioni alternative rispetto a
quelle che verrebbero fornite da Lhc. L’Universo diventa quindi un
gigantesco Lhc e anche una macchina del tempo».
Che cosa ci rivelerà?
«Nel
cosmo sono avvenuti fenomeni ad altissime energie che non potranno mai
essere riprodotti in laboratorio sulla Terra e tuttavia questi fenomeni
possono avere lasciato una traccia rilevabile: pensiamo alle onde
gravitazionali prodotte dalla collisione di buchi neri. C’è, quindi, una
relazione sempre più stretta tra le ricerche della fisica delle
particelle e quelle della cosmologia. I problemi sono gli stessi e là
dove una fallisce l’altra può subentrare. È una competizione creativa
che ci riserverà molte sorprese».
La Stampa 5.7.17
I nostri passi nella Terra Incognita della materia oscura e dei neutrini
Gli
esperimenti dal Gran Sasso all’Antartide, passando per Chicago “Tanti
indizi ci svelano che non tutto finisce con il Modello Standard”
di Nicla Panciera
«La
cosa più incomprensibile dell’Universo - ha scritto Albert Einstein - è
che sia comprensibile». Prova ne sono le leggi fisiche che ci
permettono di prevederne il funzionamento. Oggi, abbiamo due solide
teorie - la meccanica quantistica e la Relatività generale - che sono
però incompatibili: là dove si incontrano generano divergenze
insormontabili e i modelli creati su di loro generano ulteriori
problemi. Risolverli, e costruire un’unica teoria capace di spiegare
l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, è l’obiettivo degli
scienziati che, armati di intuizione fisica e abilità matematica, si
dedicano a singoli pezzi del puzzle senza sapere ancora se l’incastro
perfetto avverrà limando le varie tessere o modificandone la forma.
La
conferenza della «European Physical Society» servirà a far incontrare
un migliaio di fisici teorici, particellari e cosmologi che, insieme,
proveranno a dare un senso ai nuovi risultati dei test in corso. Tra le
questioni irrisolte c’è la natura della materia oscura, la «dark
matter». Questa costituisce all’incirca il 25% della densità globale
dell’Universo, ma, nonostante le indicazioni cosmologiche che ne
attestano l’esistenza, «finora nessuno ha visto niente», ammette il
fisico Mauro Mezzetto, direttore della sezione dell’Infn di Padova che
ha organizzato il meeting e «chair» del congresso. Per rilevare il
misterioso elemento, che ha scarsissime interazioni con la materia
ordinaria, si prova di tutto. Dalle rilevazione dirette, le più
convincenti ma difficili, obiettivo dell’esperimento «Xenon» dell’Infn
al Gran Sasso, fino alla ricerca di segnali riconducibili alla sua
presenza, come nel test «Ams» sulla Stazione spaziale internazionale,
passando per l’utilizzo degli acceleratori di particelle, che consentono
interazioni ad alta energia.
Ma il tempo stringe, avverte Mezzetto:
«Incrementando di 10 volte la potenza degli strumenti, questi
arriveranno ad una sensibilità tale da non poter più distinguere la
rilevazione dei neutrini da quella della materia oscura. A quel punto ci
dovremo fermare, ripensare la tecnologia e forse anche la teoria
stessa». Un’altra grande sfida, d’altra parte, è costituita proprio dai
neutrini: l’esistenza di una massa, seppure piccolissima, provata con la
scoperta delle loro oscillazioni, contraddice il famoso Modello
Standard delle particelle. Tuttavia, di questi elusivi «mattoncini»
ancora non conosciamo alcune proprietà fondamentali, come il valore
della massa, la loro natura e numero. Scoprirle potrebbe aprire una
finestra sulla nuova fisica. E così oggi è diventato «frenetico» il loro
studio.
Ai neutrini i ricercatori dell’Infn stanno dando la caccia
nel cuore degli Appennini, sotto il Gran Sasso (con i test «Borexino»,
«Cuore» e «Gerda»), e nelle profondità del Mediterraneo (con «KM3NeT»),
ma gli studi avvengono anche altrove, come in Antartide (protagonista è
l’esperimento americano «IceCube»). Due tra i più avanzati esperimenti
del mondo vedono i fisici italiani in prima fila: uno è il «Tokai to
Kamioka - T2K», in corso in Giappone, con un enorme rilevatore di
neutrini, il Super-Kamiokande, che vuole capire meglio le differenze di
massa tra i tipi di neutrini. E poi il sofisticato «Icarus», ideato dal
Nobel Carlo Rubbia in allestimento al FermiLab di Chicago, che dovrà
dare la conferma dell’esistenza o meno del quarto tipo di neutrini,
quelli «sterili»: sono loro che potrebbero fornire il primo caso di
particelle non previste dal Modello Standard.
«Siamo in una fase di
fervente esplorazione e ci sono grandi aspettative per i risultati in
arrivo», annuncia Mezzetto. Proprio i neutrini potrebbero rivelarci
informazioni sugli eventi cosmici catastrofici da cui hanno avuto
origine, ma anche sulla nascita dell’Universo e sulla rottura della
simmetria tra materia e antimateria. «Potrebbero cambiare gli orizzonti
della fisica». E, forse, consegnarci una Teoria del Tutto. Ma, per ora,
hic sunt leones.
Corriere 5.7.17
Stephen Hawking:
«Piogge acide, temperature di 250° La Terra diventerà come Venere»
di Giovanni Caprara
«Siamo
vicini a un punto di non ritorno oltre il quale il riscaldamento
globale diventerà irreversibile. La scelta di Trump potrebbe spingere la
Terra oltre questa soglia e farla diventare come Venere, con
temperature oltre 250 gradi e piogge di acido solforico».
È Stephen
Hawking a tratteggiare la terribile prospettiva. Il grande astrofisico,
che ha spiegato gli enigmi dei buchi neri, punta il dito contro il
presidente americano e la sua decisione di ritirare gli Stati Uniti
dall’accordo di Parigi sul clima: «Il cambiamento climatico è uno dei
grandi pericoli da affrontare — ha detto in un’intervista alla Bbc per i
suoi 75 anni —, se vogliamo fermarlo dobbiamo farlo ora».
Venere è
il più caldo dei pianeti del sistema solare e a renderlo tale è un
effetto serra con nuvole opache e perenni di acido solforico che
impediscono la sua visione diretta. L’ambiente è infernale: il
termometro lì può salire anche a 450 gradi, mentre la pressione è quasi
cento volte più alta della nostra. Eppure è considerato per molti
aspetti un pianeta gemello della Terra, simile in origine per poi
degradarsi a causa delle emissioni di anidride carbonica.
Oggi Venere
è una sorta di laboratorio cosmico nel quale studiare un nostro
potenziale destino se la CO2 dovesse continuare a crescere oltre il
record delle 400 parti per milione già superato. Dal 1962 lo
scandagliano sonde russe, europee e americane. La russa Venera 9 è
arrivata al suolo e, sopravvissuta qualche secondo, ha trasmesso
l’immagine di un ambiente pietroso e rosso. Altre con i radar hanno
«fotografato» i 167 vulcani del pianeta, alcuni ritenuti ancora attivi e
responsabili dei numerosi fulmini registrati.
La sorte di Venere,
«stella mattino», è segnata. Ma Hawking è pessimista anche verso il
nostro «pianeta azzurro». «La Terra ha i giorni contati — dice — per il
comportamento degli uomini». E aggiunge: «La migliore speranza per la
sopravvivenza della specie umana può essere la costruzione di colonie
indipendenti nello spazio».
Repubblica 5.7.17
“Non c’è cosa più nemica della natura che l’arida geometria”, sosteneva il poeta
Ecco svelata la sua relazione controversa con i numeri
Leopardi bocciato all esame di matematica
di Piergiorgio Odifreddi
L’unico
aspetto degno di nota è l’adesione al sistema copernicano: non scontata
in casa sua Nello “Zibaldone” disseminò numerosi fraintendimenti sugli
aspetti scientifici
Come i nostri maturandi negli ultimi giorni,
anche il giovane Giacomo Leopardi veniva sottoposto a esami pubblici,
benché a scuola non ci andasse. A occuparsi dell’educazione sua e dei
suoi fratelli ci pensava infatti il loro padre, che era una specie di
alter ego di Leopold Mozart. Era lui a scegliere i precettori: preti,
visto che disdegnava le scuole pubbliche e laiche delle Marche, da poco
uscite dallo Stato della Chiesa. Era lui a redigere personalmente alcuni
dei loro libri di testo: ad esempio, l’”Aritmetica semplice e
complessa,
scritta da me medesimo Monaldo Leopardi nell’istruire mio
figlio Luigi”. Ed era lui a organizzare gli esami semestrali, da tenere
in latino, agli inizi e a metà dell’anno solare, di fronte a un pubblico
selezionato di parenti e amici della famiglia.
Ci sono rimasti i
testi degli scritti: in particolare quelli dell’8 febbraio 1810, quando
Giacomo aveva dodici anni. L’esame di matematica, unica prova sostenuta
in lingua italiana, consistette di 14 esercizi di aritmetica e 30 di
geometria, per nulla banali. Ad esempio, si chiedeva di dimostrare i
teoremi di Talete e di Pitagora, e il criterio di uguaglianza di due
triangoli aventi due lati e l’angolo compreso uguali: quest’ultimo,
ovviamente, con una dimostrazione fasulla, visto che oggi il criterio
viene considerato indimostrabile, e si assume semplicemente come
assioma.
Giacomo diede il suo ultimo esame il 20 luglio 1812, dopo di
che il suo precettore dichiarò che “non aveva più altro da
insegnargli”. Da quel momento egli proseguì gli studi per conto proprio,
attingendo alla fornita biblioteca di famiglia. L’anno dopo, a quindici
anni, scrisse una voluminosa Storia dell’astronomia, che viene spesso
citata con ammirazione per la sua erudizione, benché sia solo una
pedante e noiosa compilazione dei molti testi di seconda mano che il
ragazzo aveva consultato, dimostrando di leggere troppo per la sua età, e
male per le sue attitudini. L’unico aspetto degno di nota è l’adesione
del giovane al sistema copernicano: posizione allora ormai pacifica
fuori dello Stato della Chiesa, ma non scontata dentro casa Leopardi,
dove il conte rimaneva invece testardamente fermo a “Ptolomeo”.
In
realtà la biblioteca di Recanati conteneva, tra i suoi 20.000 volumi,
anche le opere di Galileo e Newton, oltre ad alcune collezioni di
articoli originali dei maggiori scienziati, e un’antologia delle voci
scientifiche dell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, ma nessuna di
queste fonti era abbordabile senza una preparazione specifica che né il
conte, né i precettori avevano potuto offrire al futuro poeta. E se la
sua insufficiente cultura scientifica e matematica gli bastò per alcune
delle Operette morali, dal “Dialogo della Terra e della Luna” (1824) al
“Copernico” (1827), fu però la causa di molti dei fraintendimenti che
egli disseminò nello Zibaldone, “precipitandosi dove gli angeli temono
di avventurarsi”.
Il primo di questi fraintendimenti è la supposta
contrapposizione tra matematica e poesia. Un Leopardi dai sottotoni
razzisti la fa addirittura risalire alla “immaginazione primitiva dei
settentrionali, fondata sul pensiero, sulle astrazioni, sulle scienze,
sulla cognizione delle cose, sui dati esatti”: tutte cose che avrebbero
appunto “piuttosto a che fare colla matematica sublime che con la
poesia”, evidente monopolio dei meridionali (276). L’osservazione è non
solo balzana, ma anche ignara del fatto che nell’India classica, ad
esempio, la matematica non solo era alla base della prosodia sanscrita,
ma veniva essa stessa espressa in forma poetica e metrica, rendendo
indistinguibili fra loro le due attività.
In ogni caso Ezra Pound,
che di queste cose se ne intendeva almeno quanto Leopardi, ha definito
nell’ABC del leggere (1934) la poesia come “linguaggio carico di
significato al massimo grado”. E, pur con tutto il rispetto per i versi
dei poeti, sarebbe difficile immaginare espressioni più dense di
significati delle formule dei matematici: ad esempio, la famosa E=mc²,
che in soli cinque simboli esprime quell’equivalenza tra energia e massa
che costituisce una delle maggiori scoperte della fisica del Novecento,
e nasconde il segreto dell’energia nucleare pacifica e bellica.
Un
secondo fraintendimento di Leopardi è la supposta contrapposizione fra
matematica e natura. Secondo lui, infatti, “le circoscrizioni, le
esattezze, le strettezze, le sottigliezze, le dialettiche, le
matematiche non sono in natura, e non devono entrare nella
considerazione dell’ordine naturale, perché la natura effettivamente non
le ha seguite” (582). E “dovunque ha luogo la perfezione matematica, ha
luogo una discordanza dalla natura e dall’ordine primitivo delle cose”
(583). Solo chi non ha mai aperto i libri di Galileo e di Newton che il
conte Leopardi teneva inutilmente in biblioteca, può rivelare una tale
ignoranza dei loro contenuti. Soprattutto se la ribadisce con
affermazioni quali “non c’è cosa più nemica della natura che l’arida
geometria: le toglie tutta la grazia, la forza e robustezza ed
efficacia” (48).
Eppure, la pagina più famosa di Galileo è forse
quella del Saggiatore (1623) che dice: “La filosofia naturale è scritta
in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli
occhi, io dico l’universo, ma non si può intendere se prima non
s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri nei quali è
scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son
triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è
impossibile a intenderne umanamente parola: senza questi è un aggirarsi
vanamente per un oscuro labirinto”.
A questo punto non stupisce che,
per esemplificare un suo terzo fraintendimento, sulla supposta
contrapposizione fra matematica ed eleganza, Leopardi guardi proprio a
Galileo: “La precisione moderna, che è estrema, e che oggi si ricerca
sopra tutte le qualità, è assolutamente di sua natura incompatibile con
l’eleganza. Bensì è compatibilissima con la purità, come si può vedere
in Galileo, che dovunque è preciso e matematico quivi non è mai
elegante, ma sempre purissimo” (2013).
In ogni caso Italo Calvino,
che conosceva Galileo almeno quanto Leopardi, ha dichiarato nel 1967 che
“il più grande scrittore italiano” era proprio lui: Galileo, cioè, non
Leopardi! Anche se, vista la citazione precedente, forse si sbagliava
quando credette di aver individuato una linea di forza nella letteratura
italiana che, partendo dall’Ariosto e passando per Galileo, arrivava
appunto a Leopardi. E, aggiungeremmo noi oggi, approdava a Calvino
stesso.
Un ultimo fraintendimento di Leopardi riguarda la supposta
contrapposizione fra matematica e piacere, perché “la matematica misura
quando il piacer nostro non vuol misura, definisce e circoscrive quando
il piacer nostro non vuol confini, analizza quando il piacer nostro non
vuole analisi: la matematica, dico, dev’essere necessariamente l’opposto
del piacere” (247). La stessa cosa avrebbe potuto dire della musica, se
gli fosse stata insegnata male come gli fu insegnata matematica: cioè,
nella maniera arida, pedante e accademica che troppo spesso ancor oggi
caratterizza i conservatori e le scuole, e che fa degli italiani,
settentrionali e meridionali che siano, un popolo di analfabeti musicali
e matematici.
Che dire infine dell’infinito, al quale il poeta
dedicò la sua poesia più famosa? Paradossalmente, per Leopardi è
“un’illusione naturale della fantasia” (4292), “un parto della nostra
immaginazione, della nostra piccolezza e della nostra superbia” (4177),
“un’idea, un sogno, non una realtà”. Addirittura, “solamente quello che
non esiste, la negazione dell’essere, il niente, può essere senza
limiti, e l’infinito viene in sostanza a esser lo stesso che il nulla”
(4178).
Questi non erano fraintendimenti, però, perché dall’antichità
all’Ottocento anche i matematici hanno pensato che l’infinito non
esistesse. Ma oggi sono anacronismi, perché dalla fine dell’Ottocento
viviamo nel “paradiso dell’infinito che Georg Cantor ha creato per noi”.
È un paradiso costituito di interminati spazi e sovrumane quantità, ma
in esso il cuore del matematico non si spaura. Anzi, in questa infinità
si annega il suo pensiero, e il naufragar gli è dolce in questo mare.