il manifesto 4.7.17
Einstein e Croce due lettere del 1944
Divano. La rubrica settimanale a cura di Alberto
Olivetti
Pubblicato 29.6.2017, 23:58 Da Princeton, il 7
giugno del 1944, Albert Einstein scrive a Benedetto Croce. Una lettera a
conforto dell’attivo impegno politico del filosofo nell’Italia
‘tagliata in due’. Einstein richiama Platone, “il suo sogno di un
governo retto da filosofi” e la sua idea “del circolo delle forme di
governo”. Ma constata che la filosofia e la ragione, “per un tempo
prevedibile”, sono ben lontane dal guidare gli uomini. Esse restano “il
più bel rifugio degli spiriti eletti”, una società dove trovano alimento
“i vincoli fra viventi e morti”, dove i pensieri elaborati nel corso
dei secoli “non perdono mai la loro attrattiva, la loro fecondità e la
personale loro magia”. E conclude: “chi realmente appartiene a quella
aristocrazia, potrà bensì dagli altri uomini essere messo a morte, ma
non offeso”. La lettera raggiunge Croce a Sorrento il 25 luglio: “ho
ricevuto per via diplomatica una lettera dell’Einstein, che avevo
conosciuto personalmente a Berlino nel 1931: l’amico che me l’ha
portata, mi ha chiesto di lasciargliela pubblicare. Ma io ho detto che
ci avrei pensato sopra e che, in ogni modo, essendo molto benevola verso
di me, non l’avrei potuta pubblicare se non accompagnata da una
risposta”. Risposta che redige nel pomeriggio del 28 luglio. Pare a me
molto significativa la pagina stesa, quello stesso giorno, nel diario,
dove leggo: “ripensavo stamane al cosiddetto idealismo attuale,
formulato e predicato dal Gentile, e che ebbe fortuna con la fortuna
scolastica e poi politica di lui”. È questa l’unica volta in cui Croce
fa ragionata e ampia menzione di Giovanni Gentile nei taccuini degli
anni 1943-1945. E lo spunto, per dir così, a me pare vada trovato
proprio nelle parole che chiudono la lettera di Einstein. Appartiene o
no Gentile a quella ‘aristocrazia’? Dunque, ‘messo a morte’ sì, ma ‘non
offeso’, se l’opera sua resterà un retaggio per ‘gli spiriti eletti’? La
notizia di Gentile “ammazzato in Firenze” (il 15 aprile) fu appresa da
Croce – e registrata nel diario – due giorni dopo, il 17: “ruppi la mia
relazione con lui per il suo passaggio al fascismo, aggravato dalla
contaminazione che egli fece della filosofia con questo”. Contaminare la
filosofia. Croce richiama le sue obiezioni all’attualismo, che aveva
motivate fin dal 1913, in un saggio apparso su “La Voce”. Ma, ora,
precisa “il diretto rapporto che quel filosofare aveva con
l’abbassamento della vita morale, con una sorta di ottusità morale, con
la malattia che sotto varie forme è le mal du siècle, del secolo
nostro”. Così nel diario. Nella risposta ad Einstein, Croce si dichiara
convinto che la filosofia ha da essere “severa”, ovvero deve ben
conoscere lo spazio suo proprio entro il quale operare per rapporto alla
dimensione politica: “è un’azione mentale, che apre la via, ma non si
arroga di sostituirsi all’azione pratica e morale, che può soltanto
sollecitare”. Croce sottolinea le “nobili parole” che Einstein rivolge a
quanti hanno lasciato “opere di pensiero e di poesia” e, a sua volta,
dice che in esse si rasserena e si ritempra. Un bagno spirituale (“quasi
la mia pratica religiosa”) che non lo esenta dagli “umili e spesso
ingrati doveri” che impongono al filosofo – come a Socrate oplita alla
battaglia di Potidea – di partecipare “alla quotidiana, e più aspra e
più complessa guerra, che è la politica”. Nel taccuino leggiamo che
Gentile “per la sua mancanza di senso della vita concreta, per intimo
disinteresse verso le sue forme necessarie” si è adeguato “ai sentimenti
e giudizi volgari o magari alla più disonesta vita politica e morale
che abbia bruttato l’Italia e il mondo”. Nella lettera ad Einstein,
Croce mostra d’esser consapevole che il compiuto della ricerca in
filosofia è provvisorio sempre e, in ogni caso, non consegna
applicazioni alla politica, ma, eventualmente, ‘sollecitazioni’. Esse
aspettano d’essere, appunto, declinate secondo le forme della politica.
“Perciò mi sento oggi, scrive ad Einstein, conforme ai miei
convincimenti ai miei ideali, impegnato nella politica del mio paese; e
vorrei, ahimè, possedere per essa a dovizia le forze che le sono più
strettamente necessarie, ma tuttavia le do quelle, quali che siano, che
mi riesce di raccogliere in me, sia pure con qualche stento”.