domenica 9 luglio 2017

SULLA STAMPA DI DOMENICA 9 LUGLIO


La Stampa Tutto Libri 2057
Pericle campione della democrazia ma anche spietato imperialista
Lo storico esplora la figura di un eroe ambiguo avvolto dalla leggenda e ne ricostruisce la fama postuma: dal critico Montaigne all’ammirato Hitler
di Giorgio Ieranò

Chi era Pericle? Ovvio, si dirà: era l’artefice dello splendore di Atene nell’età classica, quando a teatro andavano in scena i drammi di Sofocle e sull’Acropoli si costruiva il Partenone. Ed era il simbolo della democrazia, il campione di quel «governo del popolo» che, sotto la sua guida illuminata, si realizzò come non mai nella storia umana. Anche in anni recenti, l’Epitafio di Pericle, cioè il discorso per i caduti nella guerra contro Sparta che lo storico Tucidide fa pronunciare allo statista ateniese nel 430 a. C., è stato spesso citato e recitato come un inno ai valori democratici. Nessuno però recita l’altro discorso di Pericle che compare nell’opera tucididea. Un discorso cinicamente imperialista, dove si ricorda agli ateniesi che il loro dominio sulle città e sulle isole dell’Egeo «è come una tirannide: esercitarla può essere ingiusto ma abbandonarla ci espone al pericolo». E, spesso, si sorvola anche sul bilancio che Tucidide fa del governo pericleo: «Una democrazia solo a parole, ma nei fatti il governo del primo cittadino». 
Artefice dello splendore di Atene nell’età classica, quando sull’Acropoli si erigeva il Partenone 
Pericle, insomma, è figura ambigua. Ci appare come un fautore della democrazia ma anche come un leader carismatico e autoritario. Un uomo schierato con il popolo ma anche un aristocratico sdegnoso. Un illuminato promotore delle arti ma anche un imperialista spietato che reprime nel sangue ogni tentativo degli alleati di liberarsi dal dominio di Atene. Un politico che gode di un consenso straordinario ma che già ai suoi tempi è oggetto di attacchi ferocissimi. Prima i poeti comici e poi Platone lo accusarono di essere un guerrafondaio e un demagogo, corrotto e corruttore del popolo. Si puntava il dito anche contro il «cerchio magico» dei suoi amici: a partire da Fidia, l’artefice del Partenone, finito in galera con l’accusa di essersi intascato i soldi stanziati per la costruzione del tempio. Lo si dipingeva persino come un malato di sesso, che al povero Fidia chiedeva pure di organizzargli incontri segreti con signore della buona società ateniese. Raccontare Pericle è dunque difficile. Anche lo storico francese Vincent Azoulay, nella sua nuova biografia, non può che muoversi sul crinale di queste ambiguità. Pericle, dice Azoulay, non va né idealizzato né demonizzato. Bisogna piuttosto leggere la sua figura sullo sfondo del gioco complesso che, nell’Atene democratica, intercorre tra il carisma del leader e il potere delle masse. Pericle è un aristocratico che deve sfruttare, ma al tempo stesso mascherare, i privilegi che gli derivano dalla nascita e dalla ricchezza, cercando un rapporto con il popolo, dal cui favore, comunque, deriva il suo potere.
Il suo profilo umano sfugge: secondo Plutarco pianse una sola volta, quando morì il figlio Paralo 
Della vita di Pericle, del resto, le cose che sappiamo con certezza sono poche. Il suo profilo umano ci sfugge. Sappiamo della prima moglie, che le fonti neppure nominano, con la quale concorda un divorzio, perché, scrive Plutarco, «la convivenza non riusciva gradevole a nessuno dei due». Sappiamo della morte del figlio Paralo: l’unica volta in cui, racconta sempre Plutarco, Pericle fu visto piangere. E poi ci fu l’amore per Aspasia, donna libera e, per di più, straniera: un doppio scandalo agli occhi dell’ateniese medio. Ma, a parte quanto Tucidide racconta sui suoi ultimi anni, fino alla morte (429 a. C.) nell’epidemia di peste che colpì Atene, il resto è spesso leggenda. Per capire davvero Pericle, dunque, bisogna innanzitutto capire come si siano formate certe leggende e certe tradizioni. E’ questo il lavoro che fa Azoulay. E forse la parte più interessante del suo libro è la seconda, dove si ricostruisce la fama postuma di Pericle. Azoulay dimostra che, fino al Settecento, il mito di Pericle non esisteva: di lui si parlava poco e, in genere, male. Per Montaigne, era solo un demagogo chiacchierone: nella severa e ben governata Sparta, scriveva, «lo avrebbero fatto fustigare». Per Mably, era «un tiranno che blandiva la massa per imporsi sui suoi rivali». Solo a partire dall’Ottocento, con l’idealizzazione della democrazia ateniese, nasce il mito di Pericle. Il quale, comunque, avrà tra i suoi ammiratori anche Adolf Hitler: nella Germania nazista, i paragoni tra lo stratego ateniese e il Führer si sprecavano. A riprova del fatto che, come già sapeva Tucidide, identificare Pericle con la democrazia non è poi così ovvio.

La Stampa  Tutto Libri 2057
Il nazismo non ha passato? Prendiamoci quello di Sparta
Così il Terzo Reich venerò (e falsificò) l’antichità classica per teorizzare la millenaria unità razziale di greci, romani, tedeschi
Massimiliano Panarari

Titolo: Il nazismo e l’Antichità
Editore: Einaudi
Autore: Johann  Chapoutot

La fabbricazione del mostro fu accompagnata da un fittissimo dibattito. Un lavoro che vide saldarsi la febbrile attività di tutto un arcipelago intellettuale e la ricerca di pilastri ideologici da parte del nazismo, e che iscrisse nel dna sottoculturale del Terzo Reich un’autentica adorazione per la classicità. Un’antichità greco-romana naturalmente immaginaria, reinventata all’insegna di una delle varie operazioni di falsificazione della storia compiute dal brodo di coltura e dalle uova del serpente da cui scaturì il nazionalsocialismo, e che venne istituzionalizzata in maniera massiccia dall’hitlerismo perché la relazione con il passato, il luogo temporale e simbolico delle «sacre» origini, risulta fondativa (come mostrano, per esempio, le politiche artistiche, totalmente impermeabili, a differenza di quelle dello stesso fascismo, rispetto a qualunque espressione della modernità). Il retaggio del sangue, difatti, insieme al differenzialismo biologista, doveva servire a smantellare i messaggi e il progetto dell’Illuminismo. L’eredità aveva la funzione di contrastare le «pretese» della libertà e di forgiare l’uomo nuovo del regime, perseguito per via fisiologica attraverso l’eugenismo e il biologismo (e la «zootecnia di Stato»). Da cui l’invenzione della tradizione del nordicismo, nella quale vennero inserite in maniera coatta anche la Grecia e Roma, all’insegna della «favola bella» (implementata nel film horror dello sterminio del «diverso») di un indogermanesimo ariano che si era propagato per il globo, partorendo anche le civiltà della classicità. Partendo non dall’India, bensì dalle terre della Germania del nord: ex septentrione lux, come sosteneva ossessivamente, rovesciando il paradigma hegeliano della civiltà che da Oriente si dirigeva a Occidente, il potentissimo ideologo del Terzo Reich Alfred Rosenberg, e come proclamava la dottrina nordicista di Hans Günther, il razziologo ufficiale della Nsdap (il partito nazionalsocialista dei lavoratori). 
Il Führer disprezzava i germani li considerava troppo primitivi a confronto di Atene o Roma 
Ne Il nazismo e l’Antichità, il giovane e rinomato storico della Sorbona Johann Chapoutot (membro dell’Institut universitaire de France e commentatore del quotidiano Libération) prosegue il suo lavoro di ricostruzione del gigantesco edificio ideologico che ha sorretto il nazismo. In questo volume lo fa dall’angolazione di un funzionale immaginario classicista al quale contribuirono teorie immonde, dottrine strampalate (come quella, ricolma di occultismo, su Atlantide, peraltro presto emarginata) e una cieca e sanguinaria volontà di potenza, e in cui si giocava l’opportunismo delle carriere di gerarchi in competizione tra loro provenienti da una galassia di organizzazioni (come la Società Thule e le altre sette del nazismo magico). Una vasta opera di genealogia quella compiuta dallo studioso, che restituisce un quadro estremamente articolato, dal momento che tutte le discipline della «governamentalità biopolitica» – dalla «scienza delle razze» a quella preistorica, dall’antropologia alla propaganda, dalla pedagogia all’estetica, dalla geopolitica alla «scienza giuridica» – vennero messe al servizio del radicamento nel popolo nazificato dello stereotipo di un antico Mediterraneo nordico. Sebbene con ragguardevoli divergenze di vedute nelle alte sfere: come nel caso del conflitto che contrappose il Führer, pieno di disprezzo nei confronti dei germani considerati troppo primitivi a confronto dei venerati greco-romani (nelle cui lande mediterranee, come «spiegava» la teoria dei climi, il «genio nordico» aveva trovato condizioni meteorologiche più favorevoli per essere rigoglioso), e il germanomane Heinrich Himmler, a cui rispondevano gli archeologi-Ss (resi popolari dagli scontri cinematografici con Indiana Jones) dell’Anhenerbe, la «società di ricerca dell’eredità ancestrale» (fortemente influenzata dall’esoterismo), sguinzagliata ai quattro angoli d’Europa a caccia delle supposte tracce primigenie della razza ariana. E negli anni Trenta e Quaranta, mentre il filo-elleno Heidegger si dedicava al ripristino dell’originario «pensiero dell’essere» presocratico, i circoli accademici si applicavano alla narrazione di un «Platone nordico», teorico di uno Stato razzista totalitario e di una comunità organicista, una sorta di «filosofo-re» precursore di Hitler, l’autentico «pensatore ufficiale» (perfino più di Nietzsche, come scrive Chapoutot) di quel Terzo Reich che coincideva con la «seconda Sparta».
Un progetto totalitario che si appropria di arti plastiche battaglie, eroi leggendari 
Un repertorio sterminato quello del «discorso delle origini», che andava dall’architettura imperiale all’imperialismo come riedizione della colonizzazione romana, fino al nichilismo della catastrofe pensato come grande spettacolo e ultima coreografia che, di fronte all’offensiva del «giudeo-bolscevismo» e del «Cristo-bolscevismo», doveva spronare all’odio razziale e a una possibile futura vendetta contro ebrei e nazioni liberali. Continuando, così, sino all’atto finale il parallelo tra Roma e il Reich. 

Corriere La Lettura 9.7.17
Basta con i sogni della metafisica Quando Kant si congedò da Platone
di Donatella De Cesare

In filosofia non esistono momenti che segnino decisamente un prima e un poi, non ci sono, come, ad esempio, nella scienza, punti di non ritorno. Tutto viene sempre rimesso in discussione. Altrimenti non leggeremmo oggi i testi di Platone. Questo non vuol dire che, nella storia del pensiero, non si siano delineate vere e proprie svolte. Tra queste si staglia, per la sua luminosità e la sua imponenza, la rivoluzione copernicana di Immanuel Kant.
Ad essere rovesciata è la prospettiva della conoscenza umana. Ma non solo. È stato lo stesso Kant a richiamarsi esplicitamente a Copernico nella prefazione della sua più celebre opera La critica della ragion pura , pubblicata nel 1781. Non è l’intera volta stellare a ruotare intorno all’osservatore; piuttosto, nella nuova visione di Copernico, è l’osservatore che ruota intorno alle stelle. Così come è la Terra che ruota intorno al Sole. Un analogo mutamento va introdotto, secondo Kant, anche nella filosofia. Non è il mondo a ruotare intorno all’uomo che lo contempla immobile per scoprirne il segreto ordinamento. Al contrario è l’uomo che, con il suo moto ordinatore, forma il mondo.
Il soggetto acquista, con la rivoluzione copernicana di Kant, un’importanza che non aveva mai avuto prima. Apparentemente decentrato, è tuttavia il soggetto ad avere un ruolo attivo, a muoversi intorno al mondo degli oggetti, per conoscerli, formarli o — come direbbe Kant — «schematizzarli». Le nostre facoltà, il senso e l’intelletto, non sono neutrali, procedono per schemi, lasciano cioè un’impronta sugli oggetti. È vano illudersi ancora: l’ordine del mondo intorno a cui ruotiamo è per noi inaccessibile, così come non arriveremo mai a conoscere l’oggetto «in sé», nella sua essenza intima.
Kant si dissocia da una lunga tradizione che, già partire da Platone, aveva considerato compito della filosofia portare alla luce l’in-sé degli oggetti, la loro idea, la loro forma precipua. Nulla impedisce che questa essenza degli oggetti esista — ammette Kant. Ma quel che degli oggetti noi conosciamo è il modo in cui si manifestano, in cui sono non in sé, bensì per noi. Noi conosciamo solo i fenomeni, mai gli oggetti in se stessi. Non siamo infatti passivi e organizziamo attivamente tutto quello che andiamo conoscendo secondo le forme del nostro percepire e del nostro intendere. La realtà è già sempre articolata dalle nostre condizione soggettive, dai nostri schemi spazio-temporali. In un certo senso è come se, quando conosciamo la realtà, la spingessimo a parlare la nostra lingua.
Impostori e dogmatici, lestofanti e visionari, architetti di mondi campati in aria, sono per Kant tutti coloro che contrabbandano la propria conoscenza dei fenomeni per la vera essenza della realtà. Basta, dunque, con i sogni della metafisica, che pretendeva di svelare l’ordine universale! Dopo Kant il soggetto rinuncia a una conoscenza che superi le sue possibilità per organizzare il proprio mondo secondo autonome norme etiche e politiche che possono aspirare a un’umana universalità.

Corriere La Lettura 9.7.17
Il giovane Marx anticipò Fukuyama
di Antonio Carioti

Può sembrare la prosa di un liberale, fautore strenuo della proprietà privata: «Il comunismo — scrive Fabio Vander — non è stato totalitario per caso. Semmai pour cause. E cause necessaria». Ma il suo denso saggio Critica e sistema sul pensiero del giovane Karl Marx è pubblicato da Manifestolibri (pp. 365, e 28), casa editrice legata al noto «quotidiano comunista». E l’autore nei suoi interventi politici auspica il recupero della tradizione del movimento operaio, a suo avviso gettata a mare dal Pd già prima dell’avvento di Matteo Renzi.
Il fatto è che Vander, con lodevole onestà intellettuale, mette il dito nella piaga di uno scarto vistoso riscontrabile nella filosofia di Marx tra dialettica e ontologia, ovvero tra le categorie di «rivoluzione» e di «comunismo». Già, perché la negazione del capitalismo, cioè la rivoluzione, è un «fatto storico-politico» per eccellenza, mentre il comunismo è «alterità assoluta» rispetto alle società del passato, «tale da rompere ogni legame con la storia». Altro che Fukuyama: Marx, sostiene Vander, indica una prospettiva ben più radicale quanto a «fine della storia». Nel filosofo di Treviri «non c’è una dottrina politica del comunismo perché il comunismo non conosce politica». Anzi si tratta di un tempo in cui non ci saranno più problemi da risolvere, quindi «aproblematico, oltre che astorico e apolitico».
Viene da aggiungere però che una condizione del genere è immaginabile solo con l’estinzione dell’imperfetto genere umano, che problemi invece ne pone di continuo. E a questo punto si va ben oltre la critica liberale alle potenzialità totalitarie del pensiero di Marx. Qui si fornisce un’involontaria conferma alla tesi del matematico russo Igor Šafarevicčč, cristiano tradizionalista scomparso di recente, che vedeva nel socialismo l’espressione dell’«istinto di morte». Forse è un po’ troppo.

Corriere 9.7.17
La legge sulla tortura e i vincoli da rispettare
di Valerio Onida

Caro Direttore,è stata definitivamente approvata la legge che introduce nel codice penale il delitto di tortura. Si tratta di un provvedimento che lo Stato italiano era tenuto ad adottare fin da quando, nel lontano 1988, fu data esecuzione in Italia alla Convenzione di New York del 10 dicembre 1984, entrata in vigore nel 1987. Siamo in ritardo di quasi trenta anni!
Infatti da tempo la Corte europea dei diritti dell’uomo ha «messo in mora» l’Italia su questo tema. Nella sentenza Cestaro contro Italia del 7 aprile 2015, relativa ai noti fatti della scuola Diaz di Genova all’epoca del G8 del luglio 2001, la Corte aveva espressamente dichiarato che «è la legislazione penale italiana applicata al caso di specie a rivelarsi inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e al tempo stesso priva dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili». E lo scorso 22 giugno, in un’altra pronuncia relativa agli stessi fatti (Bartesaghi Gallo e altri contro Italia), la Corte, confermando il suo giudizio, aveva ribadito «l’insufficienza dell’ordinamento giuridico italiano quanto alla repressione della tortura».
Dunque, una legge assolutamente necessaria. Come si spiega allora che si sia discusso per tanto tempo, e che addirittura, in Senato, proprio uno dei primissimi firmatari della relativa proposta di legge nella presente legislatura, Luigi Manconi, abbia dovuto annunciare che non votava, non condividendolo, il testo così come portato all’esame dell’assemblea? Il punto chiave è nella definizione delle condotte che integrano il delitto di tortura. La definizione della tortura è espressamente e precisamente dettata dalla convenzione internazionale che l’Italia ha sottoscritto: «Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito»: esclusi naturalmente il dolore o le sofferenze «derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate». Dunque si tratta di un tipico «delitto di Stato».
La legge avrebbe dovuto semplicemente riprodurre la definizione della Convenzione, o comunque rifarsi integralmente ad essa, per darvi piena e fedele attuazione. Invece in Parlamento si sono elaborati e votati dei testi che hanno preteso di dare una diversa definizione. L’ultimo testo suona così: «Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Si noterà, anzitutto, che mentre la Convenzione si riferisce unicamente ad atti compiuti da un pubblico ufficiale o per sua istigazione o con il suo consenso, la legge si riferisce a «chiunque», quindi configura un delitto comune, sia pure poi prevedendo una aggravante e quindi una pena maggiore se i fatti sono commessi «da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio».
Perché questa diversa definizione? Non vale addurre che anche soggetti non investiti di funzioni pubbliche, come gli appartenenti a gruppi di criminalità comune o mafiosa o terroristica, possono ricorrere per i loro scopi criminali alla tortura nei confronti delle persone loro prigioniere. Infatti non mancherebbe comunque il modo di punire adeguatamente tali violenze commesse da privati, mentre le condotte «tipiche» da prevenire e da punire sono quelle dei pubblici funzionari che legalmente hanno il controllo fisico di una persona. Ma fin qui, si potrebbe dire, poco male: si è estesa la portata della definizione del delitto al di là dell’ambito internazionalmente definito. (anche se non è detto che questo non provochi delle conseguenze).
Tuttavia la legge in discussione va al di là: ritiene che vi sia un’ipotesi di tortura solo se «il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Perché «più condotte» e non ne basta una? Secondo la Convenzione, è tortura «qualsiasi atto» intenzionale con quei caratteri, ed è logico che sia così. Si potrà forse obiettare che comunque, secondo la legge, anche un singolo atto, se comporta «un trattamento inumano e degradante», sarebbe punito. Ma che cosa conduce a discriminare una singola condotta che cagioni «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico» senza però comportare un «trattamento inumano e degradante»? E ancora, che vuol dire che il trauma psichico deve essere «verificabile»? Un atto che cagioni «acute sofferenze psichiche» non è tortura se il trauma psichico non è «verificabile»? Il Parlamento non era libero di definire restrittivamente i confini del delitto: era vincolato dalla Convenzione internazionale, dato che la Costituzione (art. 117) obbliga il legislatore ordinario a conformarsi alle norme internazionali. Onde, una legge non conforme alla convenzione potrebbe e dovrebbe domani, nel caso in cui venga in applicazione, essere portata all’esame della Corte costituzionale e da questa censurata. Non a caso il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, aveva indirizzato una lettera agli esponenti del Parlamento italiano esprimendo la preoccupazione che proprio queste caratteristiche della legge possano dare luogo a potenziali «scappatoie» di impunità.
Si è temuto forse di far apparire una «volontà punitiva» nei confronti delle forze dell’ordine? Ma chi può pensare che si esprima una «volontà punitiva» ingiustificata allorché si definiscono, in conformità alle norme internazionali, condotte illecite che non devono e non possono in nessun caso e sotto nessun pretesto essere proprie delle forze dell’ordine di uno Stato democratico? Piuttosto, suona offensivo per i nostri poliziotti e i nostri carabinieri pensare a nascondere o a mascherare o a minimizzare condotte inequivocabilmente contrarie, prima ancora che ai diritti umani, al loro statuto fondamentale di agenti e protettori della legalità .

il manifesto 9.7.17
Una visione del mondo chiusa nel recinto di «casa»
di Tomaso Montanari

Nella sua cruda parafrasi della slide di Renzi sui migranti da «aiutare a casa loro», Roberto Saviano ha detto una terribile verità: il Pd non solo guarda a destra, e fa politiche di destra. Ma parla con un linguaggio di destra: peggio, è parlato da una cultura di destra.
E d’altra parte: considerare i lavoratori alla stregua di merce (Jobs act), la scuola come un’azienda (Buona Scuola), la cementificazione come l’unico sviluppo possibile (lo Sblocca Italia), il patrimonio culturale come un supermercato (riforme Franceschini), scrivere una riforma costituzionale che intendeva diminuire gli spazi di democrazia e partecipazione, approvare una legge sulla tortura concepita per non punire la tortura di Stato. Cos’è, tutto questo, se non l’attuazione concreta di una cultura di destra?
Ma qua c’è di più.
«Aiutarli a casa loro» non solo è orrendamente ipocrita sul piano dei fatti – perché facciamo tutto il contrario: dal mercato italiano delle armi di cui parla Saviano (aiutamoli a spararsi a casa loro) fino alla dolosa incapacità di invertire la marcia di una politica energetica che produce riscaldamento globale, e dunque la desertificazione che contribuisce ad innescare la migrazione di massa.
Ma quello slogan è soprattutto devastante sul piano simbolico e culturale. Perché contraddice radicalmente il principio stesso dello ius soli (una legge di sinistra che non a caso arranca alla fine della legislatura, mentre tutte le riforme di destra che ho elencato sono andate speditissime alla meta) contrapponendo «casa» a «casa».
«Questa è casa nostra», intende dire Matteo Renzi: e «padroni in casa nostra» è uno degli slogan più diffusi non solo nel vocabolario della Lega di Salvini (come si è ampiamente notato in queste ore), ma anche in quello delle peggiori destre xenofobe dell’est europeo. E se dobbiamo aiutarli a «casa loro» è perché ci rimangano; e perché questa «casa» rimanga nostra: senza confusioni, incontri, meticciato. Ognuno a casa propria.
Qua non si tratta di politiche: si tratta di visione del mondo, di concezione del futuro. O meglio di una non-visione del mondo, di una non-concezione del futuro: della scelta disperata di chiudere rabbiosamente gli occhi di fronte a una realtà ineludibile che non si riesce ad accettare. Perché non ci sono, né ci potranno mai più essere, «case» recintate, nostre, esclusive.
E invece quel «noi» opposto a quel «loro» è la chiave del discorso con cui Renzi parla alla pancia del Paese usando la lingua e la cultura di Salvini.
Ora, come si fa a trovare un terreno comune con questo modo di pensare, con questa mentalità, vorrei dire con questa antropologia? In queste condizioni come si fa a continuare a parlare di «centrosinistra»?
Se le parole hanno un senso, oggi in Italia l’unico «centro» con cui comporre un «centrosinistra» è questo Pd che ha rieletto trionfalmente Renzi, il quale è portatore della cultura che abbiamo appena descritto. Una cultura di destra.
Il fatto che il Pd faccia politiche di destra e sia intriso di una cultura di destra non basta per dire, come invece ho detto aprendo l’assemblea del Brancaccio, che il Pd sia da considerare un partito di destra? Può darsi: ma certo non è nemmeno più un «centro» con cui poter costruire un centrosinistra che non sia solo una macchina per il potere, una scala per raggiungere il governo inteso come fine ultimo. Se ce ne fosse stato ancora bisogno, la slide sull’«aiutiamoli a casa loro» dimostra che in questo tempo la casa politica del Pd non può essere la stessa di una sinistra, comunque la si voglia intendere.
C’è una via alternativa: più lunga, più erta e certo non capace di portare subito al governo. È quella che si potrebbe imboccare se ciò che esiste a sinistra del Pd sarà capace di unirsi, e di parlare un linguaggio tanto diverso e credibile da coinvolgere molti di coloro che non votano più. E che non votano perché pensano che una sinistra che pur di tornare al governo è disposta ad allearsi con chi pensa e parla come Salvini non potrà mai costruire eguaglianza e inclusione.

La Stampa 9.7.17
Sui migranti il popolo del Pd si divide
“Sono troppi”, “No, Matteo sbaglia”
Dopo l’uscita del segretario, Orlando attacca: aiutarli a casa loro è slogan di destra
di Andrea Carugati

Se l’obiettivo era scatenare un dibattito, si può dire che Matteo Renzi l’abbia colto. Sui profili social vicini al leader Pd le frasi sugli immigrati da aiutare «a casa loro» continuano a scatenare commenti. Per lo più critici, al netto di troll e insulti che seguono sempre ogni dichiarazione di un leader politico.
Dalla pancia del partito arriva principalmente la contestazione sull’«assist» offerto alla Lega. «Gli elettori scelgono sempre l’originale, se lei comincia a usare i loro slogan ha già perso», scrive Filippo Passerini sul Facebook di Renzi. «Un autogol gravissimo», gli fa eco Antonio Gambina su twitter. «Certe idee non le si baratta». «Non hai ancora idea di quanti voti hai perduto», attacca Paolo Castaldi. C’è anche chi utilizza l’ironia: «La prossima volta usa anche la parola ruspe». I militanti affezionati al segretario lo rimproverano per la modalità di comunicazione. Per aver sintetizzato un pensiero complesso con uno slogan sbagliato. «Il post uscito sulla pagina del Pd riduce troppo il discorso, condivido le tue idee sull’immigrazione ma dobbiamo stare attenti a non sembrare la peggiore destra», lo avvisa Davide Caldani. «Ci sono molti errori di comunicazione, si sta offrendo il fianco agli squali pronti ad attaccarti», aggiunge Mariateresa Stradi, che invita Renzi a «crescere», offrire una «visione del futuro» non più da ragazzo ma da «leader maturo». Simona Campo si accalora: «Ogni nostro messaggio non deve generare dubbi in chi ci legge se non vogliamo dar credito alla leggenda metropolitana che ci vede come un partito ormai di destra». Francesco Benassi, «da iscritto», offre un consiglio: «Usciamo dall’ossessione dei social che servono solo ad alimentare polemiche sterili tra addetti ai lavori».
I giovani democratici di Milano lanciano una lettera-appello al segretario, con tanto di raccolta firme, per chiedere la testa di chi gestisce la comunicazione dem e l’individuazione di un responsabile politico per i social: «La misura è colma, c’è imbarazzo tra militanti e amministratori locali, non vogliamo mai più vergognarci di leggere nelle nostre parole ufficiali le parole dei nostri avversari politici».
Talvolta il segretario dem risponde, come a quel signore che lo accusa di somigliare a «quello con le felpe». «Dici? Forse allora non hai letto. Leva pure il forse», la replica di Renzi. Andrea Metta reagisce così: «Ti prego, non rispondere con supponenza ai tuoi elettori. La notizia è stata diffusa dalla pagina del partito che ha citato le tue frasi, dire che non abbiamo letto sembra arrampicarsi. Il libro non l’abbiamo letto perché non c’è».
Da elettori non Pd arriva una critica in senso opposto. Sui fatti che sono finora mancati. Sull’«invasione» che «è stata consentita dal suo governo». Molti citano le parole di Emma Bonino a proposito della missione Triton, il presunto accordo siglato dall’Italia per accollarsi gli sbarchi. Accuse dunque su un riposizionamento giudicato «tardivo». «Vi siete svegliati tardi dopo aver gettato l’Italia nel caos», accusa Antonio Rinaldi.
Ma l’allarme sull’immigrazione incontrollata arriva anche da simpatizzanti del Pd. «Matteo attenzione che se non stoppi il flusso il Pd prenderà una batosta che quella del referendum sembrerà lievissima al confronto», avverte Alessandro Arcese. Così anche Guido Mascetti: «Non molli sull’immigrazione, migliaia di votanti del Pd sono impauriti da questa invasione,». Alcuni implorano di stoppare lo ius soli: «Inutile forzare la mano su un tema così impopolare».
Ieri Renzi, dopo le dure critiche ricevute da Roberto Saviano, ha ripostato un post della deputata di Alternativa popolare Rosaria Scopelliti che accusa lo sc
rittore di «caduta di stile» per aver interpretato in modo «fazioso e insensato» le parole dell’ex premier. «Non posso tacere quando personaggi con tanto seguito instillano un pericoloso senso di sfiducia nelle istituzioni». Saviano dunque riapre il dibattito: «Scusate, ma cosa ha detto di così strano Renzi? Non possiamo accoglierli tutti, chi ha il coraggio di negarlo?», si schiera Francesco Rossi. «Lo stupore e lo sdegno di Saviano sono quelli di tanti elettori del Pd»,, la replica Chiara Tosetto.
Sul tema interviene, da Messina, anche Andrea Orlando: «Aiutarli a casa loro? Non è proprio uno slogan della sinistra...».

Corriere 9.7.17
L’inviata Onu: «Sì ai flussi legali Dare soldi ai libici non serve a nulla»
di Fiorenza Sarzanini

ROMA «L’unica soluzione per risolvere il problema dei migranti è creare flussi legali. Pensare di fermare queste persone alzando muri e impedendo loro di partire è un’utopia». Louise Arbour, è la rappresentante speciale per le migrazioni del Segretario Generale Onu e sta negoziando con i governi l’attuazione del Global Compact, accordo non vincolante per ottenere una migrazione «sicura, ordinata e regolare».
L’Italia denuncia di essere sola di fronte all’emergenza.
«Io non userei questo termine così catastrofico. Il problema certamente esiste, ma parlare di emergenza serve ad enfatizzare i timori. E invece queste persone rappresentano una vera risorsa per gli Stati».
Anche se non sono regolarizzati?
«Certamente, perché forniscono un contributo concreto: la maggior parte di loro manda nel Paese d’origine appena il 15 per cento di quanto guadagna. Il resto lo spende dove ha deciso di vivere».
Perché in Europa c’è tanta ritrosia ad accoglierli?
«Subentra la paura, il rifiuto alla regolarizzazione di chi riteniamo diverso da noi. Ma bisogna spiegare quali sono i vantaggi. Fermare questi flussi non è possibile, il fenomeno è irreversibile e come tale va governato. Anche perché, parlo dei rifugiati, ci sono dei requisiti di solidarietà da rispettare. Purtroppo all’interno dell’Ue si prendono impegni che poi non vengono rispettati».
Le difficoltà incontrate dall’Onu per formare un governo in Libia e la fragilità dell’esecutivo in carica hanno aggravato il problema?
«La Libia è uno dei problemi più seri che ci troviamo ad affrontare. Ma fino a che si procederà seguendo lo schema attuale non si raggiungerà alcun risultato».
Che cosa vuole dire?
«Dare soldi ai libici servirà soltanto ad aumentare il flusso migratorio e anzi contribuirà ad intensificarlo. Concedere fondi alla Guardia costiera locale non è la soluzione, anzi».
È l’unico modo per cercare di fermare le partenze.
«No, credere che sia così è un grave errore. L’unica strada da percorrere è quella che mira a mettere a posto le cose dal punto di vista politico. Si deve creare un governo stabile, evitare che i trafficanti continuino a spostare le armi dal sud al nord del Paese. Se non si imboccherà questo percorso la situazione peggiorerà ulteriormente».
L’Onu ha provato, evidentemente non è così semplice. Non si è fatto abbastanza?
«Quando la Nato ha deciso di annientare il regime di Gheddafi era prevedibile che ciò avrebbe portato al caos, ma questo sembrava non importare a nessuno. Adesso è molto più difficile trovare un rimedio. Se però l’Europa si illude che la concessione dei finanziamenti servirà a chiudere la partita commette uno sbaglio».
E allora qual è la soluzione?
«Lo ripeto, bisogna aprire canali di trasferimento legali anche per i cosiddetti migranti economici. Nel 2018 sarà operativo il Global Compact per favorire gli ingressi legali per motivi di studio, lavoro e ricongiungimento familiare di chi non ha diritto allo status di rifugiato.

Il Fatto 9.7.17
Polemica sui migranti
Andrea Orlando lancia la sua corrente, Democrazia&Società

E anche Andrea Orlando vara la sua corrente. Dopo la rottura con Matteo Orfini, con cui condividevano la stessa area nel Pd, ora il ministro della Giustizia riparte da “Dems, Democrazia&Società”, lanciata ieri con un’assemblea a Messina. Ad annunciarlo è stato lo stesso Orlando, con un tweet: “Questo sarà il nome del movimento che vogliamo far vivere nel Pd, parlando alla società”. E proprio da Messina, il ministro è tornato sull’infelice frase di Matteo Renzi sui migranti (“Aiutiamoli a casa loro”), sostenendo: “Aiutarli a casa loro non è proprio uno slogan della sinistra. Aiutarli a casa loro è anche giusto nel senso che bisogna sviluppare dei progetti di cooperazione, ma nel frattempo il flusso di arrivo di migranti continuerà e questo va gestito congiuntamente con l’Unione Europea”, Insomma, per lo sfidante di Renzi nelle scorse primarie “Non ci possiamo tirare indietro rispetto al dovere di salvare le persone in mare, ma contemporaneamente dobbiamo chiedere all’Europa di ripartire questo sforzo”.

Repubblica 9.7.17
Gli anti-dem divisi sul listone L’ex sindaco: Mdp si sciolga
D’Alema sicuro: “Alla fine sarà dentro anche Sinistra italiana, conviene a noi e a loro”
Giuliano Pisapia, leader di Campo progressista. Si prepara a rivolgersi a Mdp, la nuova “casa” di Bersani e D’Alema (a destra) con un appello: “Scioglietevi”
Il leader di Insieme vuole evitare la somma elettorale di sigle, pronto un manifesto. Sintonia con Bersani, ma è scontro sui confini dell’area
di Goffredo De Marchis

ROMA. A un certo punto Massimo Villone, costituzionalista napoletano, ex studente ad Harvard, ex parlamentare del Pds, sentenzia: «Ve lo dico da cittadino, non voterei per nessuno di voi». Si rivolge alla Babele di voci di quella che dovrebbe essere la nascitura lista di sinistra alternativa del Pd, voci riunite in un forum dal quotidiano
il Manifesto,
incerte sul modo di stare insieme, gente che si conosce da sempre e coltiva sì il medesimo giudizio sul Pd di Renzi ma anche dissapori antichi. Massimo D’Alema, leader di Mdp, però è ottimista sul fatto che alle elezioni del 2018 la torre scomposta di oggi si ritroverà sotto il medesimo simbolo. Non fosse che per un prosaico calcolo elettorale. «Staremo insieme, con Pisapia e anche con Sinistra italiana — garantisce l’ex premier agli amici — . Noi non possiamo permetterci di rinunciare ai voti di Fratojanni e loro non possono negarsi la possibilità di entrare davvero in Parlamento».
A questo scopo diventano fondamentali le soglie alte del Consultellum: il 5 per cento alla Camera e l’8 per cento regionale al Senato. «Per fortuna abbiamo poco tempo — dice D’Alema, sempre in versione pragmatica — . E spero che le soglie siano davvero sfidanti in modo da rimuovere ogni velleità di separazione». Chiaro, no? Si raccolgano tutte le forze, con l’eccezione di Rifondazione comunista e di intellettuali critici da almeno 40 anni, e si faccia di necessità virtù.
Intorno al tavolo, il quotidiano comunista ha riunito Villone, D’Alema, Fratoianni, Maurizio Acerbo (Rc), Alberto Asor Rosa e Anna Falcone dei Comitati del No. Non c’è Giuliano Pisapia et pour cause, nel senso che l’ex sindaco di Milano vuole tenersi a distanza dall’immagine di una sinistra confusa e frammentata. Il suo progetto ha l’ambizione di elaborare proposte autonome e di vedere chi ci sta con fatti concreti. Entro domani Pisapia lancerà il suo Manifesto, quello di Insieme. Per capirci, il secondo tempo della piazza del 1 luglio a Santi Apostoli. Ci sta lavorando con il vicepresidente della Regione Lazio Massimiliano Smeriglio. Il lancio avverrà 24 ore prima di una decisiva riunione dei vertici di Articolo 1. In quella sede, martedì, i bersaniani dovranno sostanzialmente decidere sul loro scioglimento per confluire sotto le bandiere di Insieme. Che è una delle precondizioni per marciare uniti verso il voto. Potrebbe essere più breve del previsto la vita di Mdp, ma non tutti ne sono convinti, allo scioglimento D’Alema oppone una resistenza, in nome dell’egemonia da esercitare sull’area. Retaggio della cultura di origine, certo, ma anche giustificata, secondo l’ex premier, dalla struttura di Articolo 1, che ha già sedi, aministratori locali, diffusione capillare sul territorio. Ma Insieme cerca di rimescolare le carte e userà anche il web per costruire il profilo programmatico dell’operazione.
Il percorso è prevedibilmente accidentato. Non basta l’antirenzismo a fare una lista e un bacino elettorale. Il forum del quotidiano Manifesto ha il merito di dar vita a una discussione vera in cui emergono soprattutto le differenze. Fratojanni vuole chiudere con i richiami al centrosinistra, D’Alema li considera necessari, Acerbo punta a un accordo con Si, Asor Rosa si accontenta di sconfiggere Renzi, la Falcone spera: «All’80 per cento una lista unica si farà». Il come tuttavia resta importantissimo. Per convincere Villone e qualche milione di italiani.

Il Fatto 9.7.17
l’idea di un quarto polo
Sinistra italiana vuole una lista unica alternativa ai dem

Una sola sinistra alla sinistra del Pd: è lo slogan degli ex vendoliani, ora guidati da Nicola Fratoianni, per una lista unica alternativa al renzismo. Ieri a Roma la direzione di Sinistra Italiana ha approvato un documento che stabilisce l’obbiettivo di dare vita ad un “quarto Polo”. Serve un confronto tra le varie anime della sinistra per “articolare una coalizione di forze”, si legge documento finale, approvato con voto unanime. Tra le due piazze che hanno animato il dibattito a sinistra in queste settimane, Si è più vicina a quella dello scorso 18 giugno che si è riunita al teatro Brancaccio, nata dall’appello di Tomaso Montanari e Anna Falcone, che ha proposto “una grande lista di cittadinanza e di sinistra, aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile”. Il partito di Fratoianni è più scettico nei confronti di “Insieme”, la piattaforma lanciata da Pier Luigi Bersani e da Giuliano Pisapia: “Se da un lato emergono crescenti elementi di convergenza rispetto alla possibilità di definire una piattaforma condivisa, permangono ampi tratti di ambiguità sul profilo complessivo della proposta politica”. Malgrado questo, “Sinistra Italiana lavora all’obiettivo della lista unica”.

il manifesto 9.7.17
Fratoianni: «Sì al quarto polo, ma Insieme è ambigua»
L'appello alla lista unica. La chiamata: «Noi siamo unitari, ma le risposte da parte di Pisapia continuano a farsi attendere». Intanto Mdp fa i conti con il suo «amalgama». Martedì direzione sulla linea del dopo SS. Apostoli
di Daniela Preziosi

Serve «una sola lista alla sinistra del Pd», una lista «di cittadinanza a e di sinistra che accolga tutti i partiti attuali, ma sia molto più ampia della loro somma», «radicalmente alternativa al Pd» e «che abbia come obiettivo di dare vita ad un quarto polo pienamente competitivo nello spazio politico elettorale». In un torrido sabato romano Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, riunisce la direzione del partito a porte chiuse. E lancia un nuovo appello «unitario» alla sinistra a sinistra del Pd. Ma non si nasconde le difficoltà dell’impresa, nonostante sulla carta siano molte le condizioni favorevoli. Se da un lato «emergono crescenti elementi di convergenza rispetto alla possibilità di definire una piattaforma condivisa», ammette il documento finale, dall’altro secondo il partito degli ex vendoliani «permangono ampi tratti di ambiguità sul profilo complessivo della proposta politica» e «di fronte alla nostra iniziativa, le risposte, in particolare dall’area che si è riunita a Santi Apostoli continuano a farsi attendere». Insomma, è Giuliano Pisapia a non rispondere. Almeno finora.
NON È UN PROBLEMA di poco conto. Perché se l’avvitamento di Renzi sulle questioni dei migranti scava solchi sempre più profondi fra Pd e sinistra radicale, dall’altra al quartiere generale dell’ex sindaco di Milano si spiega che la linea è quella segnata ai Santi Apostoli una settimana fa: «La lista unica c’è, si chiama Insieme, ha un profilo autonomo dal Pd e una vocazione di governo».
MA ANCHE NELLA NUOVA creatura appena nata c’è qualche problema da risolvere. Di linea e di organizzazione. Una parte dei bersaniani ancora punta a recuperare almeno Sinistra italiana alla casa comune, se non persino la platea del Brancaccio, quella che però ha fischiato Pisapia in contumacia.
FRA I PIÙ OTTIMISTI c’è Roberto Speranza: «Auspico che quest’area si allarghi il più possibile». Martedì prossimo, dopodomani, è convocata una direzione di Mdp a Roma. Saranno affrontati alcuni nodi del dopo ’Santi Apostoli’. Fra i quali c’è la costruzione di «Insieme», o come si chiamerà in seguito: Art.1 non intende sciogliersi nel nuovo percorso, almeno non per ora. Il plotoncino di bandiere rosse (rosso Art.1) che sventolavano sabato scorso in piazza stava a dimostrare anche questo. Ci sarebbe poi chi vuole mettere in guardia la nuova creatura da una certa aria di «seconda rottamazione»: dopo quella che Renzi ha abbattuto sulla «Vecchia Guardia», stavolta riguarderebbe il solo Massimo D’Alema, visto che l’altro padre nobile ex Pd Bersani è invece in prima fila, al fianco di Pisapia, nella nuova avventura: anche più del giovane coordinatore di Mdp Speranza.
DETTAGLI. Da mettere a punto. Ma l’«amalgama politico» è tema delicato, dentro e fuori «Insieme». Ed ha a che vedere con la virtuale capienza della lista: con la sinistra radicale o senza? Perché se è vero che le convergenze anti-Renzi sono ogni giorno più estese (l’elenco dei punti comuni si allunga grazie anche alle nuove sbandate a destra di Renzi), è anche vero che l’ambizioso obiettivo di ricostruire una sinistra è impegno delicato, dati i precedenti. «Se facessimo un cartello elettorale che si sfascia all’indomani del voto avremmo realizzato la castrofe definitiva per la sinistra italiana», ha avvertito D’Alema ieri in un forum con il manifesto. È il cuore del problema più serio oggi sul tavolo.
PROBLEMA CHE IL BLOCCO renziano ormai sbeffeggia. Matteo Orfini, l’ex dalemiano oggi ultrà della vocazione maggioritaria veltroniana (ormai rinnegata dallo stesso Veltroni), sfotte quelli di Art.1 («Da quando sono usciti dal Pd non fanno altro che parlare del Pd. È come quando due persone si lasciano. Vuol dire che si sono pentiti»), ma soprattutto li sfida a misurarsi con il consenso.
MA È UNA SFIDA TEMERARIA, secondo il ministro Andrea Orlando. Che ieri formalizzando la sua corrente a Messina (si chiama Dems, Democrazia&Società) ha insistito sulle alleanze, parlando al Pd ma non solo: «Aiutare Pisapia significa aiutare quella parte della sinistra che vuole allearsi con noi. Quindi significa aiutare il Pd perché se il Pd rimane da solo non gli rendiamo un grandissimo favore».


Repubblica 9.7.17
Gotor: “Renzi parla come un disco rotto”
di Mauro Favale

ROMA. Per Miguel Gotor, senatore di Mdp, Matteo Renzi è «ormai un disco rotto» che rimanda in continuazione «una vecchia disco music anni ‘80».
A dire il vero è il segretario Pd vi accusa di essere troppo attaccati a una sinistra “novecentesca”.
«E invece il vecchio è lui che si è attardato in una lettura troppo anni 80-90 della globalizzazione».
Voi, invece?
«Noi ci siamo collocati sulla frontiera di una sinistra che deve proteggere il cittadino che si sente smarrito, lottare contro le disuguaglianze e l’impoverimento del lavoro».
Queste battaglie non si potevano fare dentro il Pd? Renzi vi accusa di essere usciti per le poltrone.
«È un argomento senza fondamento che rivela una mancanza di rispetto di fondo. È come se attribuisse ad altri una propria mentalità».
È un fatto, però, sostiene Renzi, che lo strappo è arrivato solo dopo la sentenza della Consulta sull’Italicum e non dopo il 4 dicembre.
«Quella rottura affonda le radici nel passato e posso citare 4 fatti. Il primo: la reazione dopo le Regionali in Emilia-Romagna, quando a votare andò il 38%. Noi segnalammo l’allarme e Renzi disse: “Avanti tutta”».
«Febbraio 2015: si elegge Sergio Mattarella al Quirinale. Il Pd era compatto e Renzi invece di tenere unito il partito, dieci giorni dopo, caccia Bersani e altri deputati della minoranza dalla commissione Affari costituzionali dove si doveva discutere l’Itali-cum. Qui c’è tutta la hybris, l’arroganza renziana».
Terzo e quarto episodio?
«La politica dei bonus che tradisce la progressività fiscale, principio cardine della sinistra, e il consenso usato come clava come si vede oggi verso Orlando e Franceschini. Evidentemente il problema non era Bersani. Renzi non sa gestire una comunità».
Ci saranno altre uscite dal Pd?
«Sarei sorpreso se ce ne fossero A livello nazionale. Ma nei territori ce ne sono state e ce ne saranno».
A sinistra del Pd ci saranno 2 liste, voi e Pisapia da una parte, Sinistra italiana dall’altra?
«Spero di no, ma l’unità a sinistra si fa sui contenuti».

Il Fatto 9.7.17
“Renzi si elimina da solo, è così isolato che gli resto soltanto io”
“Adesso lo critica persino Dario Franceschini, credo che tutti i suoi errori stiano anticipando il cambio della leadership”
“Renzi si elimina da solo, è così isolato che gli resto soltanto io”
di Tommaso Rodano

“Sta facendo tutto Renzi. Se va avanti così prenderemo la guida del partito anche prima di quanto pensassimo, quasi nostro malgrado”. È una strana creatura politica, Michele Emiliano. Magistrato, poi sindaco di Bari, ora governatore della Puglia. È stato, nell’ordine: renziano, acerrimo nemico dell’ex premier (a un passo dalla scissione) e poi suo sfidante alle primarie. Di recente è tornato piuttosto mite nei rapporti con il segretario. O così pare. Nel giorno in cui a Roma lancia la sua corrente, Fronte democratico, Emiliano spiega la sua strategia con naturalezza disarmante: basta stare fermi, Renzi si rovina da solo.
Per esempio, con la frase sui migranti da aiutare “a casa loro”?
È un’uscita che gli causerà un sacco di problemi, con il mondo cattolico e con quello progressista.
Però deve ammettere che con Renzi è tornato amico. Avete trovato la quadra sulle candidature in Puglia?
Posso dire una cosa? Io in Puglia ho stravinto, non ho bisogno di fare accordi. Noi i voti li abbiamo già, e Renzi ne ha bisogno. Se il Pd ci giudica un’area più interessante delle altre minoranze, non è certo una questione di accordi.
Ma lei è lo stesso che denunciava il Pd “partito dei petrolieri e dei banchieri”, che si ispirava a Che Guevara?
Siamo ancora alternativi al renzismo. Il nostro obiettivo è governare il Paese.
Proprio ora che Orlando attacca Renzi su base quotidiana e persino Franceschini è critico, Emiliano si trasforma in alleato mansueto.
L’ho detto anche a Renzi: il fatto che io sia l’unico con cui ora riesce a parlare, dimostra il livello del suo isolamento. Sono il suo avversario più radicale.
Lo è ancora?
Gli altri sono ancora seduti al governo… La mia opposizione viene fatta in modo da non distruggere il Pd, ma nella sostanza le critiche che faccio a Renzi sono identiche: io non capisco quale sia la sua idea di partito, dove voglia andare. Cosa devo dire di più?
Lei era a un passo dalla scissione insieme a Speranza ed Enrico Rossi. Non teme di essere considerato ondivago?
No, ho fatto benissimo a restare. Ci stiamo preparando per guidare il Pd: non possiamo distruggerlo, né massacrare il segretario appena rieletto.
Anche perché si sta massacrando da sé…
(Qualche secondo di silenzio, un sorriso) Ho sempre sostenuto questa tesi: quando ci sono dei difetti politici, un leader si elide da solo. Quindi in questa fase ci limitiamo a tentare di impedirgli gli errori più marchiani. Per esempio sulla legge elettorale: ne serve una che premi le coalizioni.
Guarda anche lei a Pisapia?
A chiunque abbia un curriculum coerente col nostro.
Non è la linea del segretario del Pd.
Ma si deve porre il problema: ormai quelli che gli suggeriscono di cambiare strada sono tanti, anche tra i suoi.
Ha detto che prenderete la guida del partito prima del previsto…
Ho l’impressione che questi errori a ripetizione renderanno più rapida la necessità di sostituire la leadership. Ci stiamo preparando.
Si riferisce alle elezioni in Sicilia? Se Renzi perdesse sarebbe la quarta sconfitta consecutiva.
Il problema non sono solo le sconfitte, ma l’incapacità di leggere il futuro. Ma non voglio che Renzi abbia l’alibi del sabotaggio interno. A Taranto e a Lecce avrei potuto tirare i remi in barca, e avrebbe perso in altri due capoluoghi. Invece ho fatto di tutto, ho messo insieme i renziani e i non renziani e ho vinto (lapsus, si corregge), abbiamo vinto sia a Lecce che a Taranto.
Ma se il Pd perde in Sicilia?
Non lo so, non lo so. L’accelerazione vera sarà quando tutto il partito prenderà atto di quello che abbiamo sempre detto: se vogliamo continuare a vincere le elezioni, la guida di Renzi non è più adatta. È divisiva. Ne serve una inclusiva, che tenga insieme i corpi intermedi e la nostra tradizione politica. Se tu il nostro popolo lo fai a pezzi e lo regali ai Cinque Stelle, alla destra e al non voto, perdi le elezioni.
E voi aspettate. Scavate piano piano.
Se ci riusciamo, lo aiutiamo. Altrimenti ci candideremo a sostituirlo, quando sarà il momento.

Il Fatto 9.7.17
Tutti giù dal carro: la corsa ad abbandonare Matteo
In fuga - Dal Rondolino prima adorante e ora zitto, all’economista Nannicini che va in America, fino al sindaco di Milano Beppe Sala
di Antonello Caporale

Non è bello partire dall’ultimo che fa le valigie, anche perché ha promesso che ritornerà. Solo che Tommaso Nannicini, la mente economica del renzismo, si imbarca tra due settimane per l’America. Il 17 agosto è atteso ad Harvard per un lungo ciclo di lezioni, e solo Dio lo sa con quanta felicità scappa. Senza voler approfondire temi di pertinenza dei geologi, il costone sul quale issava la bandiera Matteo Renzi sta scendendo a valle con una velocità stupefacente ed è assai simile, per gravità dello smottamento, a ciò che accadde il 15 febbraio di 7 anni fa a Maierato, piccolo comune calabrese, che sprofondò nelle viscere per colpa dell’argilla che lo sosteneva.
Va via Nannicini, ed è andato via Filippo Taddei, per età e competenze un pari grado (John Hopkins University) che amaramente ha constatato tempo fa: “Lascio con rimpianto, abbiamo commesso troppi errori”.
L’Italia divora i migliori. Nell’attesa di capire se Matteo fa parte degli ottimati, è necessario – per dovere di cronaca – illustrare quella che appare una diserzione bella e buona.
A giorni esce “Avanti”, libro di memorie e resistenza attiva, ma l’uditorio? Ora, se è nel carattere dell’uomo che un Vincenzo De Luca bolli come “strafottente” l’ex premier e forse amico, e l’unica cosa bella che ricordi è la di lui moglie Agnese, fa un certo effetto sapere che anche il sindaco di Milano Beppe Sala, volendo restare in rima, lo giudichi “indisponente”. Niente al confronto del colpo ferale di Giuliano Ferrara (Royal Baby, do you remember?) che arriva a intimargli: Renzi si rassegni ad essere un altro Renzi.
Qui siamo nel campo della trasfigurazione bella e buona, nella proiezione inversa della personalità. Ferrara ci sta dicendo che è rimasto vittima di un gigantesco qui pro quo, e senza la ruvidezza della sua penna entusiasta e devota, anche Ezio Mauro – che alla vigilia dell’entrata in campo appariva comprensivo e solidale – ha dovuto vergare su Repubblica, non certo da ieri, l’infausta diagnosi: Populismo al potere. Senza contare Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere: insopportabile antipolitica.
Viene giù il pilastro ideologico, il senso ultimo della battaglia dei mille giorni, del governo ottimista e un po’ di sinistra, un po’ di centro e un po’ anche di destra. Un vuoto, come fosse appunto l’argilla di Maierato. “Serve un mediatore che rottami la rottamazione”, ha scritto Claudio Cerasa, per dire che la partita è finita e Matteo può accomodarsi negli spogliatoi. Meglio, per il Foglio, un analgesico: cioè Paolo Gentiloni. Avremmo già detto tutto, sarebbe già finita qui la somma gigantesca delle diserzioni se briciole di cronaca non segnassero ulteriori lesioni al corpus renziano. Possiamo dimenticare che Alessandro Baricco, il tutor letterario della Leopolda, il contapassi narrativo, ha pure deciso – in tema di storytelling – di invitare alla sua scuola Holden due manager della comunicazione di Chiara Appendino? Come si vincono le elezioni. Case history.
Adesso persino Vladimiro Crisafulli, prima dalemiano e poi renziano, è tornato a dire che “ci serve un D’Alema”. “Caro Renzi cambia mare se vuoi restare capitano”, gli scrivevano tempo fa su Repubblica Sergio Chiamparino e Beppe Sala.
Mare mosso, e le onde furono avvistate pochi giorni dopo il referendum del 4 dicembre quando alcuni sottoscrittori del Sì, presenze importanti e pistole fumanti dell’ultima ora, chiesero sommessamente di chiudere la pagina web su cui la loro firma ancora compariva. Romano Prodi e Gianni Cuperlo, Roberto Benigni e Michele Santoro si trovarono a disagio. Pensiamo a Cuperlo: ha perso sia mettendosi contro Renzi che insieme a lui. Basta un Sì o è necessario una consulenza psicologica?
Delle ore attuali meglio non parlarne. La drammatica disfida con Dario Franceschini che cinque settimane fa annunciava elezioni in autunno con il proporzionale e oggi chiede un sonnifero per Renzi, un trasporto urgente verso la sua Rignano.
L’Italia divora i migliori? Dal punto di vista di Franceschini sembrerebbe di no. Quando Dario liquidò Enrico Letta lo fece per il Paese, e così adesso, oggi che il segretario non comprende l’essenziale, cioè l’alleanza a sinistra, il ministro è pronto a fare il bis per servire la Patria. Ma chi gli rimane? A quale ministro Renzi può confessare i suoi dolori e anche spiegare l’ottimismo della volontà, la tenacia con la quale cerca la rivincita? La Boschi non è più ministro, ma forse non è nemmeno tanto tanto amica. Delrio off limits, Lotti super intercettato, Calenda fuggitivo. Anche la coppia social meglio assortita, i fidati brothers Velardi&Rondolino hanno gettato la spugna. Sparito persino Stefano Esposito, ex pitbull torinese. Resta Michele Anzaldi, certo, poi Matteo Richetti, ma con qualche distinguo. Infine chi?

Repubblica 9.7.17
Perché l’Europa non deve temere l’Africa
Minniti sa che i migranti puntano sul confine libico ed è là che vanno fermati, creando le condizioni per riportarli nei loro Paesi
Bisogna trattare con i governi africani ed effettuare in quei Paesi una serie di investimenti appropriati alle esigenze locali
di Eugenio Scalfari

DAL CONFRONTO tra i cinque continenti, sia dalla loro estensione territoriale e sia dal numero degli abitanti e dalla loro età, emergono alcune considerazioni che vanno tenute presenti per quanto riguarda la storia del prossimo futuro.
L’Asia è il continente più esteso e il più popoloso. L’età media è variabile da regione a regione, ma complessivamente non invecchia né ringiovanisce, è stabile.
Gli abitanti sono 4 miliardi e 436 mila e il territorio è di 44 milioni e 580 mila chilometri quadrati.
L’Europa è il continente territorialmente più piccolo: 10 milioni e 180 mila chilometri quadrati con una popolazione di 749 milioni di abitanti.
Infine è molto interessante l’Africa, con 30 milioni e 370 chilometri quadrati e una popolazione di un miliardo e 216 milioni di abitanti. L’invecchiamento è molto scarso e la crescita demografica molto elevata.
Trascuriamo le Americhe del Nord e del Sud che occupano un diverso emisfero. Qui da noi il vero tema da tener presente è l’Africa: vasta estensione e in proporzione all’Asia una popolazione minimale e giovane. Ha ragione Marco Minniti quando dice che il vero problema dell’Europa in genere e delle nazioni europee che si affacciano sul Mediterraneo è quello di fronteggiare l’Africa. In che modo?
SEGUE A PAGINA 23
MATTEO Renzi è stato durissimamente contestato da tutti gli altri partiti italiani, a cominciare dalla dissidenza della sinistra guidata da Giuliano Pisapia, per aver detto che l’Italia deve bloccare l’accoglienza dei migranti e semmai dirottarli e soccorrerli nel Centro-Africa da cui provengono. Renzi per fronteggiare attacchi e insulti che gli sono piovuti addosso come una tempesta di grandine, ha parzialmente smentito le affermazioni che gli erano state attribuite, col massimo godimento soprattutto di Salvini. Ora si aspetta. Luglio e agosto le vacanze e subito dopo il tema andrà ripreso. Il come non è chiaro né da parte di Renzi né dei suoi critici interni né da quelli esterni. Ma gli estremi di quel tema sono invece chiarissimi fin d’ora e di questo vogliamo ora parlare.
***
Desidero anzitutto ricordare il mio incontro con papa Francesco giovedì scorso. Uno dei temi di cui abbiamo parlato è appunto quello della povertà dei migranti in gran parte provenienti dall’Africa e diretti soprattutto verso l’Europa. Tutta l’Europa, del Sud, del Centro e del Nord.
La tesi del Papa è che il meticciato è inevitabile e va anzi favorito dall’Europa. Ringiovanisce la nostra popolazione, favorisce l’integrazione delle razze, delle religioni, della cultura. La popolazione europea sta, in quasi tutti i Paesi, diminuendo e invecchiando. L’accoglienza dei migranti è dunque per Francesco un fatto positivo, destinato a cementare una sostanziale amicizia tra i tre continenti che la geografia pone a confronto tra loro: l’Asia, l’Africa e l’Europa.
Molte nazioni hanno attualmente un sistema dittatoriale, ma il tempo e i popoli migranti possono favorire l’estendersi delle democrazie. Questo penso io. Naturalmente sono percorsi storici pieni di variazioni, nel bene e nel male, per i popoli che ne sono contemporaneamente i protagonisti e le vittime. Ma il percorso storico io credo sia questo perché questa è la modernità che dal Quattrocento domina l’Europa e anche l’India e la Cina. Non ancora l’Africa e perciò è all’Africa che bisogna guardare.
Il Pd vuole instaurare lo “ius soli”. Incontra molte difficoltà, soprattutto in Senato dove non dispone d’una maggioranza. Ma lo “ius soli” è una conquista se il Pd riuscirà a ottenerlo. Oppure si potrà introdurre qualche modifica che però non intacchi il principio. Per esempio un diritto che diventa operativo solo quando il bambino è rimasto in Italia per almeno cinque anni dalla nascita, con eventuali assenze d’un mese l’anno se ci fossero esigenze dei genitori stranieri che non possono e non vogliono lasciare il figlio senza di loro.
Uno dei punti di fondo che i Paesi meridionali dell’Ue hanno rifiutato è stato quello di accettare l’attracco di navi cariche di migranti nei loro porti. Gentiloni ha protestato, Renzi ha protestato, ma poi c’è stata la mediazione favorita dalla Germania di aiutare con una “regalia” come contributo all’accoglienza.
Se posso esprimere un mio sentimento, sono sbalordito di quanto è accaduto. L’Italia, secondo me, deve esigere che le navi battenti bandiera francese o spagnola o portoghese o turca o greca o cipriota, attracchino nei rispettivi porti. Saranno poi quei governi a decidere la loro politica nei confronti di quelle navi, ma non rimandandole in Italia perché l’Italia deve accettare l’attracco delle navi di bandiera italiana.
In teoria alcune navi potrebbero battere bandiera europea, questo è uno dei motivi per i quali temi di questa importanza esigono al più presto uno Stato europeo federato. Allora sì, sarebbe relativamente facile governare in vari modi l’accoglienza o il respingimento dei migranti. Nel frattempo tuttavia il bravo e generoso e democratico ed europeista Macron, non vuole accettare le navi che battono bandiera francese. Dovrebbe invece consentire l’attracco nei suoi porti. Comunque può fare quel che vuole, ma sarà difficile a questo punto non mettere in gioco il suo europeismo e il rispetto per la democrazia. Gaullisti? De Gaulle era meglio, fece la pace con l’Algeria.
A questo proposito desidero ricordare che dal 1936, quando Mussolini conquistò l’Etiopia, le persone nate in Eritrea e nella Somalia italiana, erano considerati cittadini italiani. Si cantava una canzone intitolata “Faccetta nera” che diceva: Faccetta nera / sarai romana / la tua bandiera sarà sol quella italiana! / Noi marceremo insieme a te / e sfileremo avanti al Duce e avanti al Re!”.
Vedete? Il tempo passa ma spesso i temi d’allora si ripropongono.
Il nostro ministro dell’Interno Marco Minniti, è molto consapevole del problema delle emigrazioni dai Paesi dell’Africa occidentale. Fuggendo da Paesi dove rischiano di morir di fame o di essere imprigionati e uccisi, la loro fortuna sarebbe quella di organizzare un sistema di accoglienza europea, o al momento solo italiano, direttamente in quei territori.
Bisognerebbe trattare con quei governi, assumersi la responsabilità effettuando in quei Paesi una serie di investimenti appropriati alle esigenze locali, alimentari, sociali, culturali, sindacali. Insomma investimenti adeguati e richiesti da quei governi. Gli investitori sarebbero anzitutto italiani e/o europei e/o americani. I lavoratori, adeguatamente retribuiti, sarebbero anzitutto immigrati riportati nei Paesi d’origine e poi utilizzati dai Paesi in questione. Ci dovrebbe anche essere un contingente militare italiano di 200 o 300 effettivi, che dovrebbero sorvegliare e garantire che gli investimenti in corso siano adeguatamente protetti.
Questo è il programma Minniti (ovviamente condiviso da Gentiloni e da Renzi). Minniti sa che i migranti puntano sul confine libico- tripolitano. È là che i migranti vanno ed è là che saranno fermati e riportati nella patria dalla quale stanno fuggendo, ma nelle condizioni di cui abbiamo parlato.
La tesi del nostro ministro dell’Interno (che fa anche il ministro degli Esteri in certe occasioni) è che l’Africa è un continente destinato a crescere più velocemente degli altri e se la crescita avverrà anche sul suo territorio potrà addirittura mettere in moto un movimento alla rovescia: molte ditte e tecnici europei si dislocheranno in Africa per aiutarla a crescere più velocemente e a imparare a costruire nuove imprese e nuove iniziative. Concludo dicendo che il paragone è: aiutiamo l’Africa e l’Africa aiuterà noi.

Corriere 9.7.17
Renzi agli oppositori nel Pd: primarie già fatte, ora basta
di Maria Teresa Meli

Contatti tra Franceschini e Orlando: così andiamo a sbattere
ROMA In questi ultimi giorni la crisi del Pd corre sui cellulari. I dirigenti del partito che in direzione hanno preso le distanze da Renzi continuano a consultarsi tra di loro. I contatti tra Franceschini e Orlando sono frequenti. Anche se il primo non ci sta a passare per un traditore a causa di questa convergenza contingente con il Guardasigilli: «È la cosa peggiore che si possa dire a un politico — si è sfogato con alcuni parlamentari — e per giunta nel mio caso non è vera. Sono mesi che cerco di convincere Renzi a cambiare linea, quelle cose gliele ho dette in privato, non ho fatto nessuna sortita a tradimento, ma lui non mi ha mai voluto ascoltare, per questo sono stato costretto a fare un’uscita pubblica. Lui non capisce che se va avanti così, senza ascoltare nessuno e rompendo i rapporti con tutti, andrà a sbattere. Non solo: rischia di fare andare a sbattere pure il partito».
Anche Orlando ha le sue ragioni per recriminare con il segretario: «Sta snaturando il Pd», si è sfogato con i collaboratori. Continua invece a mantenere una posizione più defilata Emiliano, che respinge l’accusa, rilanciata tre giorni fa dal Fatto , di aver siglato un armistizio con il segretario in cambio della possibilità di decidere a suo piacimento le liste in Puglia per le Politiche. «Noi faremo il governo ombra di questo partito», annuncia.
Renzi, comunque, almeno per il momento, non sembra intenzionato a cambiar strada e idea: «Le primarie — ripete ai suoi — si sono svolte poco più di due mesi fa e il nostro popolo ha scelto, adesso basta». E infatti ha anche deciso di tenere i congressi provinciali in tempi stretti: in ottobre, con una propaggine di tesseramento lampo in estate. Questo per impedire agli avversari interni di organizzarsi nei territori.
Sulla «vocazione maggioritaria» il leader non molla. Il che, tradotto in parole povere, significa andare alle elezioni senza fare alleanze. Una linea ribadita anche ieri da Orfini: «Per fortuna c’è una legge elettorale che consente a ognuno di noi di valutare il proprio consenso, misuriamoci con gli elettori del centrosinistra», la sfida rivolta a Mdp. Un’ulteriore conferma che difficilmente il Pd spingerà per cambiare la legge elettorale. Posizione diametralmente opposta a quella di Orlando, secondo il quale «il Pd non può fare a meno della coalizione». Ma tra gli avversari interni di Renzi c’è chi punta sulla eventuale sconfitta alle Regionali siciliane per ridimensionare il segretario (non per costringerlo alle dimissioni a pochi mesi dalle Politiche, perché sarebbe un boomerang per tutti). Renzi e i suoi non credono che Orlando e Franceschini abbiano questa forza, ma comunque stanno continuando il pressing su Grasso perché si candidi dal momento che sul suo nome si registra un’unità che va da Alfano a Bersani.
Mentre nel Pd si continua a litigare sul tema «coalizione sì, coalizione no», la sinistra non sembra avere nessuna intenzione di allearsi con Renzi e compagni. Il leader di Si Fratoianni, che ieri ha finalmente acconsentito a una lista unitaria, ha però specificato che dovrà essere «alternativa al Pd». E Mdp, che martedì terrà la sua direzione, è in tutt’altre faccende affaccendata. Da una parte, deve rintuzzare le pressioni di Pisapia che chiede lo scioglimento di quel partito prima di dare vita a un soggetto unitario. Dall’altra, è alle prese con i malumori di D’Alema, che teme di essere rottamato dai suoi compagni d’avventura. Lui e Bersani avevano deciso di fare due passi indietro per lasciare spazio ai giovani ma quando ha visto l’«amico Pier Luigi» sul palco di piazza Santi Apostoli D’Alema ha avuto il sospetto che il passo indietro in realtà venisse chiesto solo a lui.

Repubblica 9.7.17
“Io sotto il fuoco amico della sinistra nostalgica D’Alema e Pisapia erano nemici dell’Ulivo”
Matteo Renzi ripercorre la scissione Pd nel libro in uscita: “I maestri del logoramento se ne sono andati non per il Jobs Act ma quando hanno capito che non sarebbero stati rieletti. Chi rimpiange l’Unione a 16 partiti non mi parli di alleanze”
di Matteo Renzi

Pubblichiamo un estratto di “ Avanti”, il libro di Matteo Renzi in uscita il 12 luglio, dal capitolo Il futuro della sinistra.
Può sembrare un paradosso ma, nel momento in cui più ci sarebbe bisogno di lei, la sinistra europea vive la crisi più nera della sua storia. La sinistra europea si è presa il decennio sabbatico e nessuno sa quando mai potrà finire. (...) Nei grandi paesi europei, però, l’unica forza di centrosinistra che rimane solida e forte è il Partito democratico in Italia. Siamo gli unici che lottano per vincere, non per partecipare, gli unici che rifiutano la sindrome De Coubertin della sinistra europea. Il Pd rappresenta oggettivamente la diga più coriacea contro il populismo. Ma, visto che parliamo dell’Italia, potremmo dire contro i populismi. Perché da noi i populismi sono due: quello rivendicato con orgoglio dal Movimento 5 Stelle, iscritto nello stesso gruppo europeo dell’euroscettico Farage e quello più “tradizionale” della Lega Nord. Sono due populismi che si parlano, certo. Che si contendono lo stesso campo di gioco, in alcune battaglie. Ma in fondo hanno un unico avversario: il Pd.
Quello che stupisce di più, e che lascia senza parole, è che il cannoneggiamento esterno talvolta può avvalersi anche del fuoco amico. Quando la sinistra italiana vede che qualcosa inizia a funzionare subito scatta il meccanismo dell’autodistruzione, una vocazione suicida che è incomprensibile ai più ma che assume le forme di un logoramento costante della leadership e di una polemica quotidiana su tutto. (...) Fuoco amico è anche quello di chi un tempo – quando vinceva i congressi – teorizzava la necessità di sentirsi tutti parte della stessa ditta. E, quando invece i congressi ha iniziato a perderli, non ha mai smesso un solo giorno di contestare e criticare il nuovo gruppo dirigente. La scissione dell’inizio del 2017 – che poi si è configurata più come la fuoriuscita di autorevoli ex leader di partito che come una vera e propria scissione, visto che sul territorio se ne sono andati in pochissimi – nasce da lontano. (...) Il fortino dell’opposizione interna viene pazientemente e strategicamente costruito, pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno, nel tentativo di logorare il segretario e la sua leadership. Tuttavia, lo strappo finale – epilogo inevitabile della strategia – non avviene dopo l’approvazione di una legge contestata. Non decidono di andarsene dopo il Jobs Act, dopo la Buona scuola, dopo le unioni civili, dopo la legge elettorale. Non se ne vanno nemmeno dopo la sconfitta referendaria: nella notte tra il 4 e 5 dicembre sono troppo impegnati a brindare per andarsene. Immortalati dalle telecamere mentre levano i calici al cielo, non per la conferma della funzione istituzionale del Cnel ma per le dimissioni da presidente del Consiglio del segretario del loro stesso partito. Un brindisi che la nostra gente non perdonerà mai. No, i fuoriusciti annunciano di andarsene l’ultima settimana di gennaio 2017, con una dichiarazione affidata al reale leader di quell’area: Massimo D’Alema. Vi chiederete perché D’Alema abbia annunciato l’addio proprio quella settimana. La risposta è semplice: perché quella è la settimana della pronuncia da parte della Corte costituzionale sulla legge elettorale, pronuncia che conferma che l’impianto dell’Italicum è costituzionalmente corretto con l’unico limite della mancata soglia per l’affluenza al ballottaggio. Si tratta di un aspetto tecnico, che per una persona normale significa poco, ma che ha introdotto nei ragionamenti degli aspiranti scissionisti un elemento di certezza: se fossero rimasti nel Pd, in parlamento non ci sarebbero più rientrati. A quel punto, frustrati nella prospettiva di tornare a occupare gli scranni da cui continuare a fare la politica di cui sono maestri – quella del logoramento, chiaramente –, decidono di andarsene. Se ne vanno dopo la sentenza sui candidati di collegio, non dopo il Jobs Act! Non è l’aumento dei posti di lavoro, ma la diminuzione dei posti in parlamento a determinare la scissione. E il nostro popolo lo capisce perfettamente. (...) Talvolta basterebbe condividere la stessa idea di passato, invece ho come la sensazione che la nostalgia di larga parte dei teorici di una nuova sinistra sia legata a un passato immaginario. Riscritto a proprio piacimento, ignorando la realtà. Diciamocelo: il Pd è nato per superare una tragica alleanza chiamata Unione che metteva insieme svariati partiti (Ds, Margherita, Prc, Pdci, Italia dei Valori, Sdi, Udeur, Mre, Verdi, Pensionati, Psdi, Dcu, Consumatori, Svp, Lal, Pdm, Lfv), alcuni, molto piccoli, spesso privi di voti ma ricchi di veti. Partiti che scendevano in piazza contro il governo, contestando al pomeriggio le cose che avevano approvato al mattino in Consiglio dei ministri. (...) Se qualcuno è nostalgico di quel sistema lì, ebbene, sappia che noi non lo siamo. Vorrei che ci concentrassimo sullo scrivere l’Italia di domani. La politica non consiste nel cambiare il passato, riscrivendolo a proprio uso e consumo, ma nello scrivere il futuro. Oggi viene evocata la stagione dell’Ulivo da parte di leader politici che allora stavano contro l’Ulivo. O dall’esterno, in Rifondazione comunista come Giuliano Pisapia. O dall’interno, a cominciare da Massimo D’Alema, che quell’Ulivo contribuì in modo decisivo a segare. In nome dell’unità si pratica la scissione; dall’alto dei salotti si parla di povertà ignorando quale governo abbia finanziato le prime misure sulla povertà educativa e sul reddito di inclusione; ignorando la storia, si vive di amarcord. Le alleanze in politica non devono certamente essere un tabù. Però si fanno sui contenuti, non sulle simpatie o antipatie. Si fanno per qualcosa, non contro qualcuno. E si fanno se c’è una legge elettorale che lo consente o lo suggerisce, non per accontentare qualche nostalgico cantore di un passato che non è mai esistito se non nelle ricostruzioni edulcorate del giorno dopo.

Il Fatto 9.7.17
Statali beffati: 85 euro in più e 80 euro in meno
Prima del referendum Renzi promise l’aumento in busta paga, dopo otto anni di blocco
Statali beffati: 85 euro in più e 80 euro in meno
di Roberto Rotunno

L’aumento di stipendio previsto dal nuovo contratto costerà a tanti dipendenti pubblici la perdita del bonus “80 euro”. Non sembrano esserci più dubbi, almeno stando alla direttiva emanata in questi giorni dalla Funzione pubblica, il documento che dà il via alle negoziazioni tra governo e sindacati. Una dimostrazione del fatto che fare una promessa quattro giorni prima di un referendum, nel quale ci si è giocati la faccia, è più semplice di mantenerla sette mesi dopo. Ora che la contrattazione è entrata nel vivo, infatti, il governo si è rimangiato la parola data.
Partiamo dall’inizio: i contratti dei 3 milioni di statali sono fermi da otto anni, motivo per cui i sindacati della funzione pubblica si sono mobilitati per tutto il 2016 chiedendo un rinnovo che contenesse gli aumenti salariali. La ministra Marianna Madia ha continuamente rassicurato le sigle ma per arrivare all’incontro decisivo i richiedenti hanno dovuto aspettare fino al 30 novembre. In pratica, la situazione si è sbloccata solo durante l’ultima settimana di campagna referendaria per la riforma costituzionale (comunque bocciata il 4 dicembre dal 60% dei votanti). Nel documento sottoscritto in quella giornata, esecutivo e sindacati hanno trovato un’intesa per aumenti medi da 85 euro lordi al mese, quindi 1.105 euro all’anno considerando le tredici mensilità. Un altro punto dell’accordo prevedeva sostanzialmente di sterilizzare gli effetti dell’incremento in busta paga sul diritto a percepire gli 80 euro. Questo bonus – va ricordato – è destinato ai redditi medi e bassi: a beneficiarne, infatti, sono quei lavoratori che guadagnano minimo 8 mila euro e massimo 26 mila euro all’anno. Dai 24 mila euro in poi, il premio (che quando è pieno vale 960 euro all’anno) inizia a calare per scaglioni e passa da 720 a 480 a 240 euro annui, fino ovviamente ad azzerarsi quando si supera il tetto. Insomma, chi passa (grazie all’aumento previsto dal nuovo contratto) da 25 mila a 26 mila euro annui, dovrà dire addio al bonus. In pratica, l’incremento salariale sarà più che dimezzato. Il governo si era impegnato a evitare questo automatismo nel pubblico impiego, alle prese con il rinnovo, ma la direttiva non ha recepito quella parte dell’accordo. Il testo infatti chiarisce che ci sarà una valutazione sugli effetti che gli aumenti avranno sul bonus, per proporre correttivi “solo se necessario” e “nei limiti delle risorse destinate”. Dicitura che sembra lasciare pochi margini di manovra.
Un paradosso che penalizzerebbe proprio quelle fasce di reddito che – stando alla narrazione renziana – vanno protette. Secondo stime del Sole 24 Ore, il nuovo contratto potrebbe avere la beffa incorporata per 200 mila impiegati.

La Stampa 9.7.17
La Turchia cambia la scuola per avere musulmani devoti
Potenziamento degli istituti religiosi e ridimensionamento di Atatürk
di Marta Ottaviani

La Yeni Turkiye, la Nuova Turchia, di Recep Tayyip Erdogan riparte dalla scuola. Ed esattamente come aveva promesso il presidente della repubblica qualche anno fa, sarà piena di nuove e sempre più numerose generazioni di musulmani devoti. Tutto merito delle direttive che entreranno in vigore nel prossimo anno scolastico: la decisione di abolire l’insegnamento dell’evoluzionismo darwiniano, del mese scorso, è solo uno dei provvedimenti che il ministero dell’Educazione ha iniziato a redigere a inizio anno e che illustrano come cambieranno le attività sui banchi. Il tutto all’insegna della religione e dell’identità nazionale.
La parte più importante è quella che riguarda le «imam-hatip», le scuole vocazionali, un tempo riservate a chi voleva frequentare la facoltà di Teologia, e sdoganate dopo la riforma dell’istruzione del 2012, quando Erdogan era ancora premier. Secondo il ministero dell’Educazione, diventeranno «una delle più prestigiose istituzioni del sistema scolastico turco», gli istituti più qualificati per accedere all’istruzione universitaria.
Per prima cosa, lo studio del fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Atatürk, sarà ridimensionato. Le discipline insegnate andranno dagli Studi islamici, alle arti, dalle lingue straniere allo sport. Obiettivo principale di queste scuole è «assicurare la continuazione dei valori nazionali, culturali e morali e trasmetterli alle generazioni future». Per questo, oltre allo studio, saranno organizzate attività extra curriculari, per instradare i giovani ai valori «giusti» e tenerli lontani da «atteggiamenti negativi e immorali» o poco consoni a quelli del musulmano devoto.
Il processo è seguito da vicino dal ministero della Cultura, che ha definito le imam hatip «un movimento che parte dal basso». Tutti gli edifici costruiti dopo il 2012, sono stati costruiti in uno stile che ricorda l’architettura Selgiuchide-Ottomana. Non solo. Fra i corsi di studio supplementari che vengono altamente incentivati ci sono l’arte della tradizione e calligrafia araba. Nei giorni scorsi Erdogan è tornato a rispolverare un’idea già lanciata nel 2004 che prevede l’insegnamento dell’ottomano e l’eliminazione delle parole di derivazione occidentale – ce ne sono soprattutto dal francese – nell’utilizzo quotidiano.
Un fenomeno in forte crescita e che, se proiettato a dieci anni, dà un’idea della Turchia del futuro. Dal 2012, il numero di studenti che ha scelto questo indirizzo è lievitato. Per quanto riguarda le scuole medie, alle quali si accede a 10 anni, e che sono state create ex novo nell’anno scolastico 2012-2013, gli istituti confessionali erano 730 per un totale di 94 mila studenti. Nell’anno 2015-2016 sono diventati 1622, per un totale di 458 mila alunni. Nei licei, il fenomeno è ancora più tangibile. Se nel 2002-2003, anno in cui Erdogan ha preso il potere, erano 450 (71 mila studenti), nel 2015-2016 si è arrivati a 1149 sedi e 555 mila iscritti. Boom anche alla facoltà di Teologia, dove le matricole sono passate in pochi anni da 17 mila a 100 mila. In 5 anni sono stati segnalati decine di casi di scuole laiche trasformate in Imam-Hatip dalle autorità, spesso senza lasciare ai genitori scuole alternative per i loro figli.

La Stampa 9.7.17
Il partito di opposizione laica
Dopo 24 giorni la «Grande Marcia» arriva sul Bosforo

Ultime 24 ore per la «Marcia per la giustizia» da Ankara a Istanbul, avviata il 15 giugno dal partito di opposizione laica Chp, prima forza di opposizione al presidente Erdogan, all’indomani dell’arresto del suo deputato Enis Berberoglu. Guidati dal leader Kemal Kilicdaroglu, al 24° giorno di cammino, i manifestanti sono arrivati ieri sul Bosforo, dopo aver percorso circa 400 dei 430 km totali previsti dal percorso. In 300 mila ieri facevano parte del corteo. Domani arriverà nel quartiere di Maltepe, periferia di Istanbul, dove si trova la prigione in cui è detenuto Berberoglu. Alle 18 (le 17 in Italia) è prevista una manifestazione conclusiva, in cui gli organizzatori si aspettano un milione di persone. Ieri anche il partito filo curdo dell’Hpd ha detto che parteciperà al meeting.

Corriere 9.7.17
Turchia, rivolta dell’opposizione «Marciamo per la giustizia»
Erdogan: «Proteggono i terroristi»
di Monica Ricci Sargentini

«Nella nostra società ci sono molte vittime e noi siamo diventati la loro voce». Nessuno in Turchia avrebbe scommesso che il 68enne Kemal Kiliçdaroglu, l’ex burocrate alevita finora così riluttante a scegliere la piazza, si sarebbe messo a capo di tutti quelli che vogliono dire basta. Basta con gli arresti di massa che hanno portato in carcere 50 mila persone, basta con i licenziamenti dei sospetti gulenisti, basta con lo stato di emergenza, la chiusura di giornali e siti internet. A un certo punto il leader del Chp, il maggior partito dell’opposizione che detiene il 25% dei consensi, ha deciso che le sue armi convenzionali, quelle parlamentari, erano ormai spuntate e ha marciato insieme a decine di migliaia di persone da Ankara ad Istanbul percorrendo 430 chilometri in 25 giorni per chiedere «Hak, Hukukk, Adalet» (diritti, legge, giustizia).
La «Marcia per la Giustizia» si concluderà oggi con un comizio finale nel quartiere di Malpete ad Istanbul dove è rinchiuso il deputato del Chp, Enis Berberoglu, condannato a 25 anni di reclusione il 14 giugno scorso per aver divulgato segreti di Stato nel caso del presunto trasferimento di armi turche ai ribelli siriani.
È attesa una folla oceanica, circa un milione e mezzo di persone, secondo le previsioni degli organizzatori. «Questa è una crisi senza precedenti nella storia della nostra repubblica — ha detto Kiliçdaroglu in un messaggio diffuso alla vigilia del comizio finale —. Noi stiamo marciando per ristabilire la democrazia, la giustizia e le libertà fondamentali che abbiamo conquistato a così caro prezzo. Noi marciamo per denunciare un regime autoritario che si cela sotto una parvenza di democrazia. La nostra marcia finirà alle porte della prigione di Istanbul che ospita così tante vittime del regime. Ma speriamo che segni l’inizio di un nuovo movimento, la cui voce risuonerà al di fuori dei nostri confini».
Sicuramente una protesta così non si vedeva da tempo in Turchia. Alcuni l’hanno paragonata a quella del 1991 ad Ankara dove oltre 100 mila minatori turchi scesero in piazza per reclamare i loro diritti o al più noto cammino di Gandhi nel 1930 contro l’impero britannico. Come è successo anche in occasione del referendum costituzionale, perso per un soffio, anche questa volta l’opposizione dà segnali di unità.
Oggi al comizio finale parteciperanno anche i rappresentanti dell’Hdp e alla protesta si era unita nei giorni scorsi Meral Aksener, l’esponente nazionalista che aveva sfidato la leadership di Devlet Bahçeli nell’Mhp e alla fine era stata costretta a lasciare il partito. «È un segnale di svolta — ha detto in un’intervista al New York Times Aykan Erdemir, ex parlamentare del Chp che ora lavora come analista a Washington —. Ci sono stati più volte appelli da parte di diversi segmenti dell’opposizione turca perché il Chp portasse nelle strade la politica dagli stretti confini del parlamento».
Il governo, però, respinge al mittente le critiche. «La protesta di Kiliçdaroglu è solo un modo per proteggere i terroristi», ha tuonato nei giorni scorsi il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che continua a sostenere la necessità delle misure di emergenza e degli arresti di massa per mettere al sicuro il Paese dopo che, quasi un anno fa, i golpisti tentarono di prendere il potere con le armi.

il manifesto 9.7.17
La Turchia che sfida Erdogan: una marcia, tante giustizie
Da Ankara a Istanbul. Operai, minatori, giornalisti, impiegati, familiari di detenuti, ultrà: ognuno porta in strada la sua storia. La protesta indetta dal partito repubblicano arriva a Istanbul, dopo 480 km: 100mila i partecipanti
La marcia per la giustizia arrivata a Istanbul dopo 480 km
di Dimitri Bettoni

ISTANBUL La colonna in marcia compare oltre la curva dell’asfalto della superstrada D100, sotto il sole già bollente delle nove, mitigato appena dalla brezza che ha spazzato via l’afa asfissiante dei giorni scorsi.
In testa uno stuolo di mezzi della sicurezza, file interminabili di nere divise della polizia e tute mimetiche dell’esercito con fucili da combattimento imbracciati.
Ma prima di tutto c’è una bandiera, con i colori giallo e rosso di un’amatissima squadra di calcio di Istanbul, al cui centro campeggia l’immagine di Mustafa Kemal Ataturk, padre della repubblica turca.
È suo il volto che apre la strada ad una marcia di protesta che, superati i 400 chilometri di distanza dalla capitale Ankara, si appresta a consumare gli ultimi rimasugli di percorso e che oggi raggiungerà destinazione, il distretto di Maltepe.
LÀ SI TROVA LA PRIGIONE in cui è rinchiuso Enis Berberoglu, parlamentare del partito repubblicano finito in carcere con l’accusa di aver divulgato segreti di Stato, fotografie che provano il trasferimento di armi in Siria ad opera dei servizi segreti turchi. Il suo arresto ha dato il la a una marcia di protesta e rivendicazione della giustizia con pochi precedenti nel paese.
La folla sfila interminabile e ordinata, scorre come un placido fiume sotto i ponti e i cavalcavia da cui altri cittadini osservano incuriositi: lanciano grida di sostegno, applaudono, sventolano la bandiera nazionale o l’effigie di Ataturk.
Qualche individuo isolato invece ostenta il proprio disaccordo, inneggia al presidente Recep Tayyip Erdogan, mostra il segno dell’ultranazionalismo turco dei lupi grigi o quello a quattro dita dei Fratelli musulmani.
I MANIFESTANTI in marcia non si scompongono, l’ordine di non reagire alle provocazioni è ben recepito e in risposta giungono soltanto applausi e cori: l’inno nazionale, qualche canto della guerra di indipendenza, il mantra cadenzato che ripete «hak, hukuk, adalet», diritto, legge, giustizia.
Alla giustizia è infatti dedicata questa marcia che Kemal Kilicdaroglu, capo del partito repubblicano Chp, ha voluto per protestare contro l’appropriazione degli organi giudiziari da parte del governo.
Commenta il leader Kilicdaroglu: «Ci hanno tolto il parlamento», in riferimento al referendum del 16 aprile scorso che rafforzato la presidenza, «ora cerchiamo giustizia nelle strade».
LA FOLLA IN MARCIA è riunita sotto il colore bianco di magliette e cappelli che recitano adalet. Assenti bandiere e simboli di partito, banditi dagli organizzatori per svincolare l’iniziativa da logiche di appartenenza, «perché adalet, giustizia, è un bene comune», dicono gli uomini e le donne in marcia.
Eppure in questo fiume bianco convivono anime molto diverse tra loro, in un modo che per certi versi ricorda i più colorati e vibranti giorni di parco Gezi.
Spicca la folta barba e il viso segnato dalle rughe di Veysel «Amca» Kilic, personaggio lontano dal kemalismo secolare targato Chp, dato che è per sua stessa ammissione vicino a Milli Gorus, movimento politico islamista in cui Erdogan ha militato.
Il figlio di Kilic, Sebahattin, è tra i quasi 400 cadetti dell’aeronautica militare in carcere da quasi un anno. «Ma io non mi fido della supposta indipendenza di questa magistratura. Voglio adalet, giustizia, in questo paese; voglio vivere libero nella mia Turchia».
ACCANTO C’È AYTEN, madre di un altro di quei cadetto. I cartelli che porta chiedono giustizia anche per i soldati morti nel corso del tentato golpe e dimenticati da uno stato selettivo nella memoria: «Anche i nostri figli sono vittime di quanto accaduto un anno fa e per essi chiediamo adalet, giustizia».
Il leader del partito repubblicano Kemal Kilicdaroglu (Foto Reuters)
Il leader del partito repubblicano Kemal Kilicdaroglu (Foto Reuters)
Ci sono gli elmetti bianchi dei lavoratori e le sigle sindacali, per i quali «adalet deve tornare anche sul lavoro», perché le purghe di Erdogan non riguardano solo il carcere in cui sono finiti in migliaia, ma anche gli innumerevoli posti di lavoro perduti e l’impossibilità di trovarne un altro.
CI SONO LE FAMIGLIE dei minatori di Soma, località simbolo di tragedia nel mondo del lavoro in attesa per i loro morti di adalet, giustizia. Lavoratori sono anche i giornalisti e marciano quelli del quotidiano Sozcu, chiedono che «il giornalismo non sia un crimine, perché senza giornalismo libero non c’è adalet».
Marcia chi dedica i propri passi a Semih Ozakca e Nuriyeh Gulmen, in carcere per aver iniziato uno sciopero della fame per riavere il loro posto di lavoro e che ha ormai oltrepassato i 110 giorni. Marciano i gruppi del tifo calcistico organizzato.
Marciano uomini in giacca e cravatta e ci ricordano «come non c’è adalet quando è in vigore lo stato di emergenza», che cancella la certezza del diritto e rende tutto confuso e arbitrario.
SORPRENDONO I NUMERI imponenti raggiunti dalla marcia che secondo la procura ha ormai superato i 100mila partecipanti, un successo se si considera che a partire da Ankara il 15 giugno erano poche migliaia.
Sorprende di più constatare l’assenza totale di incidenti, timore in principio più che plausibile e fortunatamente svanito chilometro dopo chilometro, in ossequio al principio di disobbedienza civile e pacifica che ha portato molti commentatori a paragonare la marcia a quelle di Gandhi in India.
Certo, quest’ultimo non camminava scortato da qualche decina di poliziotti come il redivivo Kilicdaroglu che oggi percorrerà gli ultimi tre chilometri verso la prigione da solo, capitolo finale di un’iniziativa da cui esce enormemente rafforzato dopo mesi di critiche alla sua passività.
La vera domanda è quale sarà il prossimo passo di Kilicdaroglu, quale il destino della marcia. Erdogan, dopo gli strali iniziali lanciati, ha consentito lo svolgimento dell’iniziativa mentre prepara le celebrazioni dell’anniversario del tentato golpe del 15 luglio, una probabile dimostrazione di forza a colpi di gente nelle strade.
CAPITALIZZERÀ su questa marcia, considerandola la dimostrazione che in Turchia vive ancora adalet, nonostante in oltre 100mila abbiano marciato dicendo il contrario. Quattro anni fa il vivace fuoco di Gezi è stato spento dagli idranti e i lacrimogeni della polizia. Può il lento fluire di questo fiume che invoca giustizia vedere un finale diverso?

Corriere 9.7.17
Spianata delle moschee riaprirla è segno di distensione
risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
sono stata a Gerusalemme. La cosa che mi ha colpito è il fatto che andando alla Spianata delle Moschee non ci è stato consentito di entrare, in quanto appartenenti ad altra religione. Nelle nostre chiese nessuno si sognerebbe di non fare entrare persone di altre religioni.
Angela Lanzo Martirano Lombardo

Cara Angela,
Non è stato sempre così. Ci fu un tempo in cui alla Spianata delle Moschee si poteva accedere liberamente. Poi fu proibita ai non musulmani, il che rappresenta un grave errore, perché non fa che rinfocolare le tensioni religiose che pervadono quella città e quella terra. Purtroppo, l’impressione è che alla pace non creda ormai più nessuno. Ci siamo illusi che sarebbe giunta con un trattato, poi per sfinimento. Ma non è arrivata in nessuno dei due modi.
La prima volta che entrai nella Gerusalemme vecchia era il 1993. Era notte, ero con un gruppo di pellegrini, la porta di Damasco sembrava il cancello del paradiso. Era l’anno di Oslo, grazie a Rabin la pace pareva davvero a portata di mano. Una pattuglia di soldati israeliani sorvegliava la casa di Sharon che aveva issato la bandiera con la stella di David in mezzo agli arabi: i soldati stessi ne parlavano come di un estremista che rappresentava una sensibilità esistente ma minoritaria. Due anni dopo Rabin venne assassinato. Tornai nel 1999, al governo c’era Barak, un soldato che alla pace credeva. Nel 2003 il lavoro mi riportò a Gerusalemme: premier era Sharon, che però non era più considerato un estremista, anzi il ritiro da Gaza da lui voluto accese grandi speranze, oltre all’opposizione dei coloni. Tornai l’ultima volta nel 2005, per raccontare l’elezione del presidente palestinese Abu Mazen, considerato l’uomo del dialogo. Si pensò che, tolto di mezzo Arafat, l’accordo sarebbe stato possibile. Non è andata così. Ricordo di quei giorni la visita al campo profughi dove le ruspe israeliane stavano abbattendo la casa di un kamikaze, un’intervista con il grande storico Benny Morris, preveggentemente pessimista, e l’incontro con il cardinal Martini. Entrai nella sua stanza, fuori le mura della città vecchia, mentre uscivano i padri e le madri del «Parents Circle», un’associazione sostenuta da Martini che faceva incontrare i genitori delle vittime dello scontro, israeliani e palestinesi insieme. Un segno di pace prezioso, una delle tante speranze che non hanno ancora dato frutto. Riaprire la Spianata delle Moschee sarebbe un segno di distensione importante.

il manifesto 9.7.17
Libertà di movimento e accoglienza degna: 100mila ad Amburgo
Manifestazione finale. Ultimo giorno di vertice e grande manifestazione: un arcobaleno di colori e idee contro il modello proposto dai «Venti Grandi»
Un momento della grande manifestazione di ieri ad Amburgo
© La presse
Giuseppe Caccia AMBURGO
Edizione del
09.07.2017
Pubblicato
8.7.2017, 23:59
Doppio successo per «Solidarietà senza confini», la manifestazione che ha chiuso cinque giorni di proteste contro il vertice dei G20 ad Amburgo.
Centomila per alcuni i partecipanti, 80mila per altri, 76mila nell’annuncio ufficiale degli scrupolosi organizzatori. Comunque tante e diverse persone hanno saputo sconfiggere la paura, creata da esponenti governativi e dai media nazionali e locali, dopo gli scontri della notte.
MIGLIAIA DI GIOVANI avevano infatti tenuto impegnate le forze dell’ordine per almeno quattro ore, tra venerdì e sabato, in un vero e proprio «riot urbano»: erette e incendiate diverse barricate nel quartiere di Sternschanze, la polizia tenuta lontana dal lancio di sassi e due supermercati interamente saccheggiati. Al di là del contributo di alcuni gruppi organizzati, è stato evidente il coinvolgimento attivo di migliaia di giovani abitanti di Amburgo, prevalentemente immigrati di seconda generazione, in una sorta di «carnevale di riappropriazione e autodifesa delle strade» dal dispositivo di militarizzazione, che si era visto all’opera negli ultimi giorni.
Solo verso le due del mattino gli apparati di sicurezza sono riusciti a riprendere il controllo della situazione: con ripetute cariche, l’uso degli idranti e il lancio massiccio di gas lacrimogeni e irritanti, ma anche con il rastrellamento di interi isolati, a mitra spianato, ad opera dei reparti speciali Sek.
PESANTE IL BILANCIO della nottata: secondo fonti ufficiali, sono 213 gli agenti feriti, un centinaio i manifestanti (ma molti hanno preferito rivolgersi per le cure alla Sani autogestita), per fortuna nessuno in modo grave, e 203 le persone fermate. Questo clima non ha scoraggiato, anzi, quanti si sono presentati, a partire dalle 11 di sabato mattina, in Deichtorplatz. La stessa composizione del corteo ha saputo esprimere tutta la ricchezza di contenuti della mobilitazione anti-G20. Ad aprire la marcia la rappresentanza delle delegazioni internazionali presenti ad Amburgo: tra questi i greci della rete Diktyo e del City Plaza occupato, i sindacalisti francesi di Sud-Solidaires, molti attivisti scandinavi e olandesi. Poi, forte di almeno 7.000 presenze lo spezzone delle comunità curde in Germania, molte donne e molti giovani, uniti sotto le parole d’ordine del «confederalismo democratico», pronti a difendere l’esperienza della Rojava autonoma e a denunciare le ambigue relazioni tra il governo Merkel e il regime del sultano Erdogan. Subito dopo, in più di diecimila, le attiviste e gli attivisti delle reti di movimento «post-autonome» tedesche, la «Sinistra Intervenzionista» e «Ums Ganze», protagonisti della giornata dei blocchi di venerdì e, a seguire, i gruppi autonomi e anarchici di «Welcome to hell».
PARTICOLARMENTE VIVACE, come da tradizione, il blocco dei tifosi del Sankt Pauli, il cui stadio è stato uno dei punti di riferimento per la preparazione nell’ultimo anno della protesta contro il vertice. Significativo lo spezzone dei movimenti dei migranti e delle associazioni di solidarietà, a partire da quelle impegnate anche nel Mediterraneo, come Sea Watch e Jugend Rettet, a marcare come la questione della libertà di movimento, dell’apertura dei confini e di un’accoglienza solidale e degna, sia tema decisivo di qualsiasi proposta politica globale. Poi arrivava l’arancione di Attac; le «tute bianche» dei movimenti contro i cambiamenti climatici e per una radicale conversione ecologica del sistema produttivo nella coalizione Ende Gelände; le bandiere rosse del partito die Linke; gli striscioni del sindacato Ver.di, dei metalmeccanici della Ig Metall e di alcune sezioni della stessa confederazione Dgb.
Un arcobaleno di colori e di proposte di rottura con il modello rappresentato dai Venti Grandi e in sostanza difeso da un corteo, «Hamburg zeigt Haltung», convocato dai socialdemocratici e associazioni collaterali in nome di un generico «sostegno ai diritti umani», che avrebbe voluto controbilanciare le contestazioni, ma che ha raccolto circa 4mila partecipanti.
DA SEGNALARE provocazioni della polizia: un attacco con gli idranti ai margini della piazza conclusiva e, soprattutto, diversi controlli, perquisizioni e fermi nei confronti di attivisti che venissero riconosciuti come «italiani, francesi o spagnoli». Inutili arroganze, a lavori del summit ampiamente conclusi, di cui ha fatto le spese anche l’europarlamentare della Lista Tsipras, Eleonora Forenza (poi rilasciata; mentre scriviamo altre persone sono ancora in stato di fermo).
Ma al di là di questo, la riuscita della manifestazione della «Solidarietà senza confini» ha degnamente concluso una settimana di mobilitazione e lotta capace di mostrare, in modalità assai differenti fra loro, un campo ricco di proposte alternative all’esito, semplicemente disastroso, del vertice dei G20. Come tali conflitti e tali alternative siano capaci di connettersi, convergere e costruire forza comune, in modo da riequilibrare, se non rovesciare, i rapporti di potere dati, è questione strategica ancora tutta da affrontare.

Repubblica 9.7.17
La rabbia dei nativi digitali “Questo sistema ci esclude”
Anarchici, naziskin, centri sociali: dietro alle violenze gruppi diversi Uniti dall’odio verso il potere
di Giampaolo Visetti

AMBURGO. Marko Koch scaglia una biglia di acciaio contro la vetrina della drogheria Budnikowsky. Il cristallo si incrina e sei ragazzi vestiti di nero lo sfondano con le spranghe. Nel quartiere di Sternschanze sono le tre di notte e la gente si affaccia muta alle finestre. Un commando di incappucciati strappa il bancone di legno con la cassa e lo getta sulla Bleicher Strasse. Si crea una piramide di biciclette, tavolini da bar, scatoloni, ombrelli, e sacchi pieni di rifiuti. Tocca proprio a Marko, 19 anni, studente di ingegneria a Tubinga, dare tutto alle fiamme con una bottiglia di profumo.
Il cuore di una Amburgo in stato di guerra da tre giorni, è ostaggio del terrore. Tra i quartieri di Sternschanze, Altona e Sankt Pauli migliaia di anti-G20 saccheggiano la seconda città della Germania. La generazione digitale che sogna una globalizzazione meno ingiusta, si scopre improvvisamente dissanguata dalla vena bucata di una violenza antica, che non riesce a capire, né ad arginare. Non ci sono leader, in ristoranti, supermercati e negozi devastati da migliaia di ragazzi, nascosti sotto i cappucci delle felpe e i passamontagna. Nessuna idea politica dominante, obbiettivi comuni, ideologie storiche, destra e sinistra. A combattere fianco a fianco contro gli oltre 20mila poliziotti che difendono i ”padroni del pianeta” ci sono black bloc, anarchici, estremisti di sinistra, naziskin, autonomi, centri sociali, neonazisti, professionisti della guerriglia e infiltrati dei servizi. Ogni gruppo, arrivato sull’Elba da tutta Europa per «scatenare l’inferno durante il G20», ha la propria lotta. Si incontrano grazie ai social, imparano sul web come armarsi sfruttando sampietrini e mattoni strappati alla strada. Un solo fine condiviso: attaccare «un sistema che ci esclude e che ci umilia», causando il «massimo dei danni mentre tutto il mondo ci guarda».
I radicali di sinistra del centro «Rote Flora», storica roccaforte alternativa di Sankt Pauli, hanno scelto ad esempio di bruciare auto. Dovevano essere un paio, ma in poche ore i roghi arrivano a 70. Anche il movimento ora è diviso. «Un grande errore – dice il portavoce Andreas Blechschmidt – abbiamo colpito persone qualsiasi, magari povere come noi». La situazione è sfuggita di mano ad autorità e polizia, ma pure al liquido gassoso in cui ormai nuotano solitarie le cellule esplose di quello che fu lo storico pacifismo no global. Ai movimenti sono succeduti i gruppi e dentro questi si muovono i nuovi singoli ”no policy”, isolati ma mobilitati a distanza dalla Rete: incontrollabili per gli apparati di sicurezza nazionali, ma pure per chi sceglie i palcoscenici del nuovo ”terrore del dissenso”. L’etichetta degli scontri ad Amburgo è l’”anti-capitalismo”. Ma dentro, la solidarietà convive senza problemi con il razzismo, l’accoglienza con la xenofobia, il nazionalismo con l’ambientalismo, il pacifismo con la violenza, la religione con l’ateismo. All’implosione ideale dei Grandi, corrisponde quella culturale di chi distrugge per denunciare i loro fallimenti. «Gli attacchi – dice Hartmut Dudde, trent’anni di carriera nella polizia della metropoli sull’Elba – hanno raggiunto una dimensione ignota per l’Europa. Ormai, nelle grandi occasioni mediatiche, non basta controllare le proteste. Dobbiamo prepararci ogni volta a una vera e propria guerra ».
Ad Amburgo, è chiaro, l’apparato della sicurezza ha fallito. I media tedeschi attaccano sia la cancelliera conservatrice Angela Merkel che il sindaco socialista Olaf Scholz. Si chiedono come «è potuto succedere», ma pure «chi sono davvero i nostri ragazzi». Il bilancio è quello di un micro-conflitto: 300 agenti feriti, centinaia di dimostranti in ospedale, 290 arresti, centinaia di locali distrutti e saccheggiati. Sequestrate decine di «armi di varia natura». In un Paese blindato dall’incubo del terrorismo islamista, sono poi i giovani studenti e i disoccupati europei a devastare. «Ma pure la polizia – accusa Flora Leber, 21 anni del gruppo Netzwerk Attac – ha una strategia inedita per l’Occidente. Pesta chi dissidente prima ancora che si muova, semina il terrore con i video e scatena la vendetta dei criminali. Al G20 l’obbiettivo era indebolire con l’incubo della violenza le manifestazioni finali, delegittimando la maggioranza che si oppone pacificamente ai nuovi autocrati globali ». Sulla Germania resta così l’ombra di una dèbacle che si allunga su tutta l’Europa, inchiodando il «vecchio sistema», ma pure la «giovane resistenza». Vincitori qui non ce ne sono. Questa guerra finisce all’alba. Marco Koch si dichiara «anti-politico» ed è felice di «aver mostrato a tutti che i ragazzi in Europa sono stanchi e possono diventare pericolosi anche senza padrini e partiti alle spalle». Con due amici si fa un selfie sotto gli idranti degli agenti, in un fumo spesso, davanti al rogo dell’ultima auto che brucia.

Repubblica 9.7.17
G20, la marcia di De Blasio “Esiste un’altra America”
Il sindaco di New York al corteo. Arrestati 15 italiani: fra loro eurodeputata di Sinistra unitaria Il Nyt rivela: dopo la nomination l’incontro tra il figlio di Trump e un avvocato vicino al Cremlino
di Gp. V.

AMBURGO. Dopo la notte del saccheggio anti- G20, Amburgo e la Germania nell’ultimo giorno del summit hanno opposto ai Grandi il popolo pacifista che chiede «un mondo più giusto per tutti». Nella città blindata e ancora devastata sono sfilate oltre 20mila persone, riunite nella manifestazione «Solidarietà senza confini nonostante il G20», organizzata da associazioni, chiese e partiti della metropoli.
Nel lungo corteo, che ha raggiunto il mercato del pesce dove giovedì era stata annullata per le violenze la prima dimostrazione, anche famiglie e anziani, lavoratori e ragazzi, tutti con i palloncini della pace da «lasciar volare verso i leader che alimentano un pianeta ridotto ad un inferno ». Solo un’ora di paura, con lo spettro di ripiombare negli scontri. La polizia ha bombardato e disperso con gli idranti ad acqua un centinaio di giovani vestiti di nero: circondavano un furgone oscurato che procedeva in mezzo alla folla. «Quando diciamo benvenuti all’inferno ai lobbysti del capitalismo selvaggio – dice Ultich Martin, del collettivo No G20 – non minacciamo nessuno. Vogliamo spiegare al mondo che noi, cioè la maggioranza, viviamo già all’inferno».
La star della manifestazione è stata Bill de Blasio, 56 anni, sindaco di New York. Ha camminato sorridente tra la gente senza dire una parola, un breve saluto alla fine, prima di parlare invece all’agenzia Usa Bloomberg, proponendosi come il nuovo anti-Trump di un’America «che si vergogna di avere un presidente bugiardo». Intanto sul Russiagate il New York Times aggiunge un’altra tessera al complicato mosaico: secondo il quotidiano, Donald Jr, figlio del presidente, avrebbe incontrato nella Trump Tower, il 9 giugno 2016, due settimane dopo la conquista della nomination repubblicana da parte del padre, un avvocato russo noto per i suoi legami con il Cremlino. All’incontro, sostiene il giornale, avrebbero partecipato anche l’ex capo della campagna Paul Manafort e il genero di The Donald, Jared Kushner. Lo stesso Donald jr si è reso protagonista ieri postando sul suo account Twitter un video-parodia in cui il padre, nelle vesti di Top Gun, abbatte un aereo con il logo della Cnn.
Mentre i leader lasciavano la Germania, è stata arrestata e rilasciata «grazie all’immunità» l’europarlamentare Eleonora Forenza, fermata assieme ad altri 15 attivisti italiani. Nei giorni scorsi la politica barese aveva pubblicato su Facebook post e immagini delle manifestazioni, con la scritta «blocchiamo i flussi del capitale».
( Gp. V.)
Tre giorni di guerriglia hanno devastato la città Ieri però le proteste si sono chiuse in modo pacifico
SINDACO IN TRASFERTA
Il sindaco di New York, Bill de Blasio, alla manifestazione pacifista di Amburgo

La Stampa 9.7.17
Il flop trionfale di Ramesse II
Tra Egiziani e Ittiti la prima battaglia della storia La propaganda del faraone ne fece una gloriosa epopea ma si concluse con tante vittime e un nulla di fatto
di Maurizio Assalto

«Ti invoco, padre mio Amon. Sono nel mezzo di una folla sconosciuta. Tutti i paesi stranieri hanno fatto lega contro di me, e mi ritrovo solo, senza nessuno. Le mie numerose truppe mi hanno abbandonato e nessuno dei miei carristi si occupa di me. Ho un bel gridare verso di loro, nessuno intende i miei richiami. So che Amon mi sarà di maggiore aiuto che milioni di fanti, che centinaia di migliaia di carri, che diecimila fratelli e figli uniti nello stesso slancio».
Nel momento più drammatico della battaglia, quando tutto sembra perduto, dalla nube di polvere che oscura la piana di Qadesh si leva la preghiera del giovane Ramesse II al dio più potente del pantheon egizio, che nell’ideologia del potere faraonico è concepito come padre di tutti i sovrani. E il dio risponde. «Mi tese la mano, e me ne rallegrai. Mi parlò dietro le spalle, come se fosse vicino: “Coraggio! Sono con te. Sono tuo padre e ti darò man forte. Sono meglio di centomila uomini, sono il signore della vittoria e amo il valore!”».
In un giorno di fine maggio di un anno non ben precisabile all’inizio del XIII secolo a. C. - i calcoli cronologici sono discordanti, ma i più propendono per il 1274 - quello che passerà alla storia come il «faraone trionfante» fa le prime prove della propria epopea. A Qadesh, a metà strada tra Sinai e Anatolia, nella regione siriana, va in scena il grande scontro tra Egitto e impero ittita, le due superpotenze dell’epoca. Da una parte Ramesse, al quinto anno del suo lunghissimo regno, dall’altra il maturo Gran Re Muwatalli II.
Minuto per minuto
È la prima battaglia della storia: nel senso che è la prima di cui ci sia giunta documentazione scritta e visiva, e in grande copia, quasi un «tutto Qadesh minuto per minuto». Tanto che oggi, con qualche cautela, possiamo seguirne lo svolgimento nei minimi dettagli. E fa una certa impressione pensare che più o meno negli stessi anni un altro grande conflitto avvenuto alla periferia nord-occidentale di Hatti (come anche era noto l’impero ittita), ossia l’assedio degli aggressivi Ahhiyawa sul regno vassallo di Wilusa, dovette aspettare secoli per condensarsi nella mitologica guerra cantata da Omero. La cautela è imposta dalla considerazione che della epocale battaglia ci è giunta soltanto la versione egiziana, abbondantemente viziata dalle finalità propagandistiche del faraone, mentre nulla è rimasto da parte ittita - a meno che gli scavi di Tarhuntassha, la capitale di Muwatalli localizzata dieci anni fa, non restituiscano le tavolette degli archivi reali.
L’antefatto della battaglia di Qadesh era stata la campagna condotta da Ramesse un anno prima lungo la costa siriana per riprendere il controllo dei territori perduti ai tempi del «criminale» Akhenaton, il faraone monoteista su cui si era abbattuta la damnatio memoriae. Grande produttrice di grano e snodo cruciale nei rapporti commerciali tra Mediterraneo e Vicino Oriente, la Siria era suddivisa in piccoli regni, vassalli di volta in volta dell’Egitto o di Hatti. L’avanzata del faraone si era conclusa con la riconquista di Amurru, il regno che due generazioni prima aveva sottoscritto un trattato con Suppiluliuma, nonno di Muwatalli, e il cui re Benteshinna non aveva esitato a passare nuovamente dalla parte degli egiziani. Assicuratasi la costa, Ramesse poteva rivolgersi verso l’interno: adesso toccava a Qadesh.
Il faraone partì dalla sua capitale Pi-Ramesse, sul delta del Nilo, nella primavera dell’anno successivo, alla testa di un’imponente armata composta da quattro divisioni - ognuna delle quali contava circa 5000 soldati e 500 carri - che portavano i nomi delle divinità tutelari della città in cui erano di stanza, Amon, Ra, Seth e Ptah. A queste si aggiungeva un corpo di spedizione formato da uomini scelti a cui era stato affidato l’incarico di risalire la costa per convergere da Occidente al momento dello scontro, con una manovra aggirante, in modo da stringere i nemici in una tenaglia. In quanto guidati dal dio incarnato - il faraone, che aveva il potere di mantenere l’ordine nel cosmo nilotico e se il caso di estenderlo oltre confine, respingendo i barbari nel caos circostante - gli egiziani non potevano dubitare della vittoria.
Dopo aver percorso quasi 700 chilometri in un mese, Ramesse, alla testa della divisione di Amon, guadò il fiume Oronte e si accampò a Nord-Ovest di Qadesh, mentre le altre divisioni procedevano a distanza con qualche difficoltà nei collegamenti. E qui scattò la trappola di Muwatalli.
«Ucciderò, massacrerò...»
Secondo le convenzioni dell’epoca, le battaglie avevano uno svolgimento formale, che prevedeva la scelta del terreno da parte dei difensori: in questo caso gli Ittiti, che però agirono altrimenti. Mandarono avanti due beduini, che si consegnarono al faraone informandolo che il Gran Re si trovava nei pressi di Aleppo, a 190 chilometri di distanza. Invece l’esercito ittita, di cui le fonti egiziane enfatizzano la consistenza per farlo apparire molto più numeroso del loro, si era acquartierato già da qualche giorno a Qadesh antica, a tre chilometri dal nuovo insediamento.
L’attacco partì a sorpresa, il giorno 10, contro la divisione di Ra che aveva appena superato l’Oronte e fu in breve travolta dai micidiali carri nemici, i panzer dell’antichità. Quindi la soverchiante armata di Hatti si riversò sull’accampamento della divisione di Amon per chiudere la partita. E qui, in mezzo ai suoi soldati in rotta, Ramesse decise che il suo momento era venuto. Al fedele Menna che lo esortava a mettersi in salvo («Guarda, fanteria e cavalleria ci hanno abbandonato! Perché stai qui a proteggerli?»), il faraone rispose con regale imperturbalità: «Sii fermo, rincuora te stesso, o mio scudiero! Io agirò per loro come l’artiglio di un falco, ucciderò, massacrerò, li getterò al suolo!».
Con una serie di efficaci contrattacchi, e grazie all’arrivo del corpo di spedizione proveniente dalla costa, Ramesse riuscì a fermare il nemico. «Sua Maestà sorse come suo padre Montu. Afferrò le armi da battaglia, infilò la cotta di maglia: era Baal in azione!». Per non restare intrappolati, gli Ittiti dovettero ripiegare disordinatamente oltre il fiume, dove molti, compresi due fratelli di Muwatalli, trovarono la morte. Al racconto degli scribi, nel Poema e nel Bollettino di Qadesh, fa puntuale riscontro la rappresentazione «cinematografica» sulle mura dei templi, da Abido a Karnak a Tebe a Abu Simbel, dove le diverse fasi della battaglia sono «montate» in modo da riempire ogni spazio, senza rispettare la successione cronologica: qua il faraone con il suo scudiero, là ancora il faraone nell’atto di tendere l’arco, e poi i cadaveri degli Ittiti nell’Oronte, e il re di Aleppo, loro alleato, appeso a testa in giù per fargli vomitare l’acqua ingurgitata nel fiume, le spie nemiche flagellate per farle confessare, gli scribi che annotano il numero delle mani sinistre amputate ai nemici uccisi, in una macabra contabilità.
Il giorno dopo, raggiunto anche dalla divisione di Ptah, fu Ramesse a prendere l’iniziativa dell’attacco. Ma ben presto ci si rese conto che i due eserciti, ormai sfiniti, non potevano continuare la battaglia. Muwatalli inviò una proposta di armistizio: «Guarda: ieri hai passato il giorno a uccidere centomila uomini e oggi sei ritornato e non risparmi gli eredi. Non portare troppo avanti il tuo vantaggio, re vittorioso! La pace è migliore della guerra». I generali egiziani, convocati dal faraone, concordarono: «La pace è il miglior bene, sovrano nostro signore! Non vi è colpa nella riconciliazione».
Il trattato di pace
Bisogna però ricordare che questa è la versione egiziana. Nonostante l’imponente apparato celebrativo dispiegato da Ramesse, la battaglia con tutte le sue vittime non era servita che a ribadire lo status quo. La linea di confine tra le due potenze non si era spostata, Qadesh restava in mano agli Ittiti, e dopo la ritirata dell’esercito egiziano anche Amurru era stata ripresa da Hatti. Muwatalli morì poco dopo, e il fratello Hattusili, che gli succedette spodestando il nipote, si premurò di stabilire buoni rapporti con Ramesse. I due re si scambiarono lettere e doni, e altrettanto fecero le loro spose principali, Nefertiti e Puduhepa.
Ma al trattato di pace vero e proprio si giunse soltanto nel 1259. Il testo ci è pervenuto sia nella versione egizia sia in quella ittita, riemersa dagli archivi reali di Hattusha, dove il nuovo sovrano aveva riportato la capitale. È il più antico documento esistente di questo genere. I due sovrani si giurarono «fraternità eterna», impegnandosi al rispetto dei confini e all’aiuto reciproco in caso di attacchi esterni o interni. Per il suo dosato equilibrio questo documento è considerato ancora oggi esemplare, e una sua copia è esposta nella sede delle Nazioni Unite a New York.

Corriere La Lettura 9.7.17
Le vicende dell’gitto dallla conquista musulmana in poi
Schiavi al potere, l’avventura dei mamelucchi
di Alessandro Vanoli

Quale senso ha nel terzo millennio sdraiarsi sul lettino, decidere di cominciare una terapia analitica? Tra le tante risposte a questa domanda ci piace citare un episodio contenuto nel libro di Antonino Ferro, Pensieri di uno psicoanalista irriverente , a cura di Luca Nicoli, uscito per Raffaello Cortina in Italia e in contemporanea da Karnac negli Stati Uniti e Gran Bretagna, dove in una settimana ha esaurito la prima tiratura.
Eccoci dunque all’episodio. Ricorda Ferro che durante i bombardamenti di Londra nella Seconda guerra mondiale, mentre i razzi tedeschi passavano sopra la sua casa, Melanie Klein continuava imperterrita a lavorare e interpretava i disegni del suo piccolo paziente sulle V2 come un attacco al seno materno. Un fanatismo professionale, un estraniamento dalla realtà? Le cose non stanno così secondo Antonino Ferro, presidente della Società psicoanalitica italiana (Spi) dal 2013 al 2017, membro permanente dell’Associazione di psicoanalisi americana e considerato il nostro maggiore analista a livello internazionale per le ricerche che rimandano a Wilfred Bion sul concetto di «campo» e sulle rêverie (il suo La stanza di analisi è stato tradotto in oltre venti lingue): «Quando l’analista è dentro la stanza di analisi — dice Ferro — deve rinunciare alla realtà esterna. Come ieri Klein addomesticava le V2 alle sue esigenze terapeutiche, così oggi non posso pensare all’Isis mentre sono in seduta, altrimenti diventerei un sociologo, rinuncerei alla mia funzione di terapeuta. La forza della psicoanalisi sta nel focalizzarsi su quanto avviene nella stanza di analisi, sul rapporto medico-paziente».
Questo libro, molto colto, non è scritto in un astratto linguaggio teorico, è una guida per gli analisti, ma forse soprattutto per i pazienti. La prima domanda nella scelta del terapeuta è la seguente: come faccio a non prendere una fregatura? «Bisogna informarsi, per esempio da un amico che ha già fatto analisi, o anche con l’aiuto dei siti internet delle maggiori associazioni, a cominciare dalla Spi, se l’analista prescelto ha avuto una formazione seria. Laureato in medicina o in psicologia? Non importa, l’importante è che abbia seguito un training , un’analisi approfondita. I colleghi statunitensi, sempre all’avanguardia, espongono negli studi i propri curricula».
L’altra domanda frequente è: a quale età si può andare in analisi? Quando è troppo presto e quando troppo tardi? «Certi dogmi sull’età giusta per andare in analisi sono un retaggio del passato. Oggi io ho in cura pazienti di pochi mesi, che magari hanno disturbi irrisolti dell’alimentazione o del sonno, e pazienti ottantenni. La psicoanalisi è il più efficace metodo di terapia della sofferenza psichica, a prescindere dall’età».
Ci si chiede anche se occorrano per forza 3-4 sedute o se ne bastino una o due alla settimana. «Nonostante io venga considerato un eversivo — risponde Ferro — sulle sedute mi attengo ai criteri classici. In linea generale credo si possa parlare propriamente di analisi soltanto a partire da tre sedute, necessarie per attivare quel processo di trasformazione che porta alla guarigione. Certo, ci sono anche buone psicoterapie analitiche di una o due volte alla settimana, ma non si tratta di Analisi con la A maiuscola».
Verrebbe da dire che con tre sedute o quattro alla settimana la psicoanalisi rimane una terapia per ricchi. «Dipende da dove ci ha portati la cicogna. Se siamo nati in Finlandia, il Servizio sanitario nazionale copre tutto per alcuni anni, in Svizzera e Germania viene rimborsato sino a un certo numero di sedute. In Italia è tutto privato, con l’eccezione di alcune assicurazioni, per esempio quelle degli industriali, dei parlamentari e parzialmente quella dei giornalisti».
Pensieri di uno psicoanalista irriverente contiene alcuni passi dissacranti che riguardano anche il padre fondatore e nume tutelare, Sigmund Freud. «Siamo tutti sulle spalle di Freud, ma è indispensabile storicizzarlo. Freud stesso era un innovatore che cambiava continuamente. Il fatto di farne un punto di riferimento rigido è fuori dal tempo».
Così come sono fuori dal tempo certi stereotipi dell’analista silente, che intimidisce il paziente e non gli augura nemmeno buona Pasqua. «L’analista muto, troppo compreso del suo ruolo, è uno stereotipo che appartiene al passato, è un residuato bellico. Se un paziente oggi mi chiede “dottore, lei ha la patente?”, non starei a dire “lei mi sta chiedendo se sono in grado di guidare la sua analisi”. Risponderei semplicemente che sì, la patente ce l’ho».
Se l’analista 2.0 è cambiato, nel senso di maggiore capacità di relazione emotiva con il paziente, in che modo è cambiato il paziente? «Una volta c’era l’isteria, oggi quasi scomparsa, poi c’è stato il periodo degli attacchi di panico, che corrispondono a emozioni che esplodono come bombe. Oggi sono più diffusi i pazienti di stampo depressivo. Naturalmente sto semplificando».
In quale senso si può parlare infine di crisi della psicoanalisi? In un brano del suo libro lei scrive: «Se il mondo si ostina a decretare la morte di Freud ogni cinque anni, probabilmente è perché non abbiamo celebrato noi il suo funerale. Perché non fare come con i propri cari defunti? Li si onora e li si ricorda, ma si prova a sopravvivere a loro, si va avanti». «Il cambiamento — risponde Ferro — è proprio di una scienza ben salda sulle proprie gambe». Una psicoanalisi salda anche di fronte alla crisi economica che dura da un decennio? «Certo, gli onorari non sono più quelli di una volta. Conosco alcuni colleghi giovani che prendono in casi di estrema necessità 20 euro a seduta. Ma la psicoanalisi resiste. A Pavia, dove vivo e lavoro, vent’anni fa eravamo due analisti, oggi siamo 25».

Corriere La Lettura 9.7.17
Sulle spalle di Freud, ignorando l’Isis
Lo psicoanalista Antonino Ferrero fa il punto sulla cura del disagio psichico
L’isteria oggi è qasi scomparsa, domina la depresione
di Dino Messina
melle edicole

Corriere La Lettura 9.7.17
La mia Ginny, adorabile bugiarda Racconto l’autismo normale
di Alessia Rastelli

«Possiamo sembrare diversi ma non lo siamo così tanto. Siamo normali. Proviamo le stesse emozioni degli altri. Ci spaventiamo. Ci sentiamo soli. Ci preoccupiamo». Lo scrive in un intervento dal titolo «Sono autistica e la mancanza di autentiche voci autistiche nei libri mi fa arrabbiare», pubblicato l’anno scorso dal «Guardian» nello spazio dedicato alle opinioni dei teenager , la lettrice Sara Barrett. Un testo in cui denuncia i limiti che secondo lei ci sarebbero ancora nei romanzi ispirati all’autismo, come il personaggio quasi sempre maschio, genio della matematica, che rappresenta comunque per gli altri un «problema».
Un punto di vista personale, ma che coglie alcune questioni sulle quali anche il mondo letterario e accademico ha iniziato a ragionare. E alle quali sembra dare alcune risposte, a distanza, un libro che arriva dagli Stati Uniti: A bocca chiusa non si vedono i pensieri (Harper Collins Italia), esordio dell’insegnante di Letteratura inglese e Scrittura creativa, Benjamin Ludwig, 43 anni. Un romanzo ispirato «alla mia esperienza di padre che nel 2009 ha adottato un’adolescente autistica», dice l’autore. Che della figlia non vuole rivelare il nome né mostrare foto: «Oggi ha 21 anni, le sue disabilità intellettive sono notevoli, voglio proteggerla».
In parallelo alla crescita delle diagnosi, nell’ultimo ventennio i libri sui disturbi dello spettro autistico sono aumentati. Memorie scritte da genitori o da ragazzi che affrontano in prima persona questa sfida, ma anche storie di fiction di autori terzi. Un successo internazionale è stato, nel 2003, il romanzo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon (edito in Italia da Einaudi): voce narrante il 15enne Christopher, affetto dalla sindrome di Asperger. Più recente, Se ti abbraccio non aver paura (Marcos y Marcos, 2012) di Fulvio Ervas, sul viaggio col padre di Andrea Antonello: ragazzo autistico poi autore di Baci a tutti (Sperling & Kupfer, 2015), in cui racconta il suo mondo. Così come Pier Carlo Morello in Macchia (Salani, 2016).
Numerosi pure i titoli all’estero, su cui, specie in Inghilterra e negli Stati Uniti, si è avviata una riflessione teorica, che è anche un antidoto al rischio di uno sfruttamento commerciale del tema. Importante, nel 2007, l’opera Autism and representation (Routledge), a cura del professore americano di inglese e cinema, Mark Osteen, scaturita da un convegno alla Case Western Reserve University di Cleveland (Ohio). Lo studio promuove il fiorire dei libri sull’autismo perché favorisce più consapevolezza nella società. Ma incoraggia a riflettere su che tipo di rappresentazioni ne vengano date. Pur comprendendo, nel caso della fiction, le necessità della trama, il libro invita a costruire un’immagine più «normalmente autistica» di chi è affetto dal disturbo: un individuo «non sempre dotato, come per compensazione, di un dono straordinario ma, come tutti, di un misto di abilità e disabilità».
Lo stesso spirito di Sara Barrett. E di A bocca chiusa non si vedono i pensieri . «Molti credono — osserva l’autore — che gli individui con autismo siano geni o eruditi. O che le persone con disabilità siano tutte “sante”. Ginny Moon, la mia protagonista autistica di 14 anni, anche lei adottata, imbroglia, mente, ruba. Spinta dai suoi bisogni, è meravigliosamente scorretta, libera e prigioniera allo stesso tempo delle sue percezioni». Il tema semmai, nota Ludwig, è «fino a che punto una persona con disabilità intellettive è responsabile delle sue azioni. È difficile capire se sta decidendo attivamente di compiere una scelta immorale o se è la disabilità che la porta a sbagliare».
Il romanzo, che racconta l’ambientamento di Ginny nella nuova famiglia, vive di questo continuo scarto. La narrazione in prima persona della ragazza — come ne Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, con analoghe e felici scelte linguistiche, mimetiche del pensiero della protagonista — ci consente di conoscere le ragioni delle sue azioni, l’ansia che la ossessiona, dovuta in parte al suo disturbo, in parte agli «strascichi» della precedente vita con la mamma biologica. Ginny si tormenta le dita, conta e compila liste per tranquillizzarsi, decifra in modo letterale un mondo che parla per metafore, arriva a scappare di casa. Ma né i genitori adottivi né l’efficace psichiatra — imperfetto deus ex machina — ne intuiscono le reali motivazioni, in un crescendo di tensione che coinvolge e suscita empatia nel lettore, che invece sa.
«I destinatari sono sia gli adulti sia i ragazzi. Molti insegnanti hanno condiviso il libro con gli studenti», dice l’autore. In effetti, se la delicatezza della storia conquista i grandi, la serie di avventure (avvincenti ma forse poco realistiche) di Ginny sembra più adatta al pubblico giovane.
Riesce la scelta di far vivere alla protagonista una sorta di viaggio di formazione attraverso le parole: via via Ginny impara a esprimere i pensieri senza più tenere la bocca chiusa per paura che escano scomposti e incontrollati. «La sua voce si caratterizza per il coscienzioso studio del linguaggio», conferma Ludwig. E così a pagina 40 la protagonista ammette: «È difficile parlare di come mi sento. Fa parte della mia disabilità ». Mentre a pagina 426 finalmente si riconosce: «Anche se provengo da un altro posto e la mia testa è diversa, ho ancora il mio nome e i miei occhi sono ancora verdi».
In più, rispetto ad altre storie sull’autismo, c’è il tema dell’adozione, realmente vissuto dai Ludwig. «Gestire il disturbo di nostra figlia — racconta lui — è stato meno drammatico che nel romanzo». Ma tre le criticità, confessa, c’è stato il legame con la madre biologica. «Voleva tornare da lei, è normale», dice il padre adottivo. Come Ginny che nel libro fa di tutto per rivedere l’«inaffidabile» Gloria. «Nella realtà a 18 anni abbiamo aiutato nostra figlia a incontrare la mamma — ricostruisce Ludwig — e ora hanno un rapporto sano. Tutti possono cambiare».
La ragazza intanto ha raggiunto i primi traguardi. «La scuola è stata una battaglia — dice il padre — ma si è diplomata con i compagni di classe. Poi ha ottenuto il primo lavoro. Non dimenticherò mai quanto era orgogliosa nella sua uniforme del negozio di alimentari. Ha raggiunto molto, molto di più di quanto ci era stato detto che avrebbe potuto ottenere».

Corriere La Lettura 9.7.17
Napoleone contro i bulli
Una saga sull’Imperatore e il suo rivale Wellington
di Luca Morganti

Lo sappiamo tutti, la macchina del tempo non esiste. Ma se esistesse, e se l’avesse ora di fronte, in quale epoca vorrebbe ritrovarsi Simon Scarrow? «Nel giorno in cui David Cameron indisse il referendum per la Brexit, l’uscita di noi inglesi dall’Unione Europea. Quel referendum non dovevamo farlo. O almeno, avremmo dovuto avere due settimane in più per riflettere…».  Scarrow, già professore di letteratura e autore di 35 romanzi storici come Sotto l’aquila di Roma (il primo, del2000) , con cinque milioni di copie vendute, i suoi compatrioti li conosce bene. Quelli di oggi, i contemporanei della Brexit, e quelli di ieri, che guidati dal duca di Wellington fermarono a Waterloo un piccolo grande imperatore francese. Napoleone Bonaparte e Arthur Wellesley, il «Duca», sono appunto i protagonisti di una quadrilogia già pubblicata in inglese, di cui esce ora il primo volume tradotto in italiano, La battaglia dei due regni (Newton Compton). Racconta l’infanzia e la giovinezza dei due condottieri, i giorni in cui i semi dei loro caratteri furono gettati. Nacquero nello stesso anno, il 1769, furono entrambi soldati ed entrambi amarono preparare le battaglie studiando le mappe topografiche. Galopparono nella stessa Europa, dilaniata da uno scontro epocale in quella che oggi, dice Scarrow, si può forse riconoscere come «la prima vera guerra mondiale». Ma le similitudini esteriori, apparenti, finiscono qui. Almeno finché non si apre il libro.  L’uno, il Bonaparte, vinse 60 battaglie su 70 ma alla fine perse tutto. L’altro, il «Duca nasone» ne vinse molte di meno, ma non fu mai veramente sconfitto. Era un conservatore e patriota fino al midollo, «non amava il popolo, né ovviamente le rivoluzioni». Il piccolo corso di Ajaccio risponde «io farò il soldato» già da ragazzino, quando il padre Carlo gli chiede dei suoi intenti futuri. Ma «senza la rivoluzione francese — dice ora Scarrow — non sarebbe stato nessuno, da lui non sarebbe venuto niente». Perché? «Perché nella carriera militare, e nella rivoluzione, trovò la sua via di ascesa sociale».  Nel libro lo profetizza già padre Dupuis, vicedirettore del collegio militare di Brienne, che appartiene alla stessa classe del giovane corso: «Questo è uno dei pochi posti in Francia dove le persone con le nostre origini possono avere successo». Quanto agli altri, gli aristocratici, «malgrado indossiate la medesima uniforme, mangiate alla stessa tavola e studiate nella stessa aula, sentite che c’è un abisso tra voi e loro… Parlano in modo diverso, pensano in modo diverso e vivono in modo diverso. Voi state lì, a desiderare tutto ciò che hanno. Eppure sapete che non sarà mai possibile. Perciò, accettiamo che il mondo è ingiusto. Cosa potete farci?». Fecero invece tutto: la rivoluzione e la carriera militare.  Ma la rivoluzione ribaltò anche l’esistenza di Wellesley: «Lui la odiava profondamente — spiega Scarrow — e vestì l’uniforme non per passione giovanile, ma proprio per difendere il suo Paese dal caos che vedeva fiammeggiare fra le ghigliottine di Parigi. Quando Luigi XVI fu decapitato, pensò: se permettiamo tutto questo, presto avremo il caos anche da noi». Era solo patriottismo, il suo? «Direi di no. Era anche la volontà o il bisogno di difendere i propri interessi sociali».  Lo stesso Napoleone, lei scrive, fece però qualche riflessione davanti al patibolo del re… «Sì, per lui quell’esecuzione fu la prova che il mondo doveva essere governato non dagli aristocratici, il cui potere aveva portato a quella tragedia, ma da coloro che avevano i meriti e la capacità di farlo, indipendentemente dalle loro origini…». Nel libro è Napoleone stesso a dirlo, quando incontra il coetaneo inglese Wellesley all’accademia di Angers…«Sì. Spiega infatti: “Niente è più irrilevante delle origini di un uomo”. Ma per la verità, quell’incontro fra i due l’ho immaginato io, niente di storico sta a testimoniarlo». Possiamo comunque dire che la morte di Luigi XVI fu decisiva per i destini di entrambi? «Sì, certo».  Il romanzo sembra disegnare altre cose, in comune fra loro. Come un’adolescenza angariata dal bullismo. Al collegio di Eton, Arthur è perseguitato dalle beffe del protervo Bobus Smith, e ne soffre moltissimo: ma un giorno reagisce, spezzando al bullo il naso e tre dita. All’accademia militare di Brienne, l’odioso Alexandre de Fontaine con altri compagni sputa nella tazza di Napoleone, preso in giro per l’accento corso, poi lo umilia in altri modi, lo pesta: finché Bonaparte gli rende la pariglia. La creazione dello scrittore e la realtà biografica (il romanzo è frutto di due anni di ricerche e nove mesi di scrittura) qui si accostano e confluiscono come due fiumi, difficile imbrigliarli. Ma non importa granché: il parallelo fra le due adolescenze non è certo suggerito per caso e colpisce nel segno. «Sì, è voluto. E prova perché siano tanto importanti l’infanzia e la giovinezza di ogni persona, perché io abbia voluto dedicare solo a questo tema il primo volume della quadrilogia: perché la vita è dura, molto dura, e nell’affrontare i loro persecutori Arthur e Napoleone diventano più forti. Non so perché in genere guardiamo alla giovinezza come a un tempo idilliaco: non è così, è un tempo pieno di sfide difficili…».  Restiamo al ragazzo Arthur. Non solo nella creazione del romanziere, ma nella realtà, era un tipo timido e fragile, dedito allo studio del suo violino: che però spaccò e bruciò quando la ragazza dei sui sogni Kitty Pakenham, spinta dai familiari, rifiutò la sua mano (non era un buon partito economico) e quando i roghi francesi sembrarono minacciare la stabilità del suo mondo. È uno dei momenti più drammatici del racconto: «Di lì a poco la follia rivoluzionaria avrebbe valicato i confini della Francia, minacciando di contagiare il resto del mondo. Doveva essere arrestata se si aveva a cuore la sopravvivenza dell’ordine, della civiltà stessa…. In quel sottile guscio di legno vivevano infiniti ricordi che adesso lo opprimevano; poi, d’un tratto,(Arthur, ndr ) capì cosa doveva fare, subito. Balzò in piedi, si avvicinò al fuoco e afferrando lo strumento per il collo, lo appoggiò tra i carboni ardenti. Per un istante il violino rimase immobile tra le fiamme tremolanti. Poi, con una fiammata giallognola, lo smalto prese fuoco e sulle sue eleganti curve presero a danzare allegramente fiamme più lunghe».  Wellesley fu un uomo, scrive Scarrow, «gravato dall’intollerabile fardello di una natura onesta». Possiamo dire lo stesso di Napoleone? «No. Fu altro, ma non quello». Ma che cosa resta del Duca oggi, nell’animo e nella memoria degli inglesi? «È tuttora ricordato come un soldato valoroso, un personaggio positivo». E lei concorda? «Non del tutto. Io in lui ammiro l’integrità morale, l’uomo fedele alla parola data. Ma nello stesso tempo fu un antidemocratico. E, proprio come Napoleone, dopo i grandi successi diventò sempre più consapevole di se stesso. Troppo. Per esempio dopo Waterloo, dove peraltro aveva mostrato un’incredibile forza di carattere, si attribuì tutti i meriti, anche se non era stato così e aveva fatto anche errori. Insomma, divenne quasi arrogante».  Possiamo scorgere in questa auto-consapevolezza qualche sintomo di un certo carattere britannico, per esempio quello emerso un anno fa con il referendum sulla Brexit? «Mettiamola così. Come dicevo all’inizio non avremmo dovuto indire quel referendum». E lei avrà votato No, è presumibile. «Sì, certo. Io non pensavo né penso che l’Europa sia perfetta, ma neppure da buttare. Diciamo che è un po’ squilibrata. Ma bisognava restare per migliorarla, non andarsene. Non bisognava seguire un personaggio arrogante, e imbarazzante per noi, come Nigel Farage». E invece gli inglesi... «Hanno votato in un referendum basato su una maggioranza semplice, con un risultato finale molto risicato. Noi siamo una potenza in declino nel mondo, ma c’è ancora gente che pensa: siamo i migliori, i migliori di tutti. E se ci sono anche ragioni per fare certe richieste, la maggior parte di queste ragioni sono stupide. Eravamo un Paese ragionevolmente unito, al suo interno e all’Europa… Ma in democrazia, chi grida di più viene più ascoltato».  E gli inglesi ricorderanno di certo anche Napoleone. Che cosa è rimasto di lui, nella loro memoria e in quella degli europei in genere? «Alcuni lo ricordano come il mostro dell’Europa. Ma è strano, qui è molto difficile ragionare in bianco e nero. Per molti, in Francia e altrove, Napoleone è un eroe, per altri è la versione francese di Hitler. Io lo ammiro come un genio, non come un generale, ma come il legislatore che fece grandi riforme nelle leggi e nell’istruzione. Ma nonostante ciò, fu un tiranno. Restò attorcigliato nella sua dispotica, arrogante introspezione. La campagna di Russia costò mezzo milione di soldati morti, e lui se la cavò dicendo: io sono Napoleone…». Fu un uomo del destino, come hanno sempre detto la poesia e la tradizione popolare? «Da giovane lui sentì di esserlo, senza dubbio. Poi, dovette affrontare gli eventi e anche adattarvisi. Io direi piuttosto che Napoleone fu un grande, istintivo, passionale giocatore d’azzardo. Un avventuriero. Anche quando perdeva, e gli restava una sola cosa da giocare, fosse pure stata la vita di un uomo, la giocava, si giocava tutto. Ed ebbe sempre un’enorme fortuna». Come dice la tradizione? «Proprio così. E non bisogna dimenticare una cosa: se tu sei un giocatore molto fortunato, anche la storia è molto generosa con te». Fino all’alba di Waterloo.

Corriere La Lettura 9.7.17
Data e luogo di nascita: Firenze, 1410 Brunelleschi inventò la prospettiva
di Carlo Bertelli

La prima dimostrazione della rappresentazione scientifica della terza dimensione su di un piano, ovvero della prospettiva, ha una data: Firenze, 1410- 1413. In tutta la storia dell’arte, nessun’altra metamorfosi può vantare un atto di nascita. Secondo la testimonianza dell’allievo Antonio Manetti, Filippo Brunelleschi su di una tavoletta quadrata di circa 30 centimetri di lato, aveva dipinto un’immagine esatta del battistero di Firenze, con tutte le sue tarsie, quale sarebbe apparsa a chi, stando sulla porta di mezzo del duomo, avesse guardato l’edificio da un’altezza di circa un metro e mezzo.
Nella stessa tavoletta l’architetto aveva praticato un foro passante, svasato, da cui uno spettatore avrebbe potuto guardare la stessa immagine dipinta riflessa in uno specchio tenuto a distanza col braccio. L’illusione era perfetta, tanto più che lo sfondo era d’argento brunito e vi si rispecchiava il cielo. Si poteva guardare la realtà e nello stesso tempo controllarne la perfetta riproduzione. In questo primissimo esperimento tutti gli elementi della costruzione prospettica erano presenti.
Circa vent’anni dopo la dimostrazione di Brunelleschi, Leon Battista Alberti, nel trattato sulla pittura, ne spiegò il metodo e ne fece la base della pittura moderna. Erano passati a stento due anni dalla pubblicazione dell’Alberti quando Paolo Uccello, con il trittico della battaglia di San Romano, dimostrò trionfalmente che le leggi della prospettiva erano applicabili non soltanto alla rappresentazione di un’architettura, ma investivano uomini e cavalli e uguagliavano con energica oggettività gli esseri viventi alle lance spezzate e agli elmi sparsi al suolo.
La prospettiva non era però un’invenzione che toccava soltanto la pittura. Era una concezione nuova del modo di vedere e di memorizzare. Lo comprese assai bene Donatello. La predella del suo grande San Giorgio all’esterno di Orsanmichele introduce un edificio porticato visto di scorcio, che attraverso la porta mostra un pavimento di lastre quadrate poste in una prospettiva intuitiva che si avvicina alle regole che preciserà l’Alberti. Persino l’apertura della caverna del drago è in prospettiva, ma vi è ancora di più: i piani sono come sfuocati dalla distanza. Testa e collo del cavallo, alberi sulla collina sullo sfondo sono scolpiti con una tecnica nuova, detta «stiacciato». Vi era però una contraddizione tra rilievo e pittura. In un dipinto, i raggi prospettici sono intercettati dalla superficie del quadro. Un rilievo, invece, non presenta una superficie interposta tra l’osservatore e la rappresentazione. Nel rilievo con il Festino di Erode , nel battistero di Siena, circa 1423-27, Donatello denuncia le antinomie. La scena si prolunga verso il fondo attraverso arcate e altre aperture, ma quando si svolge in primo piano, le linee del pavimento puntano verso il punto centrico, così come fanno le travi tagliate che sporgono dal muro di fondo. Sono tagliate perché la loro prosecuzione invaderebbe lo spazio dell’osservatore.

Il Fatto 9.7.17
Le origini segrete della massoneria
Le origini - 24 giugno 1717 è la data di nascita della prima Gran Loggia di Londra, dopo alcuni tentativi in Scozia
All’inizio erano solo artigiani e manovali, poi arrivarono militari, scienziati, architetti

Le origini della massoneria moderna vanno rintracciate nella Scozia e nell’Inghilterra del secolo XVII, sebbene anche per questo periodo le fonti non siano molte. I primi archivi di una loggia permanente in Inghilterra sono datati al 29 settembre 1701 ad Alnwick, a pochi chilometri dal confine scozzese: si tratta di una loggia di mestiere che risponde al nome di “The Company and Fellowship of Free Masons att a lodge held at Alnwick”.
La prima loggia di cui abbiamo conoscenza viene creata da William Shaw, scozzese già al servizio come maestro di cantiere sotto Giacomo VI, alla fine del Cinquecento: sembra di capire che tali logge fossero una sovrapposizione rispetto alle corporazioni, che raccoglievano solo i muratori di una determinata città e forse anche un certo numero di artigiani e manovali con funzioni diverse nei cantieri, mentre le logge appaiono riservate a lavori specializzati.
Qualche traccia in più ci viene dalla corporazione dei muratori di Londra: nel 1619 è segnalata l’esistenza di una London Company of Freemasons che tra 1654 e 1655 diviene la London Company of Masons. Negli archivi della corporazione si trovano menzioni a modalità di adesione che prevedevano la cooptazione attraverso l’apprendistato o per diritto ereditario; durante riunioni specifiche alcuni individui vengono “accettati” e diventano accepted freemasons.
La storiografia si è divisa: alcuni propendono per l’ipotesi che l’accettazione riguardasse solo persone che non appartenevano al mestiere e che venivano introdotte a titolo onorifico nella loggia; è anche vero però che le testimonianze londinesi mostrano come molti fra gli “accettati” fossero già iscritti alle corporazioni, ma avessero acquisito particolare celebrità come tagliatori di pietre nelle chiese o al servizio di sovrani, o magari perché a capo delle corporazioni. Gradualmente, durante il Seicento, le corporazioni dei freemasons cominciano ad ammettere al loro interno gentlemen dotati di particolare reputazione: ufficiali dell’esercito, scienziati, architetti.
Nel 1708 lo scrittore John Hatton annota in una descrizione della Londra del tempo che numerosi fra nobili e borghesi sono membri di corporazioni di muratori. Probabilmente è da questo modello che si andò evolvendo l’idea della loggia massonica come sodalizio filosofi co-speculativo, che si sarebbe concretizzata quando i gentlemen avrebbero deciso (seguendo percorsi che permangono ignoti) di fondare logge sul modello di quelle dei freemasons, ma prive ormai di ogni legame con i mestieri effettivamente esercitati. Dopo questa fase di preparazione, agli inizi del Settecento vediamo la nascita ufficiale della Gran Loggia di Londra, per la quale è arduo stabilire un legame di continuità diretta rispetto alle logge di mestiere inglesi e scozzesi del Seicento.
Il 24 giugno 1717, solstizio d’estate, un gruppo di gentlemen inglesi (appartenenti all’alta borghesia che ormai viveva secondo i costumi della nobiltà) fondarono un gruppo d’appartenenza nuovo, modellato sulle logge dei muratori inglesi e soprattutto scozzesi che nel secolo precedente avevano talvolta accolto gentlemen nelle loro fila.
Nel 1723 il pastore della chiesa presbiteriana scozzese a Londra, James Anderson, figlio di un vetraio (segretario della sua loggia scozzese di mestiere), redasse le Constitutions of Freemasons, che rappresentava il vero punto di partenza della massoneria moderna e l’invenzione della sua tradizione iniziatica. Nonostante si trattasse di un documento del tutto nuovo e privo di precedenti diretti, uno degli scopi delle Costituzioni era quello di indicare, al contrario, una linea di filiazione rispetto al passato che guardava in particolare verso due direzioni: una storica, che concerneva le associazioni di costruttori del medioevo e della prima età moderna e una mitica, che legava la massoneria al re biblico Salomone e al suo architetto Hiram e quindi alla costruzione del Tempio di Gerusalemme.
Le Costituzioni di James Anderson vennero stampate nel 1723 con la prefazione di un ex gran maestro della Loggia, Jean Théophile Désaguliers. Il testo si apriva con una prima parte dedicata alla storia mitica del mestiere di architetto; nella seconda si parlava degli usi e dei doveri del massone; la terza parte concerneva i regolamenti generali, quali la distribuzione delle cariche in seno alla loggia, le modalità di voto per l’accettazione di un “profano”, cioè di un nuovo adepto (interessante notare che è richiesta l’unanimità), il funzionamento della Gran Loggia che riuniva i rappresentanti di tutte le logge, la procedura di elezione del gran maestro. La quarta e ultima parte conteneva anche quattro canti massonici con testi e musica. La seconda parte è la più interessante se si vogliono comprendere le posizioni della massoneria del tempo. Il primo articolo riguarda Dio e la religione: vi si legge che il massone “non sarà mai un ateo stupido né un libertino irreligioso”; poiché storicamente ogni confratello è stato inquadrato all’interno di Paesi dotati di una tradizione religiosa (si postula qui un’antichità della massoneria che sappiamo essere del tutto ipotetica), egli ha dovuto aderirvi per ragioni di convenienza; è tuttavia da preferire “quella religione su cui tutti gli uomini sono d’accordo”, con riferimento quindi a principi generali che, al tempo, si credevano comuni alle diverse fedi e che costituivano dunque la “religione naturale”.
Nel secondo articolo si manifesta la necessità di lealismo verso il proprio governo, escludendo la partecipazione a complotti e cospirazioni. Nel terzo si prende in considerazione la condizione dei membri della loggia, che devono essere nati liberi e di età matura, mentre non sono ammessi schiavi o donne, né persone dalla condotta scandalosa. Gli articoli restanti si soffermano sul comportamento del massone all’interno della loggia, verso i confratelli anche stranieri, e sull’atteggiamento (dettato dalla prudenza) da tenere in presenza di estranei.
La mitologia cavalleresca e la scoperta dei Templari
Negli anni Trenta del Settecento la massoneria inglese cominciò a insediarsi anche in Francia, inizialmente attraverso militari e viaggiatori britannici che dettero vita a piccole logge in alcune città. Nel 1739 venne fondata la Gran Loggia di Francia, con l’intento di coordinare lo spontaneismo che aveva caratterizzato gli esordi del movimento: il suo dominio sarebbe stato indisturbato sino al 1773, quando una scissione condusse alla nascita della loggia del Grande Oriente di Francia. È in territorio francese che si compì l’avvicinamento della massoneria alla mitologia cavalleresca, con particolare riferimento alla vicenda dei Templari. Già in tutta l’Europa del Seicento si era avviato un movimento di interesse nostalgico per i costumi, le cerimonie, le tradizioni cavalleresche. In Inghilterra Elias Ashmole, alchimista dilettante curioso di cultura ermetica e in particolare dell’Ordine dei Rosacroce, nonché uno fra quei “non-manovali” ammessi nella massoneria operativa, scrivendo nel 1672 le Institutions, laws and ceremonies of the most noble Order of the Garter aveva già rispolverato la memoria dei Templari, a suo dire nobili e generosi cavalieri che tuttavia, ricchi e superbi, si erano troppo subordinati al Papa, causando così la propria rovina. Le idee di Ashmole influenzarono presumibilmente André- Michel Ramsay, massone scozzese fervente partigiano della dinastia reale Stuart ma residente in Francia dopo la rovina di essa e a lungo segretario di François Fénelon, conosciuto a Cambrai nel 1709, che lo aveva convinto a convertirsi al cattolicesimo.
Nel 1736 il cavaliere di Ramsay pronunziò un discorso pubblico che marca profondamente lo sviluppo della massoneria francese: se nella prima parte del discorso aveva esposto le qualità richieste al massone – cioè la capacità di mantenere un segreto, la moralità, l’amore per il prossimo, la passione per le scienze e le arti – nella seconda parla della storia della massoneria, che fa risalire non più tanto alle corporazioni di costruttori quanto piuttosto alla cavalleria. Criticando quanti, a suo dire, pongono le origini delle logge in un’antichità troppo nebulosa, Ramsey afferma che la loro origine va posta nell’XI secolo, quando sovrani, nobili e cittadini si uniscono in confraternite per ristabilire il dominio cristiano in Terrasanta contro gli infedeli. Queste confraternite sarebbero poi confluite nell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, i cui membri, tornati in Europa, avrebbero dato vita alle logge nelle diverse nazioni; per esempio, un certo Jacques Stewart di Scozia sarebbe stato gran maestro di una loggia a Kilwinnen nell’anno 1286; la sua loggia avrebbe accolto i conti di Gloucester e dell’Ulster.
La Gloria del Grande Architetto dell’Universo
L’Inghilterra sarebbe dunque stata la principale sede della massoneria cavalleresca, prima che le guerre di religione del Cinquecento generassero una crisi in seno alla cristianità: per questa ragione era importante il ritorno della massoneria, promotrice di fratellanza, sul continente, e in particolare in Francia. La storia proposta dal Ramsey è ovviamente fantasiosa, ma destinata a grande successo. C’era tuttavia un problema non indifferente: si deve notare che Ramsey non faceva riferimento ai Templari, quanto piuttosto ai Giovanniti, cioè agli Ospitalieri, che nel Settecento erano ormai divenuti il potente e prestigioso Ordine di Malta che certo non poteva veder di buon occhio l’idea di esser posto all’origine delle logge massoniche invise alla Chiesa cattolica. D’altro canto il Ramsey faceva proseliti in Francia: ciò gl’impediva di chiamare in causa l’Ordine religioso-cavalleresco per eccellenza, ossia i Templari, come aveva suggerito Ashmole: dato che, soppressi da Filippo IV il Bello tra 1307 e 1314, godevano ancora di cattiva fama nella Francia d’Ancien régime in quanto “nemici” della corona. Perché dai Cavalieri di San Giovanni si passasse ai Templari, bisognò allora trasferirsi dalla Francia in altre aree d’Europa. Per esempio, in Inghilterra e in Germania, l’Ordine templare – soppresso da un re di Francia con la complicità di un Papa – era circondato da un diffuso rispetto.
Scopo dell’iniziazione massonica era, e da allora è formalmente restato, il perfezionamento spirituale dell’aspirante. Il candidato viene ammesso in un Tempio, così chiamato per evidenziarne il carattere sacrale, edificato “alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo”. Qui il candidato ascende i gradi previsti grazie non a un singolo “sacerdote”, ma per merito del collegio dei membri, ai quali spetta avviarlo lungo il cammino della conoscenza esoterica. Il riferimento a una nozione della divinità, che sarà di lì a poco definita correntemente dalle logge “Grande Architetto dell’Universo”, che non coincide con una denominazione religiosa e confessionale, si comprende bene alla luce degli sviluppi culturali della società del tempo, nella quale si andavano diffondendo i principi del deismo. La convinzione deista si fonda sulla dottrina della religione naturale, cioè una religione che non deriva da una rivelazione storica, ma viene elaborata dalla ragione umana in base all’osservazione della natura e alla convinzione circa l’esistenza di un principio nel Creato. In opposizione al deismo inglese, gli intellettuali dell’illuminismo, con in testa Voltaire, preferiscono parlare di “teismo”, negando al principio divino il governo del mondo morale.
Il lungo duello con la Chiesa
La diffusione della massoneria al di fuori del mondo protestante e sino a quello cattolico non poteva passare inosservata agli occhi della Chiesa; tanto più che, soprattutto in Italia, l’affiliazione massonica si accompagnò ben presto a uno spiccato anticlericalismo. Il primo intervento di censura nei confronti del fenomeno giunge con la lettera apostolica In eminenti apostolatus specula di papa Clemente XII, promulgata nel 1738. La Chiesa avrebbe reiterato la propria censura nei confronti della massoneria in diverse occasioni, e in modo particolare con la Humanum genus (1884) di Leone XIII, poi recepita nel Codice di diritto canonico del 1917. Ma, come si legge nel documento di papa Clemente, neppure le autorità laiche stavano a guardare. Già a partire dagli anni Trenta del XVIII secolo si ha notizia dell’interessamento della polizia alle logge, con qualche perquisizione e alcuni arresti; anche le folle cittadine non sembrano entusiaste all’idea di clan segreti: nei Paesi Bassi e ad Amsterdam si registrano attacchi contro le sedi massoniche, e nella città olandese si arriva nel 1744 a un divieto di riunione per la massoneria.
Nonostante tali divieti, applicati con zelo moderato, le logge avrebbero proseguito pressoché indisturbate la propria attività. Diverso il discorso per la Chiesa cattolica, che non ha mai ritirato la scomunica di Clemente XII; anzi, i successivi documenti ufficiali della Chiesa hanno ribadito che chi appartiene alla massoneria non può ricevere i sacramenti, in quanto i principi delle associazioni massoniche vengono considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa. Una posizione ribadita nel 1983, sotto il papato di Giovanni Paolo II, dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinale Joseph Ratzinger.

Il Sole Domenica 9.7.17
Le vere «colpe» di Vygotskij
I sovietici condannarono il «Mozart della psicologia», scienza considerata «borghese». Ora i «Taccuini» rivelano altri motivi della persecuzione: in primis l’antisemitismo
di Luciano Mecacci

Nel 1978, sulla New York Review of Books, il filosofo Stephen Toulmin consacrò Lev Vygotskij come «il Mozart della psicologia», un genio pari al grande musicista, un innovatore le cui idee avrebbero potuto produrre chissà quali risultati in psicologia se non fosse morto prematuramente (a 37 anni e mezzo nel 1934). Toulmin si basava solo su due libri di Vygotskij tradotti in inglese, eppure erano stati sufficienti a crearne un mito che durò fino a tutti gli anni ’90. La pubblicazione dei Taccuini di Vygotskij, presentati a Mosca lo scorso 30 maggio, e esauriti il giorno stesso, rappresenta la conclusione di un ciclo di rivisitazione storica dell’opera di uno dei più originali psicologi del Novecento. Il libro, che uscirà anche in inglese da Springer, è stato curato da Ekaterina Zaveršneva, giovane psicologa moscovita di grande talento, e dall’olandese René van der Veer, il maggiore storico occidentale dell’opera di Vygotskij. I curatori hanno ordinato e selezionato centinaia di pagine di appunti presi su quadernetti, conservati dalla famiglia, e ne è risultato un sorprendente volume di 600 pagine.
Per capire come la figura intellettuale di Vygotskij, non solo lo psicologo, ne esca profondamente mutata, bisogna riandare a qualche decennio orsono, perlomeno ai primi anni ’70 quando ancora circolava il mito di Vygotskij psicologo originale ma sfortunato. Sono anni che posso rievocare personalmente, avendo studiato in quel periodo all’Istituto di psicologia di Mosca, a cento metri dal Cremlino, dove Vygotskij aveva lavorato e pure abitato con la moglie, in una stanzina del sottosuolo.
Vygotskij, mi dicevano, aveva avuto idee brillanti, ma era un teorico, quasi un filosofo. E sulla sua vita non mi davano molte informazioni. Successe però che la figlia Gita, una pedagogista, volle incontrarmi (gennaio 1972), su suggerimento di Aleksandr Lurija, l’altro grande protagonista della psicologia russa, collaboratore stretto di Vygotskij negli anni ’20 e ’30. Gita mi mostrò una serie di libri e documenti del padre che non avevo mai visto (tra cui quelli messi al bando nel 1936 da un decreto del partito comunista, bollati come «scienza borghese»). Ma soprattutto mi permise di fotocopiare le prime pagine del manoscritto di Pensiero e linguaggio, il capolavoro di Vygotskij, uscito postumo nel 1934. Quando è stato messo in dubbio dagli stessi russi che fosse esistito quel manoscritto, mai più ritrovato, ho dovuto esibire quelle vecchie fotocopie, scrupolosamente conservate. Lessi Vygotskij pure in samizdat’ in una delle tante copie battute a macchina con carta carbone, e come sanno gli esperti del settore, quasi illeggibili. Ricordo anche Leonid Radzichovskij, divenuto uno dei più noti giornalisti politici russi, che mi spinse a guardare a un «altro» Vygotskij, non quello ufficiale, e Lurija che mi prestò e mi obbligò a leggere testi che all’epoca non circolavano (alla Biblioteca Lenin a Mosca, oggi Biblioteca Statale, erano tra i libri confinati nell’inaccessibile specchran, lo special’noe chranenie, il fondo speciale, sul quale si veda il libro di Maria Zalambani, Censura, istituzioni e politica letteraria in URSS, 1964-1985, Firenze University Press, 2009). Per la rivisitazione di Vygotskij cominciai con Pensiero e linguaggio e, traducendolo per Laterza dalla prima edizione del 1934, scoprii che nella ristampa russa del 1956 erano stati introdotti tagli e interventi redazionali, gravissimi sul piano storico, e che altrettanto era stato fatto nel 1982 (solo nel 2001 è stata ristampata l’edizione russa integrale). Lo stesso era accaduto per altri suoi scritti. Per decenni s’era letto un Vygotskij non corrispondente all’originale. Il mito vygotskiano era stato costruito su un castello deformato ad arte.
Perché Vygotskij era stato osteggiato così tanto? Era sufficiente la spiegazione che, in fondo, non era un materialista dialettico, ma un cripto-idealista con i suoi riferimenti a psicologi come Freud e a filosofi come Husserl? (Vygotskij aveva studiato con un allievo di Husserl, Gustav Špet, fucilato nel 1937 per «attività antisovietica»). Era bastata questa sua sospetta anima filoccidentale e borghese a farlo attaccare da giornalisti prezzolati sulla stampa ufficiale nei primi anni ’30?
Oggi i Taccuini ci permettono di rispondere a questi interrogativi, di riempire molti vuoti biografici e storici che non erano stati colmati finora. La prima colpa, e questa sarebbe bastata a spedire Vygotskij in un lager o a finir peggio, se la morte non fosse sopravvenuta, era di essere ebreo. Peggio, un esponente della cultura ebraica raffinata tra Gomel’ e Mosca, il redattore di riviste e case editrici in cui comparivano in maggioranza nomi di letterati ebrei. Ora sappiamo dalla sezione «la questione ebraica» dei Taccuini che Vygotskij si adoprò attivamente per combattere il persistente antisionismo russo, prima e dopo la Rivoluzione. Fra l’altro qui sono riprodotti frammenti di un’opera risalente al 1915 (Vygotskij aveva 19 anni) sulle peculiarità della storia del popolo ebraico. Già nel 1919 il suo nome compariva come autore assieme a quelli di Belyj, Blok, Erenburg’, Esenin, Gor’kij e Majakovskij nel libro Poesie e prosa sulla rivoluzione russa. Era amico stretto di intellettuali che sarebbero stati liquidati dalle purghe staliniane, come il cugino David, noto poeta e traduttore, o il poeta Osip Mandel’štam (la cui moglie Nadežda in L’epoca e i lupi ricordava Vygotskij come «un individuo dalla mente profonda»), era amico di Pasternak e di Ejzenštejn.
L’altro aspetto critico è l’appartenenza di Vygotskij alla Società psicoanalitica russa, la cui sede era nella splendida casa Riabušinskij nel centro di Mosca, poi abitazione di Gor’kij, e dove vi era anche il famoso Asilo psicoanalitico frequentato dai figli della nomenklatura sovietica (compreso il figlio di Stalin, Vasilij). La psicoanalisi fu proibita alla fine degli anni ’20, con seri rischi personali se si fosse scoperto che era praticata come terapia o difesa come teoria (uno degli esponenti più importanti, Ivan Ermakov, morì in prigione nel 1942). Tuttavia, dai Taccuini emerge che la posizione sempre più scomoda di Vygotskij negli ultimi anni della sua vita dipendeva dai legami politici che risalivano a quando nel 1925 si era trasferito da Gomel’, dove era un attivo ma semplice insegnante, a Mosca, divenendo una delle personalità più influenti della psicologia e pedagogia sovietica. Fino a pochi anni fa non si sapeva che aveva ricevuto vari incarichi istituzionali d’alto livello nel campo dell’istruzione, in particolare nell’educazione dei bambini disabili. Dipendeva direttamente da Anatolij Luna?arskij, commissario del popolo (ministro) dell’istruzione, ed era in contatto personale con Nadežda Krupskaja, pedagogista, moglie di Lenin. Non era quindi uno psicologo da laboratorio o da scrivania, come molti psicologi occidentali, Piaget in primo luogo, cui è stato paragonato, ma era un ricercatore politicamente impegnato. Comunque al governo stalinista doveva disturbare non tanto il rapporto con la vecchia guardia leninista, progressivamente falciata via, ma quello ideologico con Trotckij. Questo fu, secondo me, il vero problema: alla fine Vygotskij fu tacciato di trockismo per il suo marxismo eterodosso, per i suoi riferimenti (poi omessi in tutte le edizioni anche recenti delle sue opere) alla concezione di un «superuomo» figlio della nuova società socialista, un’idea che aveva proposto il «nemico del popolo» numero uno. In un appunto del 1926, Vygotskij mise insieme nientemeno che - in quest’ordine - Trockij, Freud e Marx come gli autori chiave per la fondazione di una psicologia marxista (Trockij aveva apprezzato la psicoanalisi). Non era gradita inoltre la posizione critica di Vygotskij, e per questo fu duramente attaccato, sulla soluzione staliniana del problema delle nazionalità e sulla forzata panrussificazione della scuola e della cultura delle repubbliche dell’Unione Sovietica. Nei suoi scritti non citò mai Stalin. Vygotskij rimase sempre un uomo libero, non a caso il suo modello di intellettuale era Spinoza.
L’ultimo appunto risale a poco prima della morte. Vygotskij cita un passo del Deuteronomio (Dio mostra a Mosè la terra promessa, ma gli dice che non vi entrerà), sentendosi ormai nella stessa situazione: anche lui ha indicato nuove vie alla psicologia, ma non potrà percorrerle fino in fondo. Chiude citando dall’Amleto, cui aveva dedicato nel 1916 la sua magnifica tesi di laurea: «Il resto è silenzio».Zapisnye knižki L. S. Vygotskogo (I taccuini di L. S. Vygotskij) , a cura di E. Zaveršneva e R. van der Veer, Kanon+, Moskva, pagg. 608, sip

Il Sole Domenica 9.7.17
Alle sorgenti degli algoritmi
ll «continuo» tra Veda e Pitagora
In sanscrito la parola «rta», che si potrebbe tradurre «rito», rimanda all’idea di un ordine ricco di implicazioni matematiche e geometriche
di Paolo Zellini

Siamo abituati a risolvere problemi matematici usando lettere e numeri, oltre che simboli adatti a designare enti e operatori dai significati più vari. Ma quali sono le origini e le motivazioni più remote di quei simboli? Hanno un significato che non sia semplicemente quello assunto nelle teorie dove sono utilizzati? O ancora: perché disegniamo figure geometriche, e perché si possono collegare a quelle figure complessi formalismi algebrici? Considerando la scarsezza delle fonti, come pure la diffidenza, che era già di Nietzsche o di Foucault, per ogni possibile ricerca delle origini del nostro sapere, la domanda può apparire oziosa. Eppure è insistentemente circolata, in ogni epoca, negli ambienti più avanzati della ricerca scientifica. Nell’Introduzione del suo celebre trattato sulla teoria della relatività, Raum. Zeit. Materie (Spazio. Tempo. Materia), del 1919, Hermann Weyl notava che le vere motivazioni originarie delle teorie sono sempre oscure, e che tuttavia il matematico, quando si trova a operare con i suoi concetti lungo linee strettamente formali, «dovrebbe ricordarsi di tanto in tanto che le origini delle cose giacciono in strati più profondi di quelli a cui i suoi metodi gli consentono di discendere. Al di là della conoscenza conquistata dalle singole scienze resta il compito di capire».
Ma ci si può chiedere fin dove conviene ed è possibile retrocedere per cercare le origini. Un’indicazione proviene dalle parole stesse, a cominciare dal termine greco che designava la figura geometrica: schéma. Sulle proprietà delle figure geometriche si basava la matematica degli Elementi di Euclide come pure la scienza dei Veda deputata all’edificazione degli altari di Agni. Con il termine “schematismo” Kant avrebbe poi designato quell’arte insondabile «nascosta nelle profondità dell’anima umana» e di cui ignoriamo la profonda natura e le vere scaltrezze, in cui sono fissate le regole con cui agisce la nostra immaginazione nel tracciare una circonferenza, oppure le linee di un triangolo o di un trapezio. A schemi già studiati nella matematica antica, greca, vedica o babilonese, si sarebbero pure ricondotti gli algoritmi numerici con cui gli algebristi del ‘500 e successivamente Viète e Newton, avrebbero edificato l’algebra e l’analisi moderne. Infine, gli stessi schemi sarebbero serviti a definire gli algoritmi più avanzati con cui un calcolatore risolve numericamente le equazioni della fisica matematica, un problema di minimo o un sistema di equazioni non lineari.
Schéma è principio di costruzione, legge della nostra immaginazione come pure dei calcoli che deleghiamo al computer.
Un altro termine che ci fa intravvedere il filo di riferimenti che ci lega al passato è il sanscrito ? ta, nozione cardine dell’universo religioso, giuridico e morale delle civiltà indoeuropee, che denotava l’Ordine che regola l’assetto dell’universo, il movimento degli astri, i cicli delle stagioni e degli anni, i rapporti tra uomini e dèi e i rapporti tra uomini. Il senso della parola, accostabile al latino di ritus e artus, richiama quello di un’articolazione che lega assieme le cose più diverse, con metodi che la matematica ha sempre cercato di stabilire, mediante enumerazioni, rapporti, equazioni, teoremi e algoritmi.
Oltre alle enumerazioni, ovunque presenti nella letteratura antica, due nozioni di fondamentale importanza sarebbero state implicate nell’idea di concatenazione esatta designata dal termine ? ta: quello della crescita delle grandezze e il concetto di continuo geometrico e numerico. Il problema di stabilire le regole con cui le grandezze geometriche possono crescere o diminuire senza mutare la loro forma era di fondamentale importanza per la matematica e la filosofia greca, come pure per i rituali vedici. E proprio dal modo in cui quel problema fu risolto in alcuni casi critici, come la crescita di un quadrato o di un cubo, derivò la ricerca di metodi generali per risolvere le equazioni algebriche, nei secoli XVI e XVII. Il metodo per approssimare la soluzione di un’equazione quadratica per passi successivi si sarebbe compreso immaginando un quadrato che, ad ogni passo, cresce o decresce secondo le regole stabilite dalla geometria vedica e pitagorica.
Nei primi decenni del XIX Secolo Bernard Bolzano fu tra i primi a capire che l’idea matematica di continuo doveva svilupparsi in modo puramente analitico, senza ricorrere a nozioni di spazio, di tempo o di movimento. Fu questo un passaggio rivoluzionario, perfezionato nel corso dell’ ‘800 da Cauchy e da Weierstrass, ma gli schemi algoritmici utili a capire e a giustificare i nuovi concetti dell’analisi non sarebbero mutati.
L’idea di continuo esprime l’esigenza intuitiva che il concatenamento esatto che lega le cose esistenti in natura siano in un contatto intimo tra loro, senza fessure o lacune di sorta. Le definizioni matematiche di continuo elaborate a fine ‘800 avevano appunto lo scopo di realizzare questo concetto in un dominio numerico che doveva includere, oltre agli interi e alle frazioni, anche i numeri irrazionali. Forse quelle ingegnose definizioni, su cui si fondano peraltro le teorie moderne dell’analisi, non hanno espresso tutte le esigenze della nostra intuizione, ma hanno comunque rispettato un percorso coerente che ha visto ripetersi in forme e in tempi diversi gli stessi modelli di ragionamento e le stesse idee di principio. Non è un caso se Richard Dedekind, a cui si deve, nel 1872, una delle più convincenti teorie matematiche del continuo, precisava più tardi, nella Prefazione al suo trattato sull’Essenza e significato dei numeri (1888), che le sue teorie erano in linea con ciò che i matematici avevano già concepito in passato sulla natura dei numeri irrazionali. La tradizione retrocedeva coerentemente fino alla definizione euclidea di proporzione (Elementi, V, 5). Il concetto di uguaglianza di rapporti di Euclide, scriveva Dedekind, «è stato indubbiamente l’origine della mia teoria, come pure [...] di molti altri tentativi più o meno riusciti di dare un fondamento alla introduzione dei numeri irrazionali nell'aritmetica».
Il matematico italiano Alfredo Capelli avrebbe poi precisato che un fondamento delle teorie di Dedekind - e quindi di Euclide - si trovava negli algoritmi con cui i matematici antichi sapevano approssimare, mediante rapporti tra interi, un numero irrazionale. Gli studi di Otto Neugebauer sulle procedure dell’aritmetica babilonese gli danno indirettamente ragione.
L’idea matematica di continuità era solo un aspetto, se pure il più rigoroso e perfezionato, di quella grande “catena dell’essere” di cui Arthur Lovejoy, nel 1936, tracciò una storia esemplare in un libro diventato famoso. E non è un caso che il timore di una qualche “soluzione di continuità” fosse frequentemente avvertito in modo non dissimile da un horror vacui. Nel XVI Secolo perfino i diavoli la temevano, come ci svela François Rabelais, e urlavano - come diavoli, appunto - quando se ne sentivano minacciati. Ma il Secolo XVI vide anche i primi tentativi, da parte di matematici come Cardano e Bombelli, di capire in che cosa doveva consistere, nei casi più semplici, il principio di continuità. Fu presto chiaro che quel principio era uno strumento indispensabile per calcolare le soluzioni di un’equazione algebrica, e che rappresentava il problema cardine di quell’epoca e il presupposto della successiva edificazione dell’analisi nel ‘600.

Il Sole Domenica 9.7.17
La lingua non è razzista
di Ermanno Bencivenga

A vent’anni, quando mi facevo le ossa nella ricerca accademica, i miei ambiti d’intervento erano logica e filosofia del linguaggio. Ambiti che io, da ingenuo e inesperto puledro di scuderia, consideravo limitrofi, comunicanti, governati da un pacifico accordo. Di tanto in tanto, a dire il vero, affioravano dissonanze; una, in particolare, turbava me e i miei colleghi, abituati a un sacro rispetto per i sistemi formali (il nostro nume tutelare, Corrado Mangione, era un matematico). Negli scritti di importanti filosofi del linguaggio anglofoni trovavamo continui riferimenti alle intuizioni del parlante e ci chiedevamo: «Che c’entrano le intuizioni?», «Non sono le intuizioni un fondamento troppo labile per costruire una teoria?». Mi ci volle un po’ per capire che queste perplessità, che sembravano segnalare l’esistenza di un solco tra logica e filosofia del linguaggio, erano sintomo di un profondo malinteso che attraversa entrambe le discipline. Lo studio del linguaggio e quello del ragionamento sono basati su ciò che appare plausibile a quanti il linguaggio lo parlano e il ragionamento lo praticano, sulle loro intuizioni appunto; ma si tratta di intuizioni normative («Così si deve fare») e non descrittive («Così accadrà»); ed è una tentazione naturale, quando esse siano state codificate in un sistema coerente e rigoroso, ritenere che sia il sistema a dettare legge. Che la grammatica non sia un preciso resoconto di regole che già applichiamo ma l’origine di quelle regole; che la logica formale non sia un’elegante schematizzazione del nostro senso logico ma legittimi quel senso, addirittura lo costituisca. In Word by Word, Kory Stamper mostra che lo stesso malinteso, con le stesse inopportune conseguenze, tormenta non solo grammatica e logica ma anche il significato delle parole. Stamper è una lessicografa nella casa editrice Merriam-Webster, che dai primi dell’Ottocento pubblica dizionari di inglese (americano); il suo compito principale è coniare definizioni, anche se talvolta, a sgradevole illustrazione del malinteso di cui sopra, le tocca investire buona parte del proprio tempo rispondendo a lettere di protesta. Come quando la parola marriage è stata definita includendovi il possibile uso gay marriage e centinaia di persone le hanno scritto insultandola e minacciandola di morte, evidentemente convinte che il dizionario avesse il potere di escludere dalla lingua l’espressione, e magari dal mondo il comportamento, da loro aborriti. Ma il dizionario può solo catalogare parole e significati che i parlanti hanno già fatto propri, non può imporli (o sopprimerli) di sana pianta. Due ulteriori esempi offerti da Stamper contribuiranno ad articolare il tema da angolature diverse. Il primo concerne la parola «irregardless», bersaglio costante dei puristi che la giudicano un orribile, insensato solecismo. Il suffisso less, spiegano, è già negativo; quindi la parola regardless già vuol dire «senza curarsi di, indipendentemente». L’ulteriore prefisso negativo ir è ridondante e confonde solo le idee; al limite, la mostruosità irregardless, se volesse dire qualcosa, dovrebbe voler dire il contrario di quel che pensano gli sciagurati che la usano. Eppure gli sciagurati ci sono, e scavando nella storia si scopre che ci sono stati almeno dal 1860, e s’impara perfino che c’è metodo in questa apparente follia: che per chi usava irregardless un secolo fa (e forse per chi la usa oggi) il prefisso ir aveva valore non negativo ma accrescitivo, come a dire «senza curarsi affatto di qualcosa». Una lingua è un fiume maestoso, dice Stamper, fatto di mille rivoli che perseguono ciascuno un proprio corso, e l’autorità con cui certi rivoli vogliono ostacolarne altri non è che arroganza, quegli altri perseguiranno comunque il loro corso. Irregardless.
Il secondo esempio concerne la parola nude, riferita a un colore. Che colore è? Un’accurata ricerca degli usi correnti sembrava testimoniare senza ombra di dubbio che si trattasse del colore della pelle di una persona bianca: quando un reggiseno o un paio di calze sono descritti come nude, è quello il colore che s'intende. Così il dizionario si è adeguato e una volta di più sono arrivate clamorose proteste. Perché nude, ovviamente, vuol dire anche nudo, e quando una persona di pelle scura è nuda il colore che mostra non è quello sancito dal dizionario. La lingua sembrava irrimediabilmente razzista e il dizionario non poteva che confermarne il pregiudizio. Finché la Stamper, non incappò in linee di cosmetici denominate nude ma comprendenti tutto uno spettro di colori dal chiaro allo scuro. Salvezza! La lingua non è irrimediabilmente razzista; se ne può documentare un uso più ampio di quello previsto e il dizionario può registrarlo. Il che ci consegna un ultimo suggerimento: se volete cambiare le cose, potrebbe essere una buona idea cominciare parlando diversamente.
Kory Stamper, Word by Word: The Secret Life of Dictionaries , Pantheon Books, New York, pagg. xiv+296, $ 26,95

Il Sole Domenica 9.7.17
Neuroscienze / 1
La verità, vi prego, sul cervello
Forse l’idea che la memoria dimori nelle modifiche delle connessioni sinaptiche tra due neuroni è sbagliata: i ricordi sembrano codificati direttamente nelle cellule
di Giorgio Vallortigara

La ricerca sul cervello in questi anni attira l’interesse di molti giovani studiosi, gode di un’enorme popolarità e riceve ingenti finanziamenti. Nuove tecniche, come l’optogenetica, consentono di manipolare il comportamento con straordinaria precisione; è possibile registrare l’attività elettrica individuale di un gran numero di neuroni simultaneamente, oppure rendere trasparente il cervello, con metodologie come CLARITY, per scrutarne composizione molecolare e strutture. Emerge, tuttavia, anche qualche preoccupazione. Cosa abbiamo capito davvero di come funziona il cervello?
Randy Gallistel, professore emerito alla Rutgers University, in occasione di un convegno a Londra, mi ha chiesto, scherzando ma non troppo, di provare a fare una rapida inchiesta tra i colleghi che conosco ponendo loro una semplice domanda: «Come rappresenta in memoria un fatto il cervello?». Ad esempio, in che modo viene rappresentata una distanza da percorrere, un tragitto da mantenere o una qualsiasi quantità, come la grandezza di un mazzo di fiori o quanti ospiti avevate a cena ieri sera…
Un fatto è un’informazione e perciò, in ultima analisi, un numero. L’insidia della domanda sta nell’idea diffusa nella comunità neuroscientifica che l’apprendimento sia sinonimo di plasticità, e che perciò la codifica in memoria di un fatto non sia altro che una modificazione nella forza della connessione sinaptica tra due neuroni.
Un esempio di come si immagina vadano le cose può aiutarci a capire. Quando si addestra un organismo a rispondere a uno stimolo che si verifica dopo un certo intervallo di tempo rispetto ad un primo stimolo si produrrebbe, in virtù della ripetuta associazione, un rafforzamento della connessione sinaptica tra il neurone la cui attività «sta per» il primo stimolo e quello la cui attività «sta per» il secondo stimolo (ricordate il cane di Pavlov? Il suono del campanello precede la goccia di limone sulla lingua; dopo pochi accoppiamenti tra i due stimoli il suono da solo diventa capace di far salivare l’animale…). Ma che dire del tempo? La forza della connessione sinaptica non contiene informazioni sull’intervallo temporale in quanto tale, eppure l’animale lo impara. Anzi, si sa dai tempi di Pavlov che l’intervallo temporale da solo può fungere da stimolo condizionato: se si presenta ogni trenta minuti la goccia di limone, senza nessun altro stimolo, dopo poche prove l’animale prende a salivare qualche istante prima dello scadere dell’intervallo di trenta minuti.
Il cambiamento nella forza della connessione sinaptica tra due neuroni dipende da molti fattori, come ad esempio l’intensità dei due stimoli, da quanto sono prossimi temporalmente, da quanto spesso si sono succeduti in stretta contiguità temporale. La relazione che lega l’esperienza alla variazione di conducibilità alla sinapsi è, dice Gallistel, una funzione del tipo molti-a-uno, e una volta che la relazione è stabilita, non si può più recuperare i molti dall’uno, non si può più cioè leggere nella variazione della forza della connessione sinaptica una singola, specifica informazione, come ad esempio l'intervallo temporale. Non sarà che quest’idea che la memoria dimori nelle modificazioni della forza della connessione tra i neuroni è sbagliata?
Oltre alle difficoltà concettuali vi sono i dati che emergono dagli esperimenti. Un gruppo di scienziati di Lund ha studiato di recente come si formano le memorie temporali di certe forme semplici di apprendimento pavloviano come il condizionamento del riflesso palpebrale in un tipo di cellule del cervelletto. Studiando l’attività di neuroni isolati questi scienziati hanno dimostrato che l’intervallo temporale veniva memorizzato dai neuroni stessi, in assenza di sinapsi. La memoria del fatto, l’intervallo di tempo che passa tra il primo stimolo e il secondo stimolo, sembra codificata direttamente nelle cellule, non nelle connessioni tra le cellule.
Questo è importante perché altri ricercatori, pur riconoscendo che il sito della memoria possa non essere rappresentato dal cambiamento nella forza delle sinapsi, si oppongono all’idea che l’informazione sia immagazzinata da un qualche genere di registro molecolare all’interno delle cellule individuali, sostenendo invece che la memoria emergerebbe come risultato della comunicazione tra gruppi di cellule, o reti di neuroni. Ma questo approccio associazionista, che si applichi a due soli neuroni o a molti neuroni in una rete, soffre sempre dello stesso problema: la variazione di conducibilità alla sinapsi non consente, una volta scritta, di leggere, cioè di recuperare le informazioni in una forma utilizzabile, come avviene nei sistemi di memoria di scrittura/lettura dei nostri computer (vedi il dibattito tra Gallistel https://www.youtube.com/watch?v=Y3ROyorFv5E e Tomàs Ryan https://www.youtube.com/watch?v=mUpJfFr1Q0I al convegno «Big Ideas in Cognitive Neuroscience», https://www.cogneurosociety.org/big-ideas/).
Naturalmente Gallistel non pensa che il cervello debba realizzare fisicamente le memorie nel modo in cui lo fanno i nostri attuali computer, pensa però che il cervello debba essere vincolato alle proprietà generali dell’architettura di una macchina di Turing universale. Nella macchina di Turing la presenza di un sistema di memoria di scrittura/lettura è cruciale, ed è quello che la distingue da un automa a stati finiti, che si limita a cambiare lo stato del processore. La memoria deve cioè comprendere, dice Gallistel, un modo per immagazzinare i simboli (scrittura), un modo per localizzarli (un indirizzo) e un modo per trasportarli (leggerli), così da poter condurre sui simboli dei calcoli, delle computazioni. Un meccanismo di questo genere lo conosciamo in biologia, è realizzato nella catena di polinucleotidi del DNA. Il codice in questo caso è formato da quattro elementi, le quattro basi, che si possono organizzare in triplette (codoni), ciascuna delle quali specifica uno dei venti aminoacidi (in più qualche tripletta fa da segnale di punteggiatura, tipo «avvio» e «stop»). Ogni gene ha una porzione codificante e un indirizzo. La cellula legge il gene associando un fattore di trascrizione all'indirizzo.
Non abbiamo idea, invece, di quale sia il codice che consente di codificare i fatti dell’esperienza nel cervello. Gallistel pensa che sia di natura molecolare, interno alle cellule stesse, anziché di sistema, legato cioè alla connessione tra le cellule.
Ma che dire allora delle prove, che indubitabilmente esistono e sono numerose, che l’apprendimento si accompagna a modificazioni della forza delle sinapsi? Bene, forse queste modificazioni sono la conseguenza, e non la causa, del formarsi delle memorie, e hanno la funzione di indirizzare e dirigere il comportamento sulla base delle memorie. Memorie che, però, sarebbero conservate altrove, non nelle giunzioni sinaptiche.
Le preoccupazioni di neuroscienziati come Gallistel non sono rimaste del tutto inascoltate tra i costruttori di reti neurali artificiali. Ad esempio, sono stati proposti sistemi ibridi in cui, riconoscendo che le architetture a reti neurali sono insoddisfacenti per la codifica delle memorie, si è pensato di aggiungere alle reti una convenzionale RAM (una memoria appunto di scrittura/lettura http://www.nature.com/nature/journal/v538/n7626/full/nature20101.html). Resta però il problema che la filosofia dei modelli a rete neurale è intrinsecamente associazionista: le strutture emergono dai dati, cioè dalle contingenze del mondo, mentre noi sappiamo che nei cervelli biologici c’è una struttura interna che plasma e che dà forma alle contingenze del mondo.
Queste controversie, come si può intuire, non riguardano aspetti minori, bensì cruciali e fondativi di una disciplina. Che non siano ancora risolte riflette lo stato davvero molto primitivo delle nostre conoscenze sul cervello. Michael Gazzaniga ha osservato recentemente che « [...] la neuroscienza non ha ancora raccolto i dati chiave perché, in una certa misura, non si sa cosa siano i dati chiave » (Gazzaniga, Tales from Both Sides of the Brain: A Life in Neuroscience, Harper Collins, N.Y, 2015). Mi sembra di poter dire che non è questo il problema. La neuroscienza dispone di una ricchissima messe di dati attorno al cervello e ai suoi prodotti - il comportamento e i vari processi cognitivi - sono le idee fondamentali attorno a cui organizzare i dati quelle che ci mancano.
Gallistel, C. R. Here's why most neuroscientists are wrong about the brain , Nautilus, posted by C.R. Gallistel on oct 25, 2015, http://nautil.us/blog/heres-why-most-neuroscientists-are-wrong-about-the-brain

Il Sole Domenica 9.7.17
Neuroscienze / 2
Neuroni con il senso del tempo
di Arnaldo Benini

I fisici, scrisse 7 anni fa il filosofo della fisica dell’Università di San Diego Craig Callender, stanno gradualmente spogliando il tempo di tutti gli attributi che il senso comune gli attribuisce (Scientific American vol.302 June 2010). Il fisico Carlo Rovelli, ad esempio, racconta, nell’ultimo libro (L’ordine del tempo Adelphi 2017), lavoro di pseudofilosofia con pretese letterarie e non di divulgazione scientifica, che la «complessa collezione di strutture» del tempo sta perdendo i suoi «strati uno dopo l’altro».
Il senso comune non avrebbe motivo d’allarmarsi dello “sfaldarsi del tempo”, perché il mondo senza tempo, assicura Ro-velli, «è terso, ventoso e pieno di bellezza [...] come la bellezza arida delle labbra screpolate delle adolescenti».
Sarà vero, ma il mondo senza tempo, anziché assomigliare alle labbra screpolate (?) delle ragazzine, sembra piuttosto privo di senso e coerenza, dato che noi lo sentiamo come una sequenza di eventi, dice Callender, che avvengono nel tempo. Il contrasto sulla realtà e irrealtà del tempo non va posto fra fisici (non tutti) che la negano e il senso comune, che di abbagli ne ha preso e ne prende tanti, ma fra fisica, neuroscienze cognitive e biologia comparata. Le scienze biologiche, dalla metà del XIX secolo, con particolare intensità dagli anni ’60 del secolo scorso, dimostrano con innumerevoli dati, ampiamente corroborati, che il tempo è un prodotto del sistema nervoso, da quello più piccolo e arcaico a quello evoluto del cervello umano, che esprime il tempo numerico. Senza il senso del tempo è impossibile concepire qualunque aspetto del comportamento umano ed animale (D.Bueti, D.B. Buonomano Timing & Time Perception 2, 261-289,2014). Sistemi nervosi di api e formiche, grandi come capocchie di spilli, creano e trasmettono il senso del tempo come quantità esatta.
Per negare la realtà del tempo, i fisici dovrebbero confutare la metodologia e i risultati di queste ricerche. Invece, con poche eccezioni (cfr. Il Sole 24 Ore dell’1 dicembre 2014 e del 2 agosto 2015; TheAtlantic.com July 19,2016) non ne prendono atto, e non si chiedono che cosa il tempo sia e da dove venga. Il neurobiologo e psicologo D.V. Buonomano, dell’Università di Los Angeles, nel suo libro ben riuscito di divulgazione, esamina innumerevoli prove e riferisce di esperimenti e ricerche sperimentali e di neuropsicologia (anche suoi e dei suoi collaboratori), che confermano che il tempo è un meccanismo nervoso, e quindi che è reale. Di più: per lui, giustamente, il cervello è la macchina del tempo di tutti gli esseri viventi con sistema nervoso. Dello straordinario senso del tempo degli animali sono riportati molti esempi. Circa l’uomo, già William James, alla fine del XIX secolo, ammoniva che senza il tempo la mente è incomprensibile. Ciò fu confermato dalle neuroscienze cognitive. Meccanismi nervosi, trasmessi geneticamente, di cui l’autore parla in dettaglio, creano gli eventi del tempo e li trasmettono - a volte con profonde manipolazioni - ai centri pre-frontali della coscienza. Nella coscienza sono collegati passato, presente e futuro. Essa inoltre elabora il linguaggio per esprimere tutti gli aspetti del tempo. L’autore insiste che, senza il senso innato del tempo, comportamenti umani, sia semplici che altamente sofisticati come far musica e linguaggio, sarebbero impossibili. Il mental time travel, che è l’abilità cognitiva di immaginare, prevedere e preparare il futuro, ingrediente chiave dell’esistenza, è possibile solo col senso del tempo. Dell’ininterrotta attività del timing, cioè dell’elaborazione nervosa del senso del tempo, che continua nel sonno, e che sembra coinvolgere l’intera corteccia cerebrale e il cervelletto, sono riferite molte e documentate ricerche da vari centri. L’ultima parte del libro si occupa dei meccanismi della coscienza in rapporto al senso del tempo. Si getta uno sguardo, necessariamente incerto, su itinerari futuri di ricerca, con l’avvertenza che la natura del senso del tempo, come dato della coscienza, è destinata a rimanere oscura. È difficile capire come si possa negare l’evidenza tanto lineare della realtà del tempo.
La distinzione fra passato, presente e futuro, disse Einstein, è solo «un’illusione testardamente tenace». Alla luce dei dati delle neuroscienze, l’illusione tenace è la negazione del tempo.
ajb@bluewin.ch
Dean Buonomano, Your Brain Is a Time Machine: The Neuroscience and Physics of Time , Norton New York London, pagg.293, €35

Il Sole Domenica 9.7.17
Coraggio e paura / 1
Spinoza. Domare l’incertezza
di Salvatore Veca

Il grande Spinoza era convinto che la paura fosse una passione d’incertezza. Come la speranza. Thomas Hobbes, l’autore del Leviatano, ha costruito sulla paura la sua influente teoria dell’autorità politica e della sua legittimità. Il celebre esperimento mentale dello stato di natura prende le mosse dall’incertezza che genera paura fra le persone. L’incertezza investe le persone e innesca la risposta reattiva della paura quando la posta in gioco è il rischio della perdita del bene o del valore. Soprattutto quando perdita e disvalore toccano la vita delle persone. Qui la paura assume un carattere categorico. Ed è in uno stato di natura che si prova l’esperienza che l’inferno sono gli altri, come ha sostenuto eloquentemente Jean-Paul Sartre. Perché, in assenza di istituzioni e norme, collassa la stabilità delle aspettative sul comportamento e sul riconoscimento da parte di altri. E ciò vale per ciascuno, allo stesso modo. Il collasso della stabilità delle aspettative mutue va insieme alla dissipazione della fiducia mutua. La fiducia, come ha sostenuto David Hume, è il cemento della società, come la legge di gravità del suo Newton è il cemento della natura. Nella varietà di circostanze concrete, in cui può accaderci di provare l’esperienza della paura come passione d’incertezza, è come se ricadessimo in uno stato di natura. Le nostre società sono investite da volte di incertezza e, quanto minore è il capitale di fiducia, tanto maggiore è il rischio che l’incertezza investa direttamente noi stessi, condannandoci alla sorte della solitudine involontaria. Nessun uomo è un isola, ci dice John Donne. Ma nell’esperienza della paura come passione d’incertezza ciascuno è come inchiodato nella condizione dell’isolamento e teme categoricamente il disvalore. Sono convinto che in questa condizione elementare trovi le sue radici un buon numero di questioni e di alternative rilevanti per noi, abitanti dei primi decenni del ventunesimo secolo. Carlo Ginzburg ci ha suggerito in un superbo saggio, Rileggere Hobbes oggi, raccolto nel suo Paura, reverenza, terrore (2015), una massima, secondo cui per “capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, riccorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato”. Gioverà applicare la massima ai temi e ai tempi della paura per noi contemporanei.
Quanto al coraggio, vi invito a riflettere su due immagini. Ecco la prima: Marco Polo, nelle ultime pagine di Le città invisibili di Italo Calvino, nel suo dialogo con Kublai Khan: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Il secondo modo esemplifica sobriamente coraggio. La seconda immagine è di Walter Benjamin quando ci ricorda che agli ebrei era vietato investigare il futuro. Che la thorà e l’interpretazione li istruiscono nei vocabolari della memoria. Ma non per questo il futuro è diventato per gli ebrei un tempo vuoto e omogeneo. Perché ogni secondo, in esso, è la piccola porta da cui poteva entrare il messia. Presidiare le piccole porte è coraggio. Per aprire tenacemente varchi di ragionevole speranza, la passione spinoziana d’incertezza, gemella della paura.

Il Sole Domenica 9.7.17
Coraggio e paura / 2
Dateci buona politica
di Remo Bodei

Negli affreschi sul Buon governo di Ambrogio Lorenzetti sotto il cartiglio Securitas compare la scritta “Senza paura ogni uom franco cammini”. Nelle comunità bene ordinate libertà e sicurezza avanzano insieme, garantite dalla concordia del corpo civico. Ma è proprio la relativa compattezza delle nostre società e l’insieme delle nostre libertà che il terrorismo intende attualmente incrinare. Per definizione, infatti, ogni terrorismo opera con mezzi violenti per influenzare i processi politici. Il volto nuovo che esso assume è dovuto al fatto che, da oltre trent’anni, al-Qaida prima e Daesh poi hanno estremizzato la divisione del mondo in “regno della guerra” ( dar-al-harb), abitato dagli infedeli, e “regno della pace” ( dar al-Islam), abitato dai fedeli. Tutte le diverse tradizioni coraniche hanno finora considerato la jihad un dovere collettivo e non individuale, che impone di non cercare autonomamente il martirio e di non trasformare in vittime donne e bambini. La svolta, relativamente recente, è da attribuirsi ai seguaci dell’ideologia diffusa dal fondatore del movimento dei Fratelli mussulmani, Hasan al-Bann?, che ha legittimato “l’arte bella del morire” come martiri, uccidendo in nome di Allah quanti più infedeli possibili. Il suicidio mediante bombe piazzate sulla propria persona o su aerei, stadi, locali, redazioni di giornali è così diventato un’arma comune e lecita.
Quando si combatte frontalmente un nemico riconosciuto, il coraggio richiesto può essere, come in ogni guerra, mobilitato e indirizzato. Ma come comportarsi nei confronti di terroristi che non hanno paura di morire, che ritengono di compiere una missione voluta da Dio e che perciò si sentono invincibili? Come affrontare chi agisce individualmente e, ritenendosi nel giusto, colpisce chiunque, dovunque e con qualsiasi mezzo? L'unica forma di coraggio individuale è quello di essere vigili e di non farsi vincere dalla paura. Ma il vero e più efficace coraggio è quello di cui deve farsi carico la politica disinnescando le ragioni profonde della violenza e difendendo i diritti umani.

Il Sole 9.7.17
Gli anniversari dell’arte
Il mezzo «fiasco» di Guernica
12 luglio 1937: la tela di Picasso venne esposta per la prima volta all’Expo parigina. L’opera, mal posizionata, non venne notata. Ad alcuni critici non piacque, e ai baschi non interessò acquisirla
di  Marco Carminati

so dipinse Guernica in un impeto di sdegno. Era il 1937. La Spagna era insanguinata dalla guerra civile e il pittore - che risiedeva a Parigi - sosteneva apertamente la causa dei repubblicani. Pur operando a distanza, egli accettò la nomina di direttore del Prado e nel contempo accettò di decorare il padiglione della Spagna repubblicana all’Esposizione di Parigi, programmata tra maggio e novembre di quell’anno. Come soggetto scelse nientemeno che il generalissimo Franco (da lui definito «un mignolo in erezione»): intendeva e ritrarlo come un buffone in forma di escremento con le budella a penzoloni e la bocca piena di cimici. Stava lavorando al singolare dipinto, quando il 27 aprile 1937 giunse a Parigi la drammatica notizia del bombardamento della città di Gernika, capitale culturale della Nazione Basca. Si trattava di un odioso eccidio di civili, colpiti da un improvviso raid dell’aviazione nazifascista (anche se i franchisti sostennero in seguito che erano stati i baschi a dar fuoco alla loro città).
Sconvolto dalla notizia, Picasso gettò in un angolo il «mignolo in erezione» e si concentrò sul dramma di Gernika (in spagnolo Guernica): cinque giorni dopo l’eccidio l’artista era già al lavoro attorno alla nuova opera. Dapprima produsse molti abbozzi, poi mise mano alla gigantesca tela, alta tre metri e mezzo a lunga quasi otto. Per documentare il procedere della composizione convocò nel suo studio la fotografa Dora Maar (sua nuova fiamma) perché fissasse in splendide fotografie tutte le fasi del lavoro. Inoltre, pensò di aprire le porte dell’atelier ad artisti e intellettuali. Roland Penrose, Alberto Giacometti, Max Ernest, Paul Eluard e André Breton fecero visita al “cantiere” di Guernica. E a loro s’aggiunse anche lo scultore Henry Moore che lasciò un singolare resoconto della visita. Picasso era emozionato ed entusiasta per quelle presenze, e approfittò dell’occasione per spiazzare un po’ i colleghi giunti ad omaggiarlo: «Alla donna che si precipita fuori dalla cabina» ricordava Moore «Picasso fece notare che mancava qualcosa, così andò a prendere un lungo pezzo di carta igienica e lo appiccicò in mano alla donna, praticamente per dire che si trovava in bagno quand’erano cominciate a piovere le bombe». La scelta di far conoscere Guernica già durante la lavorazione si rivelò un’abilissima mossa di marketing, perché il quadro divenne famoso prima ancora di essere terminato, almeno tra le file degli artisti e degli intellettuali più avveduti.
A metà giugno la grande tela risultava finita. Picasso la staccò dal telaio, la arrotolò e la consegnò al Padiglione spagnolo dell’Expo. Il Padiglione però non era ancora pronto. Secondo i piani, l’Exposition di Parigi doveva essere aperta il 1° maggio, in concidenza con la Festa del Lavoro. Ma a ritardare il taglio del nastro erano stati proprio imponenti scioperi di lavoratori e scontri tra manifestanti, polizia e gruppi estremisti. Il bilancio dei disordini fu, tra l’altro, piuttosto pesante: a terra rimasero 6 morti.
Così fu necessario posticipare l’apertura al 24 maggio, ma chi venne invitato all’inaugurazione dovette subire una notevole delusione: sui quarantadue padiglioni previsti solo cinque erano pronti! E, come se non bastasse, ovunque mancava la luce elettrica. La Spagna repubblicana riuscì a inaugurare il suo stand solo il 12 luglio. Per ironia della sorte il padiglione spagnolo si trovava accanto a quello della Germania nazista (disegnato da Albert Speer) e davanti a quello della Città del Vaticano, al cui interno era stato collocato un murale che celebrava Santa Teresa d’Avila quale patrona dei martiri franchisti in Spagna.
Quel 12 luglio 1937 rappresentò per la tela di Guernica una data storica, perché era la prima volta che il capolavoro di Picasso veniva presentato al pubblico. Conoscendo l’eccezionale notorietà e importanza che il dipinto ha assunto nella storia dell’arte, ci si aspetterebbe di assistere, a Parigi, a un esordio trionfante. Invece è singolare apprendere che, nonostante il battage pubblicitario condotto attorno all’opera in fase di elaborazione e la grande attesa che la tela aveva suscitato tra gli intenditori del tempo, una volta posizionata nel padiglione spagnolo Guernica di Picasso raccolse un’attenzione di pubblico a dir poco modesta. Non solo. Conobbe subito le punture dei critici e l’onta dell’indifferenza da parte delle autorità basche.
Molte ragioni provocarono questo mezzo fiasco. Intanto Guernica non era certo la prima opera che il pubblico si trovava davanti entrando nel padiglione spagnolo. Il primo impatto era con tre sculture. La prima - piuttosto ingombrante e alta dodici metri - era opera di Alberto Sànchez (un artista operaio, fornaio e sindacalista) e rappresentava un cactus in cemento sopra la macina di un mulino. La seconda, modellata nel ferro da Julio Gonzaléz, raffigurava una madre catalana. La terza era una testa dello stesso Picasso. Passate le tre sculture, il pubblico veniva circondato da fotomontaggi ingranditi con citazioni del presidente della repubblica spagnola Manuel Azaña Diaz. Poi, si veniva invitati a scendere verso un palcoscenico, attraverso un cortile coperto. Solo a questo punto ci si trovava faccia a faccia con Guernica. Che però non era l’unica opera figurativa presente. Il padiglione spagnolo era gremito di dipinti, disegni e manifesti di numerosi altri artisti spagnoli (tra cui Mirò) che esprimevano soggetti analoghi, tutti legati alle difficoltà vissute dalla Spagna in quel frangente di lotte fratricide. Come a dire che Guernica non vantava certo l’esclusiva sul fronte dell’angoscia e del dolore.
Anche la collocazione del dipinto non fu molto favorevole al suo successo. La tela subiva l’immediata “concorrenza” di una fontana di Alexander Calder, posizionata proprio davanti al quadro. Ma ancor più sfavorevole si rivelò il fatto cheGuernica si trovasse praticamente alle spalle del palcoscenico sul quale si svolgevano, con grande frequenza, spettacoli molto seguiti dal pubblico. Fu addirittura Le Corbusier a far notare quest’infelice collocazione, rimarcando che nessuno guardava Guernica perché tutti erano sempre voltati dalla parte opposta a godersi gli spettacoli. Il palcoscenico offriva in effetti attrazioni d’ogni tipo, dai film di Carlo Velo, Luis Buñuel, Ernst Hemingway e Joris Ivens, alla messa in scena di classici come Lope de Vega, Tirso de Molina e Juan del Encina. Le esibizioni di gran lunga più gradite erano però i concerti quotidiani del chitarrista Agapito Marazuela, specializzato in antiche canzoni spagnole.
Oltre alla “distrazione” del pubblico, la tela di Picasso dovette affrontare anche le bordate della critica. Scontate erano le espressioni di disprezzo contenute nella Guida tedesca all’Expo, che biasimò in generale il padiglione spagnolo per la sua povertà, mentre Guernica venne liquidata come un «guazzabuglio di parti di corpo che anche un bambino di quattro anni avrebbe saputo dipingere». Le puerili critiche dei tedeschi non fecero grande breccia su Picasso. Dovettero invece spiacergli molto le sfavorevoli prese di posizione di personaggi assai più autorevoli come Anthony Blunt, che definì Guernica «non un gesto di pubblico cordoglio, bensì l’espressione di un attacco di follia privato».
Ma a colpire ancor più nel profondo Picasso fu senza dubbio l’indifferenza dei baschi verso la sua opera. Il delegato del partito nazionalista basco Manuel de Irujo, ad esempio, rifiutò l’invito ad andare ad ammirare Guernica in preparazione nello studio dell’artista. Ma accadde di peggio. Quando Picasso solennemente dichiarò: «Se il presidente Aguirre lo chiede, il dipinto è dei baschi», il presidente basco José Antonio Aguirre y Lecube fece sapere di non essere affatto interessato all’opera. Pare che in cuor suo condividesse il giudizio su Guernica espresso dall’artista e conterraneo basco José María Ucelay: «Come opera d’arte è una delle più scadenti mai realizzate al mondo... Sono sette metri per tre di pura pornografia, che gettano merda su Gernika».
La grandezza e l’importanza di Guernica sarà riconosciuta subito dopo la chiusura dell’Expo. Il quadro si mise infatti volticosamente a viaggiare per il mondo e tutti lo riconobbero come il più sconvolgente simbolo dell’assurdità della guerra.

il manifesto Alias 9.7.17
La vita futura della particella Xi
Quali sono gli scenari che si disegneranno dopo la scoperta di Ginevra? Un puzzle da completare: l’85% della materia e i due terzi dell’energia dell’universo sono ancora «oscure». Al Cern stanno già progettando il prossimo acceleratore, che entrerà in funzione nel 2040
di Andrea Capocci

Per la prima volta, nei laboratori del Cern di Ginevra è stata rilevata la particella Xi, un’importante conferma del «modello standard» della fisica delle particelle. Lo ha annunciato Giovanni Passaleva, che dirige il gruppo di ricerca che ha compiuto la scoperta, all’annuale conferenza europea sulla fisica delle alte energie (si tiene in questi giorni a Venezia). Il gruppo di Passaleva lavora presso l’acceleratore di particelle Lhc lo stesso che ha permesso la scoperta del bosone di Higgs. Per dare l’idea della complessità di un esperimento del genere: la lista degli autori occupa da sola tre pagine dell’articolo scientifico che riporta la scoperta.
Il «modello standard» è la teoria che descrive le particelle fondamentali con cui si spiega la materia di cui è composto l’universo e le sue interazioni. Come ipotizzarono Murray Gell Mann e George Zweig nel 1964, le particelle più pesanti presenti nel nucleo degli atomi che strutturano la materia, i protoni e i neutroni, sono composte da particelle ancor più elementari, dette «quark». I quark sono di sei tipi diversi, distinti per massa e carica elettrica. I quark possono aggregarsi tra loro, ma soltanto se la loro combinazione rispetta alcune regole. Protoni e neutroni sono l’esempio di aggregazione più comune. Altre combinazioni sono possibili, ma si trasformano (i fisici dicono «decadono») in altre particelle molto rapidamente e normalmente non sono osservabili con gli strumenti tradizionali. Una particella Xi, ad esempio, decade dopo meno di un millesimo di miliardesimo di secondo. Alle energie elevate che possono essere raggiunte al Cern (14 TeV), però, si possono generare moltissime particelle di questo tipo, misurandone le proprietà fisiche con precisione.
A QUESTO SCOPO, l’acceleratore Lhc del Cern studia le collisioni tra fasci di protoni lanciati a velocità prossime a quelle della luce. In queste collisioni, le particelle ne formano alcune più instabili, che decadono a loro volta dando vita ad altre particelle. In questo modo, gli scienziati ritengono di poter rilevare anche le particelle, come la Xi, la cui esistenza è prevista dalle leggi della fisica ma che di fatto sono talmente instabili da non poter essere individuate con altre tecniche. Come previsto dal Modello Standard, la particella Xi è composta da due quark del tipo «charm» e un quark «up» e pesa come quattro protoni, le particelle atomiche con la massa maggiore. La sua esistenza non è un’assoluta novità. Già nel 2002, al Fermilab di Chicago era stata avvistata una particella con caratteristiche simili, ma con una massa inferiore a quella teorica. Ma la misura di allora fu accolta da una certa diffidenza. L’esperimento descritto a Venezia invece rimette a posto le cose. Dunque, l’idea che abbiamo sul funzionamento della cosiddetta «interazione forte» che tiene insieme le particelle elementari, è corretta.
È L’ENNESIMA CONFERMA di una teoria che dagli anni ’60 ha sbagliato poche previsioni. Molte di queste sono state verificate proprio al Cern, anche con gli acceleratori delle generazioni precedenti rispetto al Lhc. Fu una scoperta simile, l’osservazione dei bosoni W e Z previsti dalla teoria, a meritare a Carlo Rubbia il premio Nobel del 1984 insieme a Simon van der Meer. Pochi anni fa, sempre all’Lhc, la scoperta del bosone di Higgs (altro premio Nobel) fu effettuata in maniera analoga. In quel caso, la scoperta era ancor più rilevante. Il bosone di Higgs, oltre a confermare il Modello Standard, gioca un ruolo decisivo anche nelle teorie sull’origine dell’universo nei primi momenti successivi al Big Bang.
Questo tipo di scoperte lasciano un’impressione da «fine della storia»: il modello standard funziona, gli esperimenti non fanno altro che confermarlo e dunque non c’è motivo di andare avanti alla ricerca di nuove teorie. Ma è davvero così? Ovviamente, no. Il modello standard, nonostante la sua efficacia, lascia insoddisfatte molte domande. Ad esempio: il modello si basa su ben 19 costanti, il cui valore è fissato dagli esperimenti: è possibile capire l’origine di questi numeri con una teoria ancor più elementare? Oppure: come conciliare le interazioni fondamentali descritte dal modello standard (l’interazione «forte» e quella «elettrodebole») con la forza di gravità, mirabilmente studiata da Einstein ma in un quadro teorico completamente diverso?
INFINE, FORSE IL QUESITO più importante: l’85% della materia e i due terzi dell’energia dell’universo sono ancora «oscure», cioè non sappiamo di cosa siano fatte. Il Modello Standard, dunque, ci racconta solo un piccolo pezzo della realtà. Riusciremo un giorno a completarlo? Sono domande molto difficili, e che non interrogano solo gli scienziati del Cern. La fisica delle alte energie si rivolge sempre più spesso verso lo spazio alla ricerca di risposte adeguate. Sulla Terra, l’atmosfera ci protegge da fenomeni fisici intensi come quelli provocati da protoni lanciati alla velocità della luce. Ma nelle stelle e nelle galassie lontane avvengono reazioni che coinvolgono energie inaccessibili persino ai laboratori del Cern.
MOLTI STUDIOSI di fisica delle particelle oggi utilizzano telescopi spaziali o osservatori posti in luoghi inusuali, sotto al Gran Sasso o a due chilometri di profondità nel ghiaccio dell’Antartide, come l’osservatorio IceCube. In quelle condizioni, la schermatura dall’esterno è tale da permettere di isolare i neutrini, altre particelle ancora misteriose e provenienti dalle zone più remote e irrequiete dell’universo.Lo stesso Cern, in questo momento, è impegnato nella ricerca delle particelle che potrebbero semplificare il Modello Standard con le sue 19 costanti ancora da spiegare. Tale «ineleganza» potrebbe essere superata dalla teoria detta «Supersymmetry» o «SuSy», secondo cui ogni particella elementare possiede una compagna «super-simmetrica». Al Cern finora queste particelle non sono state avvistate. Potrebbe trattarsi della bocciatura della teoria SuSy, o l’indicazione che le particelle supersimmetriche devono essere cercate a livelli energetici ancora maggiori: su questo, solo gli esperimenti futuri potranno darci qualche indicazione in più, se Lhc sarà in grado di raggiungere energie ancora superiori ai 14 TeV attuali.
NEL FRATTEMPO, AL CERN stanno già lavorando alla progettazione del prossimo acceleratore, ancora più grande e potente dell’Lhc attuale. Per ora, il progetto si chiama Future Circular Collider (Fcc). Si tratterà di un tunnel lungo cento chilometri (rispetto ai ventisette attuali) in cui a collidere saranno fasci di protoni, elettroni e delle loro controparti di anti-materia, gli anti-protoni e i positroni. Nel Fcc si potranno raggiungere energie dell’ordine dei 100 TeV, sette volte più dell’acceleratore attuale.
Dato che l’acceleratore Lhc, entrato in funzione nel 2008, proseguirà la sua attività ancora per una ventina d’anni, per vedere in funzione il Fcc occorrerà aspettare il 2040, o giù di lì. Sembra un orizzonte temporale lunghissimo, in un’epoca dominata dalla precarietà delle cose e delle persone. Lo sforzo finanziario a carico degli stati europei genererà legittime discussioni sulle priorità da assegnare ai sempre più magri bilanci nazionali. Ma gli studi sull’impatto economico del Lhc, come quello dell’economista Massimo Florio dell’Università di Milano, suggeriscono che anche un laboratorio di fisica teorica può creare ricchezza: a patto che le tecnologie e le conoscenze prodotte al Cern circolino senza barriere poste da brevetti e copyright.

il manifesto Alias 9.7.17
Dove non impera la ratio weberiana
Saggi. Cartina di tornasole dell’intera «Storia del mondo» Einaudi, il quarto volume, «Verso il mondo moderno 1750-1870», guarda criticamente al fulgore dell’espansionismo occidentale
di Francesco Benigno

L’attuale irresistibile tendenza a stringere legami sempre più vincolanti tra le varie parti del mondo, ovvero il fenomeno cui è stato dato il nome di globalizzazione, ha alle spalle una lunga storia di connessioni e di convergenze: da un ventennio, ormai, gli storici studiano le complesse vicende di tali incroci transcontinentali, il loro sviluppo e i loro effetti, traendone importanti stimoli metodologici, fra cui l’invito a sfuggire quel tanto di nazionalismo provinciale, di teleologismo anacronistico, e d’inguaribile eurocentrismo che ancora affliggono alcuni dei nostri studi.
È perciò lodevole la decisione della Einaudi di tradurre la Storia del mondo in sei corposi tomi, originariamente uscita dall’editore Beck di Monaco di Baviera, un progetto ideato dal tedesco Jürgen Osterhammel e dal giapponese Akira Iriye, di cui è appena uscito il quarto volume, titolato Verso il mondo moderno 1750-1870 (a cura di Sebastian Conrad e Jürgen Osterhammel, pp.LXI-1016, euro 110,00). Il volume è significativo perché costituisce per certi versi una sorta di «cartina al tornasole» dell’intera opera, che puntando dichiaratamente a offrire una visione meno centrata sulla conquista europea del mondo, si misura in queste pagine con il periodo di massimo fulgore dell’espansionismo occidentale.
I due curatori non nascondono, nella loro introduzione, le difficoltà dell’impresa e anzi si mostrano consapevoli del fatto che studiare i nessi globali in cui si intrecciano le varie parti del mondo è affare rischioso perché enfatizza quel relativamente piccolo settore sociale dedito a praticarli. L’epoca di cui parliamo è sempre stata raccontata come segnata da due eventi cataclismatici e periodizzanti, capaci di avviare la conquista europea dell’intero mondo: la rivoluzione francese e l’inizio, in Inghilterra, del processo di industrializzazione.
Ora, l’impianto revisionista del volume curato da Conrad e Osterhammel vorrebbe offrire di questo periodo una lettura alternativa, un diverso percorso verso la modernità (il lemma tedesco wege, percorso, presente nel titolo originale del libro è sfumato nell’incerto italiano verso) che richiama da un lato la longue durée dei commerci e dei circuiti di scambio transcontinentali e dall’altra la valorizzazione delle «risposte» e degli adattamenti alla sfida europea provenienti dalle regioni di altri continenti.
Gli autori chiamano questa prospettiva «laterale», perché mette a fuoco soprattutto le relazioni trasversali e comparative e punta a decostruire un’immagine della modernità come qualcosa che si afferma in diversi luoghi, in differenti, successivi momenti a seguito di trasformazioni interne alle varie società. La critica di quell’insieme fisso di contrassegni che segnalano la raggiunta o mancata modernizzazione di una società, intendendola come l’irresistibile affermazione della razionalità weberiana occidentale, è utile e opportuna: in base a questa visione – scrivono efficacemente i curatori – gli europei avrebbero fatto irruzione nelle culture e società locali per eliminare quelle pratiche (religiose, igieniche, comportamentali) considerate incompatibili con la modernità.
Uno sguardo più attento dovrebbe cogliere anche gli adattamenti, gli influssi reciproci e i variegati «progetti di modernizzazione» intrapresi su scala mondiale, e se questa ricognizione è nel volume appena abbozzata lo si deve a un’ambiguità di fondo: la storia globale rischia a volte, in queste pagine, di essere confusa con la storia del mondo. Nella sua versione più convincente (ad esempio nel caso della connected history proposta da Sanjay Subrahmanyan) essa non pretende di tradursi in un resoconto alternativo, ma di mettere in luce le connessioni globali che una storia tradizionale, attenta soprattutto alla dimensione nazionale, ha trascurato.
Così, i promettenti spunti dell’introduzione, e specie il proposito di analizzare la transizione verso la modernità come un patteggiamento fra il proprio e l’estraneo (dove l’estraneo sarebbe costituito da un’idea di progresso a tappe fisse, che come un dardo temporale già lanciato avrebbe prima o poi raggiunto tutte le società), si perdono poi in quelle parti del volume che vorrebbero proporre una narrazione a tutto tondo delle vicende mondiali del periodo. Non aiuta la ripartizione assai tradizionale dei capitoli – politica, economia, cultura, società – e soprattutto non aiuta una sorta di ideologia revanscista qua e là affiorante, sostanzialmente mirata a sfumare e sminuire il peso della conquista europea del mondo.
Lo si vede bene nel saggio di apertura di Cemil Aymid, dedicato alla storia politica del lungo Ottocento, un secolo che viene esteso fino alla prima guerra mondiale. Per un verso il testo di Aymid è caratterizzato dalla rivalutazione dell’esperienza imperiale (gli imperi non vanno trattati come una tappa dello sviluppo statuale precedente allo stato nazionale) e per altro verso dalla trattazione di quelle che lui chiama regioni culturali, ma che sono anche allo stesso tempo razziali e religiose, proiezioni di una sorta di geopolitica dell’immaginario.
Tutto il saggio di Aydin si svolge nell’intreccio tra imperi e regioni: la storia sembra prodursi così spontaneamente, come un incontro-scontro di sistemi politico-sociali e culturali variamente articolati. Restano fuori dal quadro l’ideologia, la forza militare, la rivoluzione, lo scontro sociale: per dirlo in una parola la politica. Inoltre, l’insistenza sulla dimensione razziale e sulle dinamiche tardo-ottocentesche conducono a sorprendenti affermazioni, come quella per cui il nazionalismo si sarebbe sviluppato solo nella seconda metà del XIX secolo (trascurando così i nazionalismi greco, polacco, tedesco e italiano) o quello per cui le rivolte antiborboniche dell’America latina non furono espressioni di separatismo anticoloniale ma di non meglio precisati «vari ed eterogenei desideri di sovranità».
Pronto nel notare come all’interno del ricco repertorio del pensiero politico di altre parti del mondo siano stati fievoli gli echi del costituzionalismo e del tema dei diritti civili, Aymid è del tutto silente nei confronti della diffusione degli ideali rivoluzionari, e gli sfugge tanto il nesso tra lotta anti-tirannica e aspirazioni all’indipendenza nazionale quanto la diffusione su scala planetaria dei temi relativi alla questione sociale (per non dire del movimento anarchico).
Accade così che la trattazione di un evento politico di prima grandezza per la storia del mondo come la Guerra dell’oppio, vale a dire l’affermazione delle armi britanniche su quelle cinesi e la conseguente imposizione di nuove regole commerciali (il Celeste Impero, a seguito della sconfitta, dovette accettare in cambio dei prodotti cinesi non più l’argento, come accadeva in passato, ma l’oppio britannico, coltivato in India e Afghanistan) si trova collocato nella sezione dedicata all’economia, scritta con mano sicura da Roy Bin Wong.
Le sue dense pagine affermano come le relazioni dell’Europa con il resto del mondo non possano prescindere da un’analisi del potere politico e dell’uso della forza militare. E aggiungono che, pur condividendo l’aspirazione a non privilegiare gli attori e gli eventi europei, va riconosciuto che l’Ottocento è stato «il periodo di maggiore impatto europeo a livello globale» e anzi «se mai l’Europa è riuscita a dominare il mondo politicamente ed economicamente, è stato nel corso del XIX secolo».

il manifesto Alias 9.7.17
Di fronte al crollo delle evidenze inconfutabili
Filosofi. Due volumi Aragno ripropongono il pensiero del filosofo russo, di origine ebraica Lev Sestov: «La filosofia della tragedia», su Dostoevskij e Nietzsche, e i dialoghi con Benjamin Fondane, più le lettere
di Michela Venditti

«Per tutta un’intera opera di una straordinaria monotonia, indirizzato perennemente verso le identiche verità, Šestov dimostra senza stancarsi che il sistema più stringato, il razionalismo più universale, finiscono sempre per urtare contro l’irrazionale del pensiero umano»: così, Albert Camus, lapidario, inseriva nel suo Mito di Sisifo, Lev Šestov – insieme a Jaspers, Heidegger, Kierkegaard e i fenomenologi – tra i filosofi dell’assurdo.
Di questo notevole personaggio di origine ebraica, presente nella cultura europea tra gli anni novanta del XIX secolo e il primo trentennio del ’900, che aveva lasciato nel ’21 la Russia per Parigi abbandonando il suo vero nome, Ieguda Lejb Švarcman per distinguersi dal padre con cui era in conflitto, vengono ora riproposti due volumi, entrambi da Aragno, La filosofia della tragedia Dostoevskij e Nietzsche (pp. 205, euro 20,00) e, firmato da Benjamin Fondane, In dialogo con Lev Šestov Conversazioni e carteggio (pp. 401, euro 25,00 – entrambi a cura di Luca Orlandini).
Nella nuova riflessione sull’opera dell’autore di Delitto e castigo, che va da Merežkovskij a Gide e a Bachtin passando per Nikolaj Aleksandrovich Berdjaev, secondo il quale «il pensiero metafisico russo più sottile e complesso scorre tutto nell’alveo scavato da Dostoevskij e da lui deriva», Lev Šestov (che aveva già alle spalle articoli su Shakespeare, Tolstoj e Cechov) aveva pubblicato nel 1903 a San Pietroburgo il suo saggio (riedito a Berlino nel ’22, e tradotto in francese nel ’26), presentando Dostoevskij e il suo continuatore Nietzsche come coloro che esprimono appieno la filosofia della tragedia, l’unica forma possibile di pensiero moderno, che Fondane chiama «l’angoscia di fronte alla folle danza dell’essere e il desiderio di fermarla a ogni costo».
I loro percorsi esistenziali mostrano il crollo della fiducia nei sistemi rassicuranti dell’idealismo e della scienza, il mondo delle evidenze inconfutabili: «Dostoevskij parla di una trasformazione (la parola giusta sarebbe stata “rigenerazione”, non “mutamento”, come traduce il curatore) delle proprie convinzioni, in Nietzsche si tratta della trasvalutazione di tutti i valori».
Il compito stesso dell’arte non consiste, per Šestov, «nel piegarsi a regolamenti e norme, inventate da uomini diversi su una base o su un’altra, ma nel rompere le catene che gravano sull’intelletto umano che aspira alla libertà». L’uomo del sottosuolo e Zarathustra, l’esperienza della reclusione e quella della follia, portano Dostoevskij e Nietzsche nel territorio della tragedia, fino al venir meno del fondamento, all’apoteosi della precarietà, dunque hanno come approdo la certezza della solitudine. È questo un «territorio dello spirito» in cui tutte le certezze precedenti si riconoscono come false perché non giustificano la sofferenza, uno spazio in cui c’è solo tenebra e caos, e l’uomo accetta la realtà con tutti i suoi orrori e le sue contraddizioni: qui ha inizio la «filosofia della tragedia», che ha il compito di turbare e non di proteggere, che conduce all’assurdo la condizione esistenziale dell’uomo moderno.
A bilanciare l’accusa di monotonia lanciata da Camus, un altro filosofo di Kiev amico di Šestov, Gustav Špet, scrisse alla moglie, da Göttingen, nel ’12: «egli è molto difficile da capire, non però perché scriva in modo complicato, ma per la sua singolare maniera di trarre conclusioni negative, cosa che dalla maggioranza viene intesa come scetticismo e pessimismo, mentre io non conosco una persona che più di lui cerchi e desideri trovare la verità».
Quanto agli incontri tra Šestov e Fondane, essi testimoniano non solo l’evolversi della loro amicizia e della loro collaborazione, ma descrivono soprattutto il vivace ambiente culturale degli anni venti-trenta: il legame tra Šestov e quello che definisce il suo «vero maestro», l’unico ad averlo «ascoltato», Edmund Husserl, ma anche con Ortega y Gasset, Levy-Bruhl, Buber, Gide, Heidegger.
Protagonista della cultura rumena moderna, Benjamin Wechsler, che già in patria si firmava Fundoianu, nome poi mutato in Fondane quando arrivò Parigi nel ’24, è stato autore di saggi e poesie sulle principali riviste d’avanguardia, tra cui Integral, da lui fondata nel ’25 a Bucarest e diretta ancora in Francia insieme al poeta Ilarie Voronca. Vicino ai surrealisti, ma contrario al comunismo, sarebbe diventato una figura centrale dell’esistenzialismo ebraico proprio seguendo il pensiero di Šestov, che conobbe personalmente nel ’24, divenendone discepolo, divulgatore e dunque amico.
Il volume appena uscito – che comprende anche alcuni articoli di Fondane sul filosofo russo – riproduce la recente edizione francese dei Rencontres, a cura della figlia di Šestov, Nathalie Baranoff, e di Michel Carassou, con una postfazione di Ramona Fotiade, che introduce anche la versione italiana. Fondane consegnò nel ’39 gli appunti del libro all’amica Victoria Ocampo, attivista e scrittrice argentina fondatrice della rivista Sur, sulla quale pubblicavano Borges e Cortàzar, poiché già sapeva di non poterla più rivedere: sarebbe morto infatti, ad Auschwitz nel ’44.
Entrambi di grande importanza, i volumi (evidentemente preparati in contemporanea, perché la postfazione di Orlandini è presente immutata, refusi compresi, in tutti e due i testi, così come le note bibliografiche) sono gravati da innumerevoli e spesso irritanti errori, cui si aggiungono ripetute incongruenze che suggeriscono l’assenza di un’attenta revisione delle bozze.
La traduzione di Fondane è superficiale, a volte sbagliata, ma ciò che più stupisce è che Orlandini (però nel libro di Fondane!) dichiari che il volume di Šestov è una «nuova» traduzione e la «prima edizione critica in italiano», mentre la mancanza di un esplicito riferimento all’originale russo fa intuire che la traduzione si sia basata sull’edizione francese del 2012, delle cui note il curatore dichiara di aver usufruito.
Ora, viene da chiedersi, ha ancora senso, oggi, proporre al lettore italiano un’opera russa attraverso la mediazione del francese, soprattutto quando ci si trova di fronte a un autore, è il caso di Šestov, le cui opere sono in gran disponibili in italiano? Meglio sarebbe che chi volesse conoscere davvero Šestov, un autore ancora stimolante, tornasse alla più fedele traduzione di Ettore Lo Gatto (1950, poi 2004 con una nota di Sergio Givone), che restituiva al filosofo il linguaggio e l’elegante argomentare dell’originale russo.

il manifesto Alias 9.7.17
Torna, imperiosa, la voce sensuale di Moll Flanders
Classici inglesi . Da Feltrinelli una ottima traduzione di Antonio Bibbò ci restituisce la storia della famosa ladra, concepita nel 1722 per essere la controparte femminile di Robinson Crusoe
di Viola Papetti

Daniel Defoe fu giornalista geniale, uomo d’affari fallimentare, perseguitato dai debiti, biografo di banditi famosi, dissidente, fuori dalla chiesa anglicana anzi da ogni chiesa, che si accendeva anche prendendo parte a diatribe sociali e politiche. Swift lo ricordava come quel tizio messo alla gogna per debiti – la giustizia inglese era a quei tempi pronta e spietata. Malgrado le sue alterne fortune, Defoe produceva instant books sul commercio, la religione, l’educazione, la povertà, la peste, interventi a sostegno prima dei whig, poi dei tory.
Uno straordinario esempio di giornalismo è The Journal of the Plague Year (del 1722), raccolta di osservazioni, ricordi pubblici o privati della grande peste del 1665 che aveva fatto di Londra un inferno in terra, insomma il moderno documentario di quel tragico evento, che facilmente avrebbe potuto scadere nel sentimentalismo o nella pietas puritana. Ma Defoe fondò saldamente su tanti fact e misurata fiction la narrazione realistica, diretta, orale in origine, priva di metafore e lumi trascendentali.
«Oggi più o meno tutti hanno imparato a scrivere badando alle circostanze – notò Mario Praz nella sua famosa Storia della letteratura inglese – ma quanti lo facevano prima di Defoe? Egli trovò un modo di dare l’ impressione della realtà , della cosa vissuta, insistendo sui minuti particolari, e proprio su certi minuti dettagli che non erano essenziali all’intelligenza del racconto, ma che contribuivano potentemente a creare ‘un’atmosfera’». Praz si riferiva a quelle minutaglie inutili, quell’ effet de réel che anni dopo Roland Barthes avrebbe considerato essenziali a fondare il senso di verità della scrittura naturalistica. «Questo è il realismo di Defoe: una sorta di pacata allucinazione, la cui credibilità è infinitamente ampliata dalla casualità del discorso – commentò Giorgio Manganelli – Tendenzialmente, quindi, è un documento, una serie di “prove”, di “testimonianze”, che mirano alla credibilità … Le pagine, gli episodi si giustappongono in un disordine vitale, e quel tanto di unità che vi si ritrova nasce da certe qualità del personaggio, della “voce recitante”, qualità più spesso tipiche, mitiche che individuali.»
All’età di sessant’anni Defoe divenne, con Robinson Crusoe, il primo, non solo cronologicamente, dei grandi romanzieri del Settecento inglese: Fielding, Richardson, Sterne. I suoi successori non riuscirono a estrarre dalla sua cava tutto l’oro che lui, artista inconscio, vi aveva sepolto – secondo Virginia Woolf. Quel Robinson che aveva fatto naufragio in una situazione sconosciuta (l’isola), ancora tutta da capire, ma ricca di futuro, resta il campione dell’ homo oeconomicus; e tuttora ci chiama a confronto.
Moll Flanders, pubblicata nel 1722, doveva essere la controparte femminile di Robinson, ma l’intrusione del curatore nel diario della famosa ladra, un anonimo puritano che taglia ogni licenziosità o frivolezza, dimentica di dar ragione dei numerosi figli, e della conclamata debolezza femminile – qui esercitata come arte manipolatoria – conferisce alla protagonista una prontezza di pensiero e di azione che è quasi virile. In ogni confronto coi suoi cinque mariti, è lei a dominare e decidere. Nell’ottima traduzione appena uscita da Feltrinelli di Antonio Bibbò (pp. 410, € 9,00) la voce di Moll risuona forte e chiara, le sue penitenze sono nubi passeggere, i suoi stratagemmi sempre vincenti. Ogni scena di sesso – che il premuroso curatore ci risparmia – è stata silenziosamente decisa a priori da lei, che la giustifica con la solita, ottima scusa: la minaccia della povertà presente o imminente. Per ogni furto che compie sempre con destrezza, c’è il diavolo che, invisibile, l’ha manovrata contro la sua esplicita volontà. E la sua volontà morale è così forte e esigente che si ritorce contro la vittima e l’accusa di aver colpevolmente provocato e assistito il furto con la propria oltraggiosa noncuranza o peggio.
Oltre alla assenza delle metafore e delle similitudini, il linguaggio di Defoe è svelto e convenzionale come richiedevano la prosa scientifica e il nuovo pubblico di lettori (artigiani, commercianti, donne, fanatici di vario tipo ) che Defoe non dimentica mai – avidi di cronaca nera ma anche di sentenziosa virtù. Un puro godimento sono i dialoghi di Moll con i suoi gentiluomini, ricchi borghesi che lei riesce ad alleggerire di grosse parrucche, spade, orologi, bastoni oltre al portafoglio; a volte un intero baule o un cavallo. La domanda dell’uomo è diretta e si aspetta che anche la risposta lo sia anch’essa. Ma Moll dà inizio a una argomentazione ondulatoria che nega e promette al tempo stesso, attirando il richiedente verso l’obiettivo che lei ha in mente.
La resa di lui è convalidata da un contratto. Moll esige un contratto non solo per lo scambio in danaro, ma anche per assicurarsi di favori, promesse, comportamenti. Una schematica didascalia arreda la scena, e all’improvviso balena un sorriso sul volto di lei, e più raramente di lui. I sorrisi sono comunque in numero assai minore dei contratti. Più numerose sono le occasioni per fare i conti in tasca a Moll: quelle somme possedute o sperate o rubate o perse scandiscono crudamente le fortune e le sfortune della protagonista e l’ansia del lettore. Ci sono scene magistrali, poche ma indimenticabili.
Se fosse vissuto oggi, Defoe avrebbe girato il grande film su Londra: malavita organizzata vs ricca borghesia, con scorci rabbiosi in bianco e nero, attori di strada, e come colonna sonora un Haydn corretto al jazz. Sei anni dopo, nel 1728, ci pensò John Gay che trasportò sulle scene londinesi l’intero mondo di Moll Flanders in uno spassoso, irriverente musical, recitato da una compagnia di straccioni, su accompagnamento di canzoni popolari e ouverture d’opera: The Beggar’s Opera appunto. Ladre, prostitute, mezzane, borseggiatori, ricettatori, carcerieri, banditi, applauditissimi nel maggior teatro di Londra, il Lincon’s Inn Fields, furono riprodotti in stampe, ventagli, tazzine, stoffe. Fu uno dei primi eventi di cultura popolare a fare incassi straordinari.

il manifesto Alias 9.7.17
Illusione più meraviglioso, il modello ‘Metamorfosi’
Bimillenario ovidiano . L’intrinseca figuratività della maniera ovidiana nel saggio «Narciso e Pigmalione» di Gianpiero Rosati, Edizioni della Normale
di Mario Citroni

Va salutata con molta soddisfazione la scelta delle Edizioni della Normale di ridare vita a un libro importante e ormai introvabile: Gianpiero Rosati, Narciso e Pigmalione Illusione e spettacolo nelle Metamorfosi di Ovidio (pp. 177, € 25,00). Il saggio, agile e brillante (alla sua prima uscita, da Sansoni, nel 1983, fu finalista al Premio Viareggio), muove da una raffinata analisi di due celebri episodi delle Metamorfosi per farne discendere un’interpretazione generale del poema e della poetica che lo sostiene. Un’interpretazione che conserva oggi tutta la sua validità, e anzi si propone con l’ulteriore forza che le deriva dal fatto di essere divenuta nel frattempo un punto di riferimento negli studi ovidiani: critici italiani e stranieri di orientamenti diversi continuano a confrontarsi con questo saggio di Rosati e a sviluppare, in direzioni anche in parte diverse, linee interpretative in esso tracciate. Una sintetica serie di indicazioni su tali percorsi negli studi più recenti la offre Rosati stesso nella nuova prefazione che apre il volume.
Quando il saggio apparve la prima volta, su Ovidio ancora gravava il pregiudizio postromantico di superficialità disimpegnata, di virtuosismo godibile ma un po’ futile. Rosati è stato tra i primi a cercare significati profondi e attuali entro questo presunto disimpegno. Il suo saggio si è posto così, con pochi altri, alle soglie di quella spettacolare ripresa di interesse per Ovidio che sarebbe poi presto seguita, che ancora continua anche fuori degli ambiti specialistici, e che ha fatto parlare di questi decenni, in campo letterario, come di una nuova aetas Ovidiana.
Il tema dominante
In quanto grande repertorio di miti, le Metamorfosi suscitavano interesse per gli approcci all’antico di tipo antropologico o di tipo psicoanalitico. Un tratto particolarmente originale di Rosati è la dimostrazione che nella scrittura ovidiana dei miti di Narciso e di Pigmalione il tema dominante non è quello erotico, non è la deviazione dell’oggetto del desiderio, come era parso a larga parte della ricezione successiva: ai padri della Chiesa, a diversi successivi moralismi e soprattutto, appunto, alla psicoanalisi. Questo elemento è, certo, presente ma più importa a Ovidio il tema dell’illusione, che il poeta esalta anche attraverso il legame, non prima attestato, dell’inganno visivo di cui Narciso è vittima per opera della sua immagine con l’inganno acustico di cui egli è vittima per opera della ninfa Eco. In Ovidio, Narciso non ama se stesso ma il giovane che vede nello stagno credendolo altro da sé: quando scopre che quel giovane è la propria immagine, muore per la sofferenza dell’illusione frustrata. Pigmalione sa che la statua è solo una statua, l’ha creata lui: ma tale è la potenza illusionistica dell’arte, che è spinto a desiderarla perché appare donna viva e non statua. Dalla dimostrazione convincente, e coinvolgente, della centralità del tema dell’illusione, del tema degli incerti limiti tra realtà e immagine di essa in Narciso e in Pigmalione, Rosati ricava la valenza meta-poetica dei due miti, come emblemi delle intenzioni di un poema dedicato appunto alla universale ingannevole mutevolezza delle forme e del loro apparire. Narciso attribuisce realtà autonoma a suoni (la voce di Eco) o immagini (la propria) create da un mero gioco di riflessi. Pigmalione crea un’immagine ideale con arte così perfetta da apparire natura, ma che solo grazie al miracolo della metamorfosi sarà natura. Così il poeta crea, nelle Metamorfosi, un mondo di immagini improbabili, cercando di illudere il lettore della loro realtà e al tempo stesso suggerendogli, con complici cenni di intesa e suggestioni ironiche, la consapevolezza che si tratta solo di un gioco di illusioni. In tal modo Ovidio ci propone di vedere il mondo come governato da una legge segreta di mutevolezza, in cui ciò che sembra reale e definitivo rivela improvvisamente la sua natura transitoria, o si rivela come inganno, travestimento, identità camuffata, equivoco fatale.
La forma si fa contenuto
L’ultimo capitolo sperimenta questa chiave di lettura attraverso l’intero poema con analisi a campione su passi che verificano sia gli aspetti che abbiamo qui riassunti, sia altri che non ho qui lo spazio per esporre. Segnalo solo le raffinate analisi stilistiche che mostrano come in Ovidio la forma linguistica a volte sappia mimare il contenuto fino al punto di identificarsi con esso, «di farsi essa stessa contenuto» (p. 38): caso emblematico, gli effetti di specularità linguistica che accompagnano gli episodi di Eco e Narciso. Molta evidenza ha in tutto il saggio il tema della visualità: le vicende di metamorfosi sono sottoposte allo sguardo del lettore come uno spettacolo, stupefacente e ammaliante. Il lettore è indotto, sia da frequenti richiami all’atto del vedere, sia dalla tecnica stessa della rappresentazione, a sovrapporre la dimensione verbale con quella della visione, e questa a sua volta è visione di immagini in cui l’illusione di realtà propria della poetica figurativa classica si incontra, con effetti di grande suggestione, con l’ovvia irrealtà empirica delle scene di metamorfosi. L’immenso ruolo avuto dalle Metamorfosi come fonte di temi e immagini per le arti figurative antiche e moderne, e a sua volta la probabile (ma raramente dimostrabile) dipendenza di molta della immaginazione ovidiana da rappresentazioni figurative, vengono da Rosati connessi a una intrinseca ‘figuratività’ della maniera ovidiana di rappresentare personaggi, azioni, scene e paesaggi.
Questo è uno dei temi del libro che ha avuto maggiore influenza sugli studi successivi. Rosati lo connette a una tendenza profonda della sensibilità del tempo verso l’estetizzazione, il compiacimento ‘narcisistico’ per l’elaborazione artistica. Una visione appunto estetizzante che investe anche la percezione della realtà naturale, considerata attraverso il filtro dell’arte. Rosati identifica, nell’episodio di Pigmalione e in altri luoghi ovidiani, il concetto per cui l’arte, con la sua opera di raffinazione e idealizzazione, che esclude l’accidentalità del dato naturale, diventa modello di perfezione per la natura, capovolgendo la dominante concezione antica, e non solo antica, secondo cui l’arte è imitazione, sempre imperfetta, della natura. Rosati segnala gli importanti sviluppi che questa idea avrà nella letteratura, ma anche, tipicamente, nell’architettura dei giardini, e nella generale visione della realtà in età flavia.
L’elemento meraviglioso era presente nei miti, e dunque nella tradizione epica: in Omero, nell’Eneide. Ma nell’epica latina era marginalizzato rispetto a istanze generalmente umane, e anche storiche e senz’altro politiche. Orazio nell’Ars poetica rifiuta il meraviglioso. Proprio la metamorfosi gli appare il culmine dell’irrealtà, impossibile perciò da porre sulle scene, davanti allo spettatore, che reagirebbe con disgusto. Vitruvio, negli stessi anni, esprime sdegno per le raffigurazioni pittoriche di mostri in base a un’esigenza di naturalità e realismo analoga a quella di Orazio: ma così attesta l’esistenza di una tendenza opposta, impaziente di un’arte standardizzata sui modelli ‘naturali’. Ovidio ha il coraggio di fare ciò che Orazio vietava: ‘mette in scena’, con la potenza del suo illusionismo, tutto un universo di metamorfosi. Contrastando la tendenza naturalistica dominante, dando spazio alle istanze che Vitruvio e Orazio combattono, ha il coraggio di dedicare un intero vasto poema alla messa in scena di un mondo surreale di presenze ingannevoli, di identità incerte e fluttuanti, che induce ad ogni passo il lettore a mettere in dubbio la fondatezza del presunto ‘reale’ con cui si confronta quotidianamente. Una scelta di grande audacia, una sfida che non per caso ha nuovamente affascinato la coscienza novecentesca e postmoderna, e di cui Rosati dimostra la piena consapevolezza da parte dell’autore.

Corriere 9.7.17
È davvero l’estate del caldo record
Termometro 8-9 gradi sopra la media, notti tropicali
Non accadeva dal 2003. «La tregua a metà luglio»

Weekend bollente in tutta Italia con massime tra i 32 e i 38 gradi, superiori di 8-9 punti rispetto alla media del periodo. Notti con il termometro che in città non scende sotto i 24 gradi. E se l’estate 2003 viene ricordata per il record di afa (anche per i 4 mila morti), il 2017 si prepara nel suo complesso a essere il secondo anno più caldo di sempre. Le alte temperature sono in via di attenuazione solo al Nord, per effetto dei temporali, mentre continueranno a tenere in scacco il Sud dove si sfioreranno i 40 gradi. «Per una tregua bisognerà aspettare metà luglio — spiega Paolo Corazzon, meteorologo di 3bmeteo — quando l’arrivo di correnti nordoccidentali porterà aria fresca e secca con temperature inferiori di 7-8 gradi».
Tra le regioni più colpite l’Emilia Romagna, con allerta gialla in tutte le città capoluogo di provincia. Canicola da bollino rosso anche a Bolzano, Torino, Perugia e nella Capitale dove, nonostante l’ordinanza «salva fontane», continuano le immersioni nelle vasche monumentali (ieri multati 4 turisti dopo il bagno nella fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona). Ma questo caldo è davvero eccezionale? «L’estate 2003 è stata la peggiore — sottolinea Corazzon — con tre mesi di fila di grande afa senza mai una pausa. Ora ci troviamo in una situazione simile, ma tra una settimana ci sarà un calo significativo delle temperature».
Bernardo Gozzini, direttore dell’Istituto di Biometeorologia di Firenze, conferma: «A giugno il caldo persistente, in particolare al Centronord, è durato per quasi tutto il mese. Ora, con il passaggio di perturbazioni alternate a ondate di calore, il quadro appare diverso». Ma i primi cinque mesi dell’anno candidano il 2017 a essere il secondo più caldo di sempre: «Colpa dei cambiamenti climatici».

Corriere 9.7.17
Temperatura reale e percepita
1 Qual è la differenza tra temperatura reale e percepita?
«La temperatura reale è quella registrata dai termometri indipendentemente dal tasso di umidità presente nell’aria — spiega Valerio Rossi Albertini, fisico del Cnr —. Quella percepita, invece, tiene conto della capacità del corpo di raffreddarsi attraverso l’attività delle ghiandole sudoripare. Il nostro organismo è in grado di espellere il calore sotto forma di vapore acqueo, ma in presenza di forte umidità questo meccanismo si rivela inefficace. La tipica sensazione di appiccicaticcio che si prova rende bene l’idea. E spiega anche quei 3 o 4 gradi in più che percepiamo e aumentano la nostra insofferenza al caldo estremo».
2Gli aspetti rilevanti di questi indicatori?
«Mentre la temperatura percepita è insignificante per il pianeta, può incidere in modo negativo sulla nostra salute».
3 Come difendersi dal caldo estremo?
«Le persone ipersensibili alle alte temperature, anziani e bambini, evitino di uscire nelle ore più calde e usino il condizionatore ma senza abusarne. L’aria troppo asciutta può seccare le mucose e aumentare il rischio di entrare in contatto con virus e batteri. Ogni tanto, per far circolare l’aria, si possono aprire le finestre. Per una corretta idratazione è importante bere molta acqua e preferire frutta e verdura».