Repubblica 5.7.17
“Caso Alpi, impossibile arrivare alla verità”
La
procura di Roma chiede l’archivazione dell’indagine: nessuna prova per
risalire a killer e movente La rabbia della madre a 23 anni
dall’omicidio della figlia: è una vergogna, non credo più nella
giustizia
di Daniele Mastrogiacomo
ROMA. «Sono furibonda. E
molto amareggiata», dice la signora Luciana Alpi. «La richiesta
d’archiviazione non me l’aspettavo. C’erano tutti gli elementi per
riaprire il caso. Ormai sono disillusa. Non credo più nella giustizia.
Si è fatto di tutto per perdere tempo: 16 mesi per fare una rogatoria e
stabilire che l’unico grande testimone di questa vicenda aveva detto il
falso. Una vergogna. Ma non mi arrendo. Fino a quando potrò, inseguirò
la verità».
La morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è destinata a
restare senza un colpevole. Quell’agguato nella Mogadiscio scossa dai
primi lampi di una guerra civile che dura ancora adesso è ancora un buco
nero avvolto dai misteri e dalle menzogne. Per la seconda volta in
dieci anni, la procura di Roma ha chiesto di archiviare il caso perché è
impossibile individuare i killer, i mandanti e il movente del duplice
delitto. Con una motivazione di 80 pagine, la pm Elisabetta Ceniccola e
il procuratore capo Giuseppe Pignatone spiegano che il tempo (23 anni),
le condizioni attuali della Somalia e l’assenza di qualsiasi traccia sui
possibili assassini e mandanti, rendono difficile poter riaprire un
procedimento che faccia luce su uno dei grandi misteri italiani.
Federazione
della Stampa e sindacato Rai (Usigrai) esprimono «rabbia e sconcerto».
«Riteniamo — dicono in un comunicato — che la ricerca della verità debba
proseguire non solo nei confronti delle vittime ma anche perché in uno
stato di diritto non possono essere consentite omissioni e reticenze».
La
verità storica è quasi sempre diversa da quella giudiziaria. È raro
trovare in sede processuale conferma degli elementi che il tempo e le
circostanze offrono nel corso degli anni. Gli indizi non sono prove.
Restano dei sospetti. E i sospetti, sebbene coincidenti e ripetuti, non
sono sufficienti a formulare un verdetto di colpevolezza al di là di
ogni ragionevole dubbio. I killer di quell’agguato, avvenuto il 20 marzo
del 1984 a Mogadiscio, sono stati loro stessi inghiottiti dal buco nero
che avvolge tutta questa tragedia. Probabilmente sono morti. Spariti
anche i testimoni che hanno assistito alla violentissima sparatoria.
Come molte prove. Una tra le tante: alcuni taccuini su cui Ilaria aveva
raccolto gli appunti del suo ultimo servizio, quello che l’aveva portata
verso l’estremo lembo settentrionale della Somalia, a Bosaso, per
intervistare il sultano del posto. Erano nei suoi bagagli, caricati a
bordo della nave militare italiana che avrebbe riportato a casa le due
salme.
L’agguato a Ilaria e Miran è stato premeditato. Insolito.
Unico nel suo genere, sebbene a Mogadiscio nessuno si poteva sentire al
sicuro. In guerra muoiono anche i giornalisti. Ma chi ha ucciso i due
inviati del Tg3 sapeva dove erano andati, cosa avevano fatto, cosa
raccolto, cosa chiesto e visto. Ha teso una trappola a due scomodi
testimoni di una verità imbarazzante. Forse un traffico d’armi, forse un
traffico di rifiuti. Probabilmente entrambi, organizzati e portati a
termine attraverso le navi che la nostra Cooperazione internazionale
aveva fornito alla Somalia di Siad Barre. Ipotesi, naturalmente. Ma
supportate da una serie di testimonianze poi smentite e riconfermate;
smontate infine da due Commissioni parlamentari d’inchiesta e da quattro
indagini.
Ed è proprio questo susseguirsi di mezze verità e tante
menzogne ad aver sollevato il polverone. Sostenere, come fa adesso la
procura, che non ci siano stati depistaggi nella tragedia di Miran e
Ilaria lascia interdetti. C’è una sentenza, della Corte d’Appello di
Perugia, che afferma esattamente il contrario. È stata emessa il 19
ottobre scorso. Ha stabilito che l’unico condannato, il somalo Hashi
Omar Hassan, una pena a 26 anni, era innocente. Il supertestimone che lo
indicava tra i killer dei due giornalisti, Ahmed Ali Rage, ha ammesso
di aver detto il falso perché «gli italiani avevano fretta di chiudere
il caso».
Nessuno, inquirenti in testa, si è mai preoccupato di
verificare se il supertestimone avesse detto la verità. Rage, dopo il
suo verbale d’accusa, ha potuto espatriare e vivere alla luce del sole
prima in Germania e poi in Inghilterra. È stata una giornalista della
trasmissione di Rai 3 “Chi l’ha visto?” ad averlo rintracciato. Alla
collega ha detto quello che poi ha ripetuto davanti ai giudici: era
stato convinto ad accusare il somalo di turno. Ma non è bastato neanche
questo a squarciare il velo di menzogne e ipocrisie che ha seppellito
definitivamente un crimine ancora scomodo per molti.