Repubblica 5.7.17
Massimo Bray, ex ministro della cultura“Troppi errori, la sinistra torni a parlare a chi non le crede più”
Mauro Favale
ROMA.
«Si dice spesso che la frammentazione è nel dna della sinistra. Ecco,
io punterei a cambiarlo questo dna». Massimo Bray ha 58 anni e di
mestiere è direttore generale dell’Enciclopedia Treccani. Tra il 2013 e
il 2014 è stato ministro della cultura del governo Letta. Nel febbraio
2015 si è dimesso da deputato; ad aprile di quest’anno è stato nominato
presidente della Fondazione per il Libro che organizza il Salone di
Torino. Un curriculum di un uomo di sinistra a lungo accostato a Massimo
D’Alema (è stato direttore della rivista Italiani/Europei) ma con la
tessera del Pd ancora in tasca. Un anno fa il suo nome è circolato per
la candidatura a sindaco di Roma alla guida di una coalizione in
competizione col Pd. «Ho rifiutato perché non voglio dividere la
sinistra. Non serve a nessuno e gli elettori non capirebbero».
Eppure
sembra quello l’approdo finale: da una parte il Pd di Matteo Renzi
dall’altra la formazione guidata da Giuliano Pisapia. Bisogna
rassegnarsi alla frammentazione?
«Sarò un inguaribile ottimista ma io credo che mettendo da parte i personalismi una sintesi sia ancora possibile».
Si iscrive anche lei al partito della coalizione unita?
«Forse è il caso di non parlare più di primarie, secondarie, coalizioni, listoni, leggi elettorali, soglie di sbarramento».
Questo lo dice anche Renzi.
«Sì,
ma io voglio una sinistra che ripensi il capitalismo così come si è
strutturato in questi decenni, che superi le diseguaglianze, che difenda
i beni comuni, che definisca un piano di investimenti pubblici, che dia
un futuro al Mezzogiorno e torni a coinvolgere i giovani. La
maggioranza degli astenuti alle Comunali arriva da lì, da ragazzi che
non pensano alla politica come qualcosa che li appassiona. Sono loro i
primi a cui dobbiamo rivolgerci».
A partire da cosa?
«Da alcune
priorità: lavoro, scuola, ambiente, cultura, impresa, agricoltura,
turismo. Ma per farlo dobbiamo tornare ad ascoltare questo Paese, dire
la verità e riconoscere gli errori».
C’è stata troppo poca autocritica nel Pd dopo le Comunali?
«Se
potessi dire qualcosa a Renzi gli direi di ripartire dall’entusiasmo
con cui nacque il Pd, da quell’idea di tenere insieme i riformismi di
questo Paese, dalla costruzione di un soggetto che ripensasse l’idea di
partito, un soggetto con il quale la sinistra italiana provava a
interpretare le sfide del XXI secolo».
E adesso, invece? Può esistere un centrosinistra senza il Pd?
«Non può esistere un centrosinistra senza quell’idea di Pd».
E allora? Cosa impedisce il riavvicinamento? I personalismi?
«Il
personalismo mi pare sia un male che ha colpito non solo la sinistra e
non solo il nostro Paese. L’epoca delle leadership è destinata a finire,
le scelte non possono essere calate dall’alto, ma condivise, creative e
non burocratiche. Mi dispiace sfogliare i giornali e vedere un mondo a
cui sono legato sentimentalmente che non riesce a uscire dalla
litigiosità e a lanciare un vero progetto per il Paese».