mercoledì 5 luglio 2017

Repubblica 5.7.17
“Non c’è cosa più nemica della natura che l’arida geometria”, sosteneva il poeta
Ecco svelata la sua relazione controversa con i numeri
Leopardi bocciato all esame di matematica
di Piergiorgio Odifreddi

L’unico aspetto degno di nota è l’adesione al sistema copernicano: non scontata in casa sua Nello “Zibaldone” disseminò numerosi fraintendimenti sugli aspetti scientifici

Come i nostri maturandi negli ultimi giorni, anche il giovane Giacomo Leopardi veniva sottoposto a esami pubblici, benché a scuola non ci andasse. A occuparsi dell’educazione sua e dei suoi fratelli ci pensava infatti il loro padre, che era una specie di alter ego di Leopold Mozart. Era lui a scegliere i precettori: preti, visto che disdegnava le scuole pubbliche e laiche delle Marche, da poco uscite dallo Stato della Chiesa. Era lui a redigere personalmente alcuni dei loro libri di testo: ad esempio, l’”Aritmetica semplice e complessa,
scritta da me medesimo Monaldo Leopardi nell’istruire mio figlio Luigi”. Ed era lui a organizzare gli esami semestrali, da tenere in latino, agli inizi e a metà dell’anno solare, di fronte a un pubblico selezionato di parenti e amici della famiglia.
Ci sono rimasti i testi degli scritti: in particolare quelli dell’8 febbraio 1810, quando Giacomo aveva dodici anni. L’esame di matematica, unica prova sostenuta in lingua italiana, consistette di 14 esercizi di aritmetica e 30 di geometria, per nulla banali. Ad esempio, si chiedeva di dimostrare i teoremi di Talete e di Pitagora, e il criterio di uguaglianza di due triangoli aventi due lati e l’angolo compreso uguali: quest’ultimo, ovviamente, con una dimostrazione fasulla, visto che oggi il criterio viene considerato indimostrabile, e si assume semplicemente come assioma.
Giacomo diede il suo ultimo esame il 20 luglio 1812, dopo di che il suo precettore dichiarò che “non aveva più altro da insegnargli”. Da quel momento egli proseguì gli studi per conto proprio, attingendo alla fornita biblioteca di famiglia. L’anno dopo, a quindici anni, scrisse una voluminosa Storia dell’astronomia, che viene spesso citata con ammirazione per la sua erudizione, benché sia solo una pedante e noiosa compilazione dei molti testi di seconda mano che il ragazzo aveva consultato, dimostrando di leggere troppo per la sua età, e male per le sue attitudini. L’unico aspetto degno di nota è l’adesione del giovane al sistema copernicano: posizione allora ormai pacifica fuori dello Stato della Chiesa, ma non scontata dentro casa Leopardi, dove il conte rimaneva invece testardamente fermo a “Ptolomeo”.
In realtà la biblioteca di Recanati conteneva, tra i suoi 20.000 volumi, anche le opere di Galileo e Newton, oltre ad alcune collezioni di articoli originali dei maggiori scienziati, e un’antologia delle voci scientifiche dell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, ma nessuna di queste fonti era abbordabile senza una preparazione specifica che né il conte, né i precettori avevano potuto offrire al futuro poeta. E se la sua insufficiente cultura scientifica e matematica gli bastò per alcune delle Operette morali, dal “Dialogo della Terra e della Luna” (1824) al “Copernico” (1827), fu però la causa di molti dei fraintendimenti che egli disseminò nello Zibaldone, “precipitandosi dove gli angeli temono di avventurarsi”.
Il primo di questi fraintendimenti è la supposta contrapposizione tra matematica e poesia. Un Leopardi dai sottotoni razzisti la fa addirittura risalire alla “immaginazione primitiva dei settentrionali, fondata sul pensiero, sulle astrazioni, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui dati esatti”: tutte cose che avrebbero appunto “piuttosto a che fare colla matematica sublime che con la poesia”, evidente monopolio dei meridionali (276). L’osservazione è non solo balzana, ma anche ignara del fatto che nell’India classica, ad esempio, la matematica non solo era alla base della prosodia sanscrita, ma veniva essa stessa espressa in forma poetica e metrica, rendendo indistinguibili fra loro le due attività.
In ogni caso Ezra Pound, che di queste cose se ne intendeva almeno quanto Leopardi, ha definito nell’ABC del leggere (1934) la poesia come “linguaggio carico di significato al massimo grado”. E, pur con tutto il rispetto per i versi dei poeti, sarebbe difficile immaginare espressioni più dense di significati delle formule dei matematici: ad esempio, la famosa E=mc², che in soli cinque simboli esprime quell’equivalenza tra energia e massa che costituisce una delle maggiori scoperte della fisica del Novecento, e nasconde il segreto dell’energia nucleare pacifica e bellica.
Un secondo fraintendimento di Leopardi è la supposta contrapposizione fra matematica e natura. Secondo lui, infatti, “le circoscrizioni, le esattezze, le strettezze, le sottigliezze, le dialettiche, le matematiche non sono in natura, e non devono entrare nella considerazione dell’ordine naturale, perché la natura effettivamente non le ha seguite” (582). E “dovunque ha luogo la perfezione matematica, ha luogo una discordanza dalla natura e dall’ordine primitivo delle cose” (583). Solo chi non ha mai aperto i libri di Galileo e di Newton che il conte Leopardi teneva inutilmente in biblioteca, può rivelare una tale ignoranza dei loro contenuti. Soprattutto se la ribadisce con affermazioni quali “non c’è cosa più nemica della natura che l’arida geometria: le toglie tutta la grazia, la forza e robustezza ed efficacia” (48).
Eppure, la pagina più famosa di Galileo è forse quella del Saggiatore (1623) che dice: “La filosofia naturale è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l’universo, ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola: senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”.
A questo punto non stupisce che, per esemplificare un suo terzo fraintendimento, sulla supposta contrapposizione fra matematica ed eleganza, Leopardi guardi proprio a Galileo: “La precisione moderna, che è estrema, e che oggi si ricerca sopra tutte le qualità, è assolutamente di sua natura incompatibile con l’eleganza. Bensì è compatibilissima con la purità, come si può vedere in Galileo, che dovunque è preciso e matematico quivi non è mai elegante, ma sempre purissimo” (2013).
In ogni caso Italo Calvino, che conosceva Galileo almeno quanto Leopardi, ha dichiarato nel 1967 che “il più grande scrittore italiano” era proprio lui: Galileo, cioè, non Leopardi! Anche se, vista la citazione precedente, forse si sbagliava quando credette di aver individuato una linea di forza nella letteratura italiana che, partendo dall’Ariosto e passando per Galileo, arrivava appunto a Leopardi. E, aggiungeremmo noi oggi, approdava a Calvino stesso.
Un ultimo fraintendimento di Leopardi riguarda la supposta contrapposizione fra matematica e piacere, perché “la matematica misura quando il piacer nostro non vuol misura, definisce e circoscrive quando il piacer nostro non vuol confini, analizza quando il piacer nostro non vuole analisi: la matematica, dico, dev’essere necessariamente l’opposto del piacere” (247). La stessa cosa avrebbe potuto dire della musica, se gli fosse stata insegnata male come gli fu insegnata matematica: cioè, nella maniera arida, pedante e accademica che troppo spesso ancor oggi caratterizza i conservatori e le scuole, e che fa degli italiani, settentrionali e meridionali che siano, un popolo di analfabeti musicali e matematici.
Che dire infine dell’infinito, al quale il poeta dedicò la sua poesia più famosa? Paradossalmente, per Leopardi è “un’illusione naturale della fantasia” (4292), “un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza e della nostra superbia” (4177), “un’idea, un sogno, non una realtà”. Addirittura, “solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, può essere senza limiti, e l’infinito viene in sostanza a esser lo stesso che il nulla” (4178).
Questi non erano fraintendimenti, però, perché dall’antichità all’Ottocento anche i matematici hanno pensato che l’infinito non esistesse. Ma oggi sono anacronismi, perché dalla fine dell’Ottocento viviamo nel “paradiso dell’infinito che Georg Cantor ha creato per noi”. È un paradiso costituito di interminati spazi e sovrumane quantità, ma in esso il cuore del matematico non si spaura. Anzi, in questa infinità si annega il suo pensiero, e il naufragar gli è dolce in questo mare.