Repubblica 4.7.17
Dall’antica Grecia a oggi
Straniero, ospite o nemico cosa ci insegna la Storia
di Marino Niola
L’ONDA
di piena dei migranti scuote l’Italia e la mette di fronte al dilemma
dell’accoglienza. Ricevere a oltranza e rischiare di essere sommersi. O
respingere per arginare la marea e porre fine agli effetti collaterali
di Frontex. I fatti di questi giorni hanno reso la questione
indifferibile.
LA MINACCIA di chiusura dei porti, il timore sempre
più strisciante di un’invasione fuori controllo, la percezione di un
limite di sicurezza ormai superato, la delusione per l’indifferenza di
un’Europa solidale a parole e farisaica nei fatti.
Gli episodi
sono nuovi ma la questione viene da molto lontano. E per leggere fino in
fondo il tumulto delle nostre emozioni, la confusione nella quale ci
troviamo, può essere utile fare un passo indietro, verso la sorgente dei
nostri valori e dei nostri timori. Visto che in realtà, sin
dall’antichità, lo straniero è l’ospite ma potenzialmente anche il
nemico. E questa doppia possibilità è scritta a chiare lettere nelle
parole chiave delle civiltà mediterranee, quelle che hanno permeato la
nostra cultura e formattato il nostro immaginario. Basti pensare che il
latino hostis significava lo straniero ma anche il nemico. Una parola
che è stata a doppio taglio per molti secoli della storia di Roma, prima
che comparisse il vocabolo hospes, che equivale al nostro ospite. E il
greco xenos (da cui espressioni come xenofobia) indicava il forestiero
da accogliere e onorare, ma anche lo sconosciuto di cui verificare
l’integrabilità. Il che vuol dire che ci troviamo di fronte a figure
inestricabilmente intrecciate sin dai primi passi delle nostre civiltà.
Insomma, il dilemma dell’accoglienza non nasce oggi. Perché il rapporto
con chi viene da fuori oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e
un estremo ostile. È la regolamentazione della relazione a stabilire il
giusto equilibrio tra respingimento e accoglimento. Per evitare che
l’arrivo di altri uomini diventi un’epidemia inarrestabile. È
significativo che il mito e la tragedia greca usassero proprio la parola
“epidemie” per definire i rituali riservati agli dèi forestieri. Come
Dioniso, l’altro per antonomasia, il nume sconosciuto che giungeva
inatteso dal mare. Alla deriva su un’imbarcazione di fortuna. Come i
gommoni di ora, privati di motore e timone da trafficanti senza
scrupoli. I rituali epidemici prevedevano una cattiva accoglienza del
dio, la cui barca veniva inizialmente ricacciata indietro. Così la
parola del passato che, dalle sue profondità lontane, parla di noi nel
suo presente-remoto anticipando ciò che stiamo vivendo oggi. Secondo il
celebre grecista Marcel Detienne, il termine epidemia, in origine, non
apparteneva al vocabolario della medicina ma a quello della religione e
indicava l’irruzione di una potenza ignota. Una teoxenia. Letteralmente
la manifestazione di un dio estraneo. In realtà nel Mediterraneo antico,
l’ospite era sacro proprio in quanto in lui poteva nascondersi il dio.
Stranieri e mendicanti vengono tutti da Zeus, dice Omero nell’Odissea. E
nei Vangeli Cristo dice «sono venuto da lontano e mi avete accolto».
Insomma
l’arrivo di forestieri, mortali o immortali, è un chiodo fisso delle
mitologie e delle religioni proprio perché esprime in linguaggio
figurato il pericolo e al tempo stesso la necessità dell’ospitalità, il
disordine e la ricchezza della mescolanza. O, come si direbbe oggi, i
rischi e i vantaggi della globalizzazione. Non a caso il patto di
ospitalità che legava l’abitante della polis greca al forestiero si
chiamava xenía ed era posto sotto la protezione di Dioniso. In virtù di
questo patto, il cittadino si faceva garante del nuovo arrivato nei
confronti dell’intera comunità accogliente. Tutto questo sembra dire
che, ora come allora, l’apertura è indispensabile, ma non può essere
incondizionata. Nemmeno i Greci, che pure avevano il culto
dell’ospitalità, accoglievano tutti e in tutti i casi. E distinguevano
accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto e perciò tutelato
dalle leggi civili e dalle norme morali, da quello che noi chiameremmo
clandestino, profugo, migrante economico. La vera sfida del presente è
di immaginare forme di xenía a misura di questo tempo. Per fronteggiare
la diaspora globale in atto, con nuove norme in grado di conciliare
sicurezza e umanità. Solo così potremo evitare che quell’equazione secca
straniero uguale nemico, che Primo Levi considerava una infezione
latente in ciascuno di noi, degeneri in malattia mortale.