Repubblica 13.7.17
Denis Mack Smith
L’uomo che riscrisse la storia d’Italia
Lo studioso inglese, autore di saggi fondamentali dedicati al nostro Paese, è morto a 97 anni
di Simonetta Fiori
I
suoi avversari — molti — malignavano che lo straordinario successo di
Denis Mack Smith fosse dovuto a una circostanza semplice: aveva
raccontato gli italiani con la stessa scettica acutezza con cui siamo
soliti guardare a noi stessi. Senza sconti. Anzi, con quel piglio
fustigatore che piace tanto a un popolo dedito alla perpetua
autodemolizione. Se n’è andato all’età di 97 anni il decano degli
studiosi inglesi animati da passione per l’Italia. La coscienza critica
della nostra storia nazionale. E l’inventore di un genere storiografico
che avrebbe dato una scossa anche alla prosa paludata degli accademici
italiani. Figura slanciata e aplomb tipicamente anglosassone,
ricchissimo
il medagliere accademico – la British Academy, il Wolfson College di
Cambridge, l’All Souls College di Oxford, l’American Academy of Arts and
Sciences – sembrava il figlio del più esclusivo ceto intellettuale
londinese. In realtà il padre aveva fatto l’ispettore delle tasse a
Bristol e Denis fu il primo della famiglia a prendere la laurea. Per la
tesi scelse il nostro Risorgimento, assecondando quell’interesse per
l’Italia nato fin dai banchi del liceo. Alla fine della guerra, appena
ventiseienne, s’era affrettato nel Paese di Cavour e Garibaldi. Con una
borsa di studio di poche sterline, trascorse un anno tra gli archivi,
divorando libri e poco altro. «Ricordo ancora la fame e il silenzio», ci
raccontò una volta nel suo villino bianco di Headington, a Oxford. «Mi
muovevo in un’atmosfera strana, difficile da decifrare. Il Paese era
ancora scosso dalla guerra». A Napoli l’incontro destinato a segnare la
sua vita: Benedetto Croce gli aprì biblioteche ed amicizie importanti.
«L’unico problema era il suo accento: non capivo una parola del suo
italiano! ».
Tredici anni più tardi nasce in Italia il “caso Mack
Smith”: l’editore Vito Laterza lo convince a pubblicare La storia
d’Italia, il libro che gli procura enorme popolarità tra i lettori non
specialisti (oltre 150 mila copie) e altrettanta animosità nella
cittadella aristocratica della storiografia. Le ragioni dello scandalo?
Un eccesso di semplificazione, lamentano gli accademici. La storia
italiana viene ridotta a un piano inclinato, in cui gli accadimenti
scorrono fin troppo speditamente. Da Cavour a Mussolini e alla
successiva democrazia trasformista, tutto si tiene in un racconto forse
eccessivamente consequenziale. Un racconto spietato che rivela ottusità,
cinismi e compromessi delle nostre classi dirigenti. In realtà non era
stato scritto per un pubblico italiano. L’opera nasceva dal “bisogno
inconscio” di spiegare agli inglesi perché il nostro Paese fosse stato
capace di inventare il fascismo, esportandolo nel mondo. Così lo
studioso era andato alla ricerca delle nostre antiche debolezze,
trovandole tra le pieghe del processo risorgimentale. «Sia Gaetano
Salvemini che Federico Chabod mi avevano dissuaso dal farlo, ma
l’editore Laterza si mostrò deciso, anche perché voleva suscitare una
discussione. Io non ero sicuro di tutti i miei giudizi, disponibile
dunque a una correzione. L’editore però non volle modificare una riga ».
Il più sprezzante si mostrò Rosario Romeo, suo antagonista anche nel
campo degli studi cavourriani. Di profilo intellettuale sideralmente
distante – assai dotto ed elitario Romeo, più sensibile alla
divulgazione Mack Smith – lo studioso siciliano liquidò la Storia come
uno “sciocco libello”, e il suo giudizio non sarebbe stato più temperato
per i saggi di Mack Smith su Cavour e Garibaldi. «Ogni riferimento a
fatti realmente accaduti è puramente casuale », annotò Romeo a proposito
delle ricerche del collega inglese. Veleno puro. Romeo era un gigante, e
certo maneggiava l’argomento con una ricchezza superiore a quella del
professore di Oxford. Ma la sua pungente intolleranza tradiva
qualcos’altro, che Mack Smith rintuzzava con distacco. «Romeo era
animato da invidia e da risentimento. Un giorno si rifiutò perfino di
stringermi la mano, very unpolite.
Pensava che i miei saggi
facessero male ai lettori italiani». In realtà venivano divorati dai
lettori italiani, e questo a Mack Smith non fu mai perdonato. I suoi
libri rappresentavano una novità anche per la scrittura. I giudizi
lepidi e i ritratti sulfurei spazzavano via le dita di polvere della
nostra accademia. Garibaldi? Un cavaliere generoso, peccato che non
capisse nulla di politica. Cavour? Un tessitore spregiudicato, disposto a
tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi. E Vittorio Emanuele II, il
re galantuomo? Macché. Era un personaggio volgare e incolto, gran
puttaniere e scialacquatore di denaro pubblico. Un altro piccolo
scandalo esplose con Casa Savoia, ma a difendere il suo piglio
aneddotico intervenne Enzo Forcella: quando si tratta di mettere a fuoco
personalità cruciali, scrisse il giornalista, anche le annotazioni
psicologiche sono importanti. E il merito di Mack Smith era stato quello
di rovesciare gli stereotipi più corrivi di una storiografia di corte,
rivelando il profilo semifeudale di una monarchia formalmente liberale e
costituzionale.
Non fu facile la convivenza neppure con un altro
maestro italiano, Renzo De Felice, assai critico verso i suoi studi sul
capo del fascismo (tanti i saggi dedicati al dittatore, Mussolini, Le
guerre del duce, A proposito di Mussolini, La storia manipolata). Nella
sua miseria e nobiltà, l’Italia fu il grande amore della vita. Una
passione che sembrava indebolita nella stagione della vecchiaia. Quando
l’andammo a trovare per i novant’anni nel villino di White Lodge, Mack
Smith appariva distante. Il ruolo del brillante fustigatore non gli
apparteneva più, un po’ per stanchezza, un po’ perché l’Italia sedotta
da Silvio Berlusconi era troppo anche per un italofilo come lui. In
realtà quel Paese era lo sbocco naturale della trama di populismo,
sovversivismo, assenza di regole che Mack Smith ci aveva raccontato per
quasi mezzo secolo. La storia gli aveva dato ragione, ma lui sceglieva
di porgere le sue scuse postume a Romeo: «Probabilmente Romeo non aveva
torto: nel rintracciare le cause della fragilità italiana, su Cavour ho
esagerato un po’». Poi un lampo di malizia: «Mi sarebbe piaciuto leggere
un bel libro di storia inglese scritto da uno studioso italiano. Ma è
davvero raro, mi creda».
Guardava oltre il giardino, Mack Smith.
La sua Italia era quella raffigurata sulle pareti di casa, il ritratto
di Garibaldi acquistato da un libraio di Cambridge o la ceramica di
Vittorio Emanuele a cavallo. Era la lingua che aveva condiviso con il
suo vicino di casa Isaiah Berlin, che parlava italiano così spedito
tanto da non riuscire a stargli appresso. Un Paese, una comunità
culturale, un’idea dell’Italia che in quello scorcio del nuovo secolo
non esisteva più. «Ora che ho ceduto alla biblioteca di Oxford i miei
diecimila volumi di storia italiana mi sento meglio, più leggero». Gli
chiedemmo se condivideva il giudizio del suo allievo Christopher Duggan:
l’Italia come un’idea troppo malcerta e contestata per poter fornire il
nucleo emotivo di una nazione, almeno di una nazione in pace con se
stessa. Un lungo silenzio, forse tanti ricordi. «Uno storico non può
accomiatarsi dai suoi lettori con accenti apocalittici. Ci saranno pure
delle incompiutezze nazionali, ma non bisogna esagerare nel disfattismo.
Anzi, abbiamo il dovere di essere ottimisti». Sempre molto british,
anche nell’addio.