Repubblica 13.7.17
Pechino
La svolta militare della Repubblica popolare “Solo compiti di peacekeeping”
Truppe cinesi a Gibuti La prima base all’estero di Xi Jinping “l’africano”
di Angelo Aquaro
PECHINO.
Aspetta e spera che la Cina si avvicina. Non siamo a faccetta nera, per
carità, ma anche Pechino cerca un posto al sole, e lo sbarco a Gibuti,
nella punta del corno d’Africa, è più che una conferma: a meno che non
ci si davvero qualche anima pia disposta a credere che i 2500 soldati
che il Dragone ha spedito sull’Oceano Indiano siano lì soltanto per
fare, come recita la regola d’ingaggio, da
peacekeeping, che
letteralmente vuol dire «mantenimento della pace». Non lo dicevano
infatti già i latini che il migliore modo di mantenere la pace è
preparare la guerra?
Quando ieri, nel porto di Zhanjiang, nel
Guandong, il comandante della marina dell’Esercito Popolare di
Liberazione, Shen Jinlong, ha ordinato alle navi di salpare, davvero per
il Dragone si è aperta una nuova pagina. Occhio ai numeri: 2500
soldati. Un pezzo di Cina che fa armi e bagagli e si trasferisce
all’ingresso del Golfo di Aden, alle porte del Canale di Suez. A Pechino
dicono si tratti solo di una “base logistica” ma non bisogna studiare
il cinese per poter tradurre nella lingua di tutti i giorni: è un base
militare, la prima della sua storia all’estero. Operazione per carità
concordata, come i cinesi ricordano, con le autorità del posto, che fra
l’altro già ospitano una nutritissima legione straniera con i francesi,
gli americani e anche i giapponesi a guardarsi reciprocamente le spalle.
Ma anche qui – sul fatto che Gibuti abbia detto sì all’invasione non ci
piove, cosa che fra l’altro laggiù non fa notizia: perché chi avrebbe
mai detto di no a un governo che ti investe 15 miliardi di dollari
nell’espansione del porto e altre delizie?
Miracoli della nuova
via della seta, il piano di infrastrutture da oltre mille miliardi che
Xi Jinping ha disegnato per diffondere nel mondo la globalizzazione alla
cinese. E sviluppato parallelamente a ben altri piani: «Da quando è
diventato presidente, nel 2012, la Cina si è a poco a poco allontanata
da quella politica di non interferenza che aveva formalmente sbandierato
per 50 anni», sostiene il Financial Times.
«Sotto il suo governo
Pechino ha stabilito una base navale nel corno d’Africa, ha approvato
una legge che permette lo stazionamento di soldati all’estero e ha
rafforzato la sua influenza nel mar del Giappone e nel Mare della Cina
del Sud»: cioè nelle acque delle isole contese.
Anche la scelta di
Gibuti come primo avamposto estero la dice lunga. Quella è una zona
infestata dai pirati, il grande Elmore Leonard ci scrisse su anche un
romanzo, e proprio per questo lì si sono piazzati i giapponesi a
proteggere i loro traffici. L’arrivo di Pechino è adesso il segnale che
la musica è cambiata: siamo noi, avvertono i cinesi, i guardiani di
questa parte del mondo, siamo noi i garanti dei 5mila miliardi di beni
che passano in questo spicchio di mare, un terzo del traffico marittimo
mondiale. Stazionare nel corno d’Africa, come spiega alla Cnn l’esperto
Edward Paice, ha poi più che senso «per un paese che sostiene di volere
avere un ruolo sempre maggiore di peacekeeping in Africa e ha già truppe
da combattimento in Mali e Sudan del Sud». E ha tantissimo senso anche
inquadrare lo sbarco puntando gli occhi più a Est: le scaramucce di
questi giorni sul confine sono la prova della tensione sempre più alta
tra Pechino e Nuova Delhi, e le migliaia di soldati sbarcati laggiù
potrebbero anche funzionare come l’ultimo anello di quella “catena di
perle” di alleati che dal Bangladesh allo Sri Lanka passando per il
Myanmar circondano l’altra metà di quella che una volta era la Cindia
che andava d’amore e d’accordo.
Poi, per carità, avrà ragione Wang
Yi, il ministro degli Esteri, quando dice che «come per ogni altra
potenza in ascesa, gli interessi della Cina si espandono sempre più
all’estero: abbiamo ormai 30mila imprese nel resto del mondo». Un po’
meno convincente è però quando assicura che «la Cina non perseguirà mai
nessuna egemonia», mentre è pronta a esplorare «un percorso con
caratteristiche cinesi». Ecco, è la stessa espressione usata nella
costituzione per definire la particolare forma di socialismo del paese: e
non sarà il caso, proprio per questo, di cominciare a preoccuparsi per
davvero?