Repubblica 13.7.17
Il paradosso di Alfano
di Stefano Folli
DOMANI,
venerdì, il Consiglio dei ministri dovrebbe autorizzare il premier
Gentiloni a mettere la questione di fiducia sul testo dello “ius soli”
al Senato, dove i numeri sono esigui. Poi si vedrà circa i tempi e le
modalità. L’autorizzazione è in sé un passaggio politico rilevante
perché testimonia che non esistono, almeno in apparenza, esplicite
divergenze di vedute fra il presidente del Consiglio e il segretario del
Pd. Quest’ultimo scalpita e si attira i soliti sospetti: voler
trascinare l’esecutivo in una trappola al fine di provocarne la caduta
per interposta persona. Vale a dire per mano di Alfano, il cui piccolo
partito, squassato dagli eventi, vorrebbe tenersi i suoi elettori. I
quali tuttavia stanno già scivolando, almeno in parte, verso il
centrodestra berlusconiano, ed è assai difficile che possano digerire
l’estensione della cittadinanza italiana agli immigrati (sia pure
concessa a certe condizioni).
Il paradosso è che l’attuale
ministro degli Esteri era stato individuato da Renzi, all’inizio
dell’anno, come l’uomo giusto per far cadere Gentiloni e spingere il
paese alle elezioni anticipate in primavera forzando la mano a
Mattarella. Allora l’operazione doveva svolgersi nella cornice di un
patto di ferro con il leader del Pd e, come è noto, fu rifiutata
dall’esponente centrista. Adesso che ha rotto i ponti con Renzi, da cui è
stato pubblicamente maltrattato, Alfano si ritrova nella stessa scomoda
situazione: se sbaglia una mossa sullo “ius soli”, il governo Gentiloni
inciampa a Palazzo Madama. E la crisi dell’esecutivo, con tutte le sue
conseguenze, sarebbe imputata a lui, mentre i vantaggi andrebbero a
Renzi. Non è molto verosimile che il capo della piccola Ap reciti la
parte che altri hanno scritto per lui. D’altra parte, se la legge non
viene rinviata a settembre e se davvero viene posta nei prossimi giorni
la questione di fiducia, Alfano rischia di trovarsi di fronte a un bivio
fatale: o difende il governo scontentando i suoi elettori; ovvero
accontenta questi ultimi, ma a prezzo di far cadere Gentiloni. Messo in
questi termini il problema non sembra offrire vie d’uscita, visto che il
Pd renziano considera lo “ius soli” un’opzione strategica. E si
capisce: c’è da recuperare un’immagine di sinistra riducendo i margini
di manovra di Pisapia, da un lato, e degli scissionisti, dall’altro. Al
tempo stesso, con il tema del «numero chiuso» per gli immigrati e con le
suggestioni stile «aiutiamoli a casa loro», Renzi ritiene di
conquistare un segmento di opinione di centrodestra.
La strategia
si mescola alla tattica nel momento in cui il governo finisce nella
tenaglia. Deve accettare la spinta del suo socio di riferimento, ossia
il segretario del Pd, e allo stesso tempo deve evitare di frantumarsi. È
facile intuire che in queste ore l’attenzione del Quirinale sia
massima. Mattarella è quasi riuscito a completare la legislatura, tanto è
vero che nei giorni scorsi si era lasciato andare a una previsione:
elezioni «verso la primavera del 2018». La legge sullo “ius soli” è
forse l’ultimo scalino insidioso. In seguito, in autunno, si tratterà di
approvare la legge di stabilità con tutte le tensioni che ne
deriveranno. Ma sarà un’altra storia. Qui e ora, la lacerazione riguarda
l’immigrazione. Sembra difficile credere che Alfano voglia assecondare
il malessere del suo gruppo parlamentare fino al punto di mettere in
crisi Gentiloni, ben sapendo quanto sia fragile l’equilibrio di questo
governo di cui Mattarella è una sorta di “lord protettore”. In un certo
senso stiamo assistendo a una partita a scacchi in cui nessuno vuole
commettere errori. Del resto, Alfano avrebbe ben poco da guadagnare da
una crisi che potrebbe riaprire le porte “in extremis” al voto
anticipato in settembre-ottobre. Ciò significa che non dovrebbero essere
i centristi a esprimersi contro la fiducia. I rischi non mancano,
beninteso. Ma Gentiloni — e dietro di lui il presidente della Repubblica
— hanno buoni argomenti per convincere il ministro degli Esteri, uomo
peraltro alieno dai colpi di testa. Un conto è il voto di fiducia, un
altro è il merito del provvedimento su cui Alfano certo non rinuncerà
alle sue riserve.