Repubblica 12.7.17
Il grande progettista si racconta alla vigilia dei novant’anni “Tutto è cambiato. Chiudo lo studio”
Vittorio Gregotti “L’architettura non interessa più a nessuno”
di Francesco Erbani
Vittorio
Gregotti ha chiuso il suo studio d’architetto. Il 10 agosto compie
novant’anni, ma il motivo non è solo anagrafico. «L’architettura non
interessa più», dice persino sorridendo nel salotto della sua casa
milanese – Casa Candiani, un edificio eclettico di fine Ottocento, un
po’ neogotico, un po’ neorinascimentale, fra San Vittore e Santa Maria
delle Grazie. Fino a qualche mese fa al pianterreno c’era la Gregotti
Associati, fondata nel 1974, lavori in Italia e nel mondo, dalla
Germania al Portogallo alla Cina. Ora, di là dal vetro, si scorgono
scaffali vuoti e la luce spenta. «Abbiamo tre progetti ancora in piedi,
ad Algeri, in Cina
e poi a Livorno, dove facciamo il piano regolatore. Li cura il mio socio Augusto Cagnardi».
E niente più?
«Niente
più. D’altronde compio novant’anni, ma cosa sta succedendo nel nostro
mondo? Una società immobiliare decide se, con i soldi dell’Arabia
Saudita, investire a Berlino, a Shanghai o a Milano, a seconda delle
convenienze. Stabilisce il costo economico, compie un’analisi di
mercato, fissa le destinazioni. E alla fine arriva l’architetto, a volte
à la mode, al quale si chiede di confezionare l’immagine».
Lei fa questo mestiere dall’inizio degli anni Cinquanta: ne avrà visti di periodi bui. O no?
«Certo.
Ma non è un caso che nella mia vita sia stato amico più di letterati,
di artisti e di musicisti che di architetti. Da Emilio Tadini a Elio
Vittorini, da Umberto Eco a Luciano Berio. E poi ho sempre concepito
l’architettura come un prodotto collettivo: un valore che si è perso».
Dove l’ha appreso?
«Lavorando da operaio in uno stabilimento di proprietà della mia famiglia, a Novara ».
Lei
si è occupato tanto di letteratura, di filosofia, di musica. Ha fatto
il conservatorio. Eppure lamenta che i suoi colleghi oscillano
dall’iperspecialismo alla tuttologia.
«Ma mantenere relazioni fra
filosofia, letteratura e architettura non è tuttologia. I miei modelli
sono il capomastro medievale e il suo sguardo d’insieme. Capii questo a
Parigi, nel 1947, dove lavorai nello studio di Auguste Perret. Dovunque
girassi incontravo intellettuali che incrociavano le diverse competenze.
Tornato a Milano, appena le lezioni del Politecnico me lo consentivano,
andavo a sentire Enzo Paci che parlava di filosofia teoretica».
Studiava architettura, ma non le bastava.
«La
svolta fu nel 1951, quando partecipai a Hoddesdon al convegno dei Ciam,
il Comitato internazionale per l’architettura moderna. C’erano Le
Corbusier e Gropius. Si rifletteva sul rapporto con la storia e il
contesto. E a chi insisteva che il contenuto del nostro futuro sarebbe
stato la tecnologia, si contrapponeva la dialettica con il passato, con i
luoghi in cui si realizzava un’architettura. Ciò che preesisteva non
andava ignorato, anche nel caso in cui il nuovo fosse un’eccezione».
E i rapporti con gli scrittori?
«Rimasero
intensi. Ho anche partecipato al gruppo 63: si ragionava su come vivere
il tempo libero senza finire preda del mercato, una questione cruciale
per un architetto».
Comunque sempre pochi architetti.
«Gli
architetti erano divisi in due categorie. Una prediligeva la natura
d’artista e considerava la letteratura o la filosofia discipline
distanti. L’altra era quella dei professionisti, che interpretavano il
mestiere onorevolmente, ma che non andavano al di là del dato tecnico».
Comunque
sia, lei ha sostenuto che allora ci si confrontava con una società in
cui prevaleva l’industria. E che oggi, invece, poco ci si rapporta con
quella post industriale.
«Oggi non ci si preoccupa di
rappresentare una condizione sociale collettiva. È andato smarrendosi il
disegno complessivo della città, che viene progettata per pezzi
incoerenti, troppo regolata da interessi».
Questo è dovuto all’irruzione del postmoderno?
«Il
postmoderno è un’ideologia tramontata. Ma ha avuto effetti
significativi. Si è interpretato in modo ingenuo il rapporto con la
storia, non ponendosi nei suoi confronti in termini dialettici, ma
adottandone lo stile. E l’involucro è stato considerato indipendente
dalla funzione di un edificio. Poi il postmoderno ha incrociato il
capitalismo globale».
E che cosa è successo?
«Sono saltate
le differenze fra culture. Ora ovunque si distribuiscono prodotti
uguali. Prevale il riferimento a un contesto globale, che diventa moda,
più che a un contesto specifico. Avanzano lo spettacolo, l’esibizione,
l’ossessione per la comunicazione».
Mi fa un esempio?
( Sul
tavolo davanti al divano pesca una rivista, c’è la foto di un edificio
che sembra accartocciato) «Guardi, questo è il centro di ricerca
progettato a Las Vegas da Frank Gehry. Gehry è un mio amico, ma ha
superato ogni limite nel rapporto fra contenuto e contenitore. È
l’ammissione che l’architettura è sfascio».
Le piace la Nuvola di Fuksas?
«Assolutamente no».
E il Maxxi di Zaha Hadid?
«Il
suo fine è la trovata, la calligrafia, senza rapporto con la funzione.
Queste sono architetture popolari, d’altronde se non fossero popolari
non potrebbero esistere. Contengono un messaggio pubblicitario. Anche
nel Seicento le facciate barocche delle chiese lo contenevano, ma si
riferiva a un universo spirituale. Qui è la moda a dettare le
prescrizioni».
Lei ha realizzato il quartiere Bicocca, a Milano, e
a Pujang, in Cina una città da centomila abitanti. Ha fatto il piano
regolatore di Torino e il Centro culturale Belem a Lisbona. Ha
collaborato con Leonardo Benevolo al Progetto Fori a Roma, mai
realizzato, purtroppo. Ma le viene spesso rinfacciato il quartiere Zen a
Palermo: c’è chi ne invoca la demolizione.
«Lo Zen avrebbe dovuto
essere diverso da quel che è stato, una parte di città e non una
periferia. Palermo ha il centro storico, le espansioni
otto-novecentesche e poi doveva esserci lo Zen, con residenza, zone
commerciali, teatri, impianti sportivi. Doveva possedere un’autonomia di
vita che non si è realizzata».
È il problema di molte periferie pubbliche italiane. Qualche responsabilità ce l’avete voi progettisti?
«Io
non sono per demolire lo Zen o Corviale. Sono per demolire il concetto
di periferia, non basta il rammendo. Ci siamo illusi in quegli anni di
poterlo realizzare? È vero, ci siamo illusi di costruire quartieri
mescolati socialmente, dotati delle attrezzature che ne facevano,
appunto, parti di città e non luoghi ai margini. Rispondevamo a
un’emergenza abitativa. Ma se noi ci siamo illusi, quello che
contemporaneamente si costruiva o quello è venuto dopo cos’è stato se
non la coincidenza fra interessi speculativi e l’annullamento di ogni
ideale progettuale? Corviale ha un’idea, che andava realizzata. Non è
solo un tema d’architettura».
Lei è stato insegnante a Palermo e ad Harvard, a Venezia e a Parigi. Come guarda ai futuri architetti?
«Mi
preoccupa il loro disorientamento. Vengono spinti a coltivare una pura
professionalità, a saper corrispondere alle esigenze del committente,
oppure ad avere una formazione figurativa stravagante e capace di essere
attraente. È pericoloso l’abbandono del disegno a mano. Con il computer
si è precisi, è vero, ma non si arriva all’essenza delle cose. I
materiali dell’architettura non sono solo il cemento o il vetro. Sono
anche i bisogni, le speranze e la conoscenza storica».