La Stampa 12.7.17
Mata Hari, non si fucila così anche la Belle Epoque?
Danzatrice,
avventuriera, icona di seduzione, venne giustiziata a Parigi il 15
ottobre di cento anni fa come spia dei tedeschi Ma in realtà non aveva
mai passato informazioni a nessuno: era finita in un gioco dove era la
vittima designata
di Mario Baudino
Venne fucilata
il 15 ottobre 1917 nella caserma di Vincennes da un plotone di zuavi.
«La spia Mata Hari ha pagato per i crimini che ha commesso», scrisse il
giorno dopo l’esecuzione il giornale Excelsior. L’accusa era gravissima,
in quei giorni di guerra: spionaggio a favore dei tedeschi; ma si
reggeva su poco, anche se la donna che aveva sedotto Parigi e l’Europa
con le sue goffe e tuttavia sensualissime danze indiane aveva davvero
pasticciato con i servizi segreti, per bisogno di denaro e per
sventatezza, pur senza combinare un bel nulla. Molti anni dopo il
procuratore che ne aveva ottenuto la condanna - si chiamava André Mornet
- avrebbe ammesso in un’intervista radiofonica che le prove raccolte
«non sarebbero bastate neppure per frustare un gatto».
Capro espiatorio
L’estate
del 1917, però, era plumbea e fanatica, e anche i gatti probabilmente
se la passavano male. La Francia sentiva il fiato dei tedeschi su
Parigi, quasi si stesse riaffacciando il fantasma del 1870. E la
danzatrice che l’aveva stregata, ormai al tramonto, fu il capro
espiatorio ideale per un solenne autodafé. Divenne, morendo, la spia per
eccellenza, il sinonimo stesso di spia. Pochi s’accorsero che uccidendo
lei, in realtà, si stava mimando la fucilazione, una volta per sempre,
della Belle Époque.
Mata Hari, nata Margaretha Geertruida Zelle
nel 1876, in Olanda, quando fu condotta alla fucilazione aveva superato i
quarant’anni e la sua bellezza - complici anche i mesi di dura
detenzione - era irrimediabilmente sfiorita. Le ultime immagini ce la
mostrano invecchiata e persino severa, niente di paragonabile alla
ventiseienne che conquistò Parigi ballando nuda o quasi, semmai coperta
di bracciali e pochi indumenti borchiati all’orientale, incastonati di
pietre forse preziose, soprattutto nelle case private dell’aristocrazia e
della grande borghesia. Seduceva banchieri, nobili, ufficiali,
diplomatici, governanti, illustri dame lesbiche o scrittrici;
occasionalmente si prostituiva, alla maniera delle grandi cortigiane, e
intanto si esibiva più o meno goffamente nel tipo di danza che asseriva
d’aver scoperto a Giava.
Raccontò un monte di bugie, spacciandosi
per principessa o a volte sacerdotessa indiana. All’inizio, quando tentò
il successo come modella, i pittori non la apprezzarono granché, per
via del seno giudicato piccolo e delle caviglie considerate grosse. Ciò
non impedì alla giovane olandese di diventare un mito. La sua immagine,
che i ricchi potevano godersi al vivo (e data la situazione, andando
anche più in là), impazzava sulle scatole di biscotti o cioccolatini, su
infinite cartoline e stampe popolari, sui pacchetti di sigarette, sulle
insegne dei negozi; oggi si direbbe come quella di una diva di
Instragram. Ballava maluccio, non sapeva recitare, non sapeva far nulla
di nulla se non sedurre con una sventatezza magnetica. Era un’icona,
l’incarnazione della Salomé di Oscar Wilde, per un breve periodo come
Lady MacLeod e poi irresistibilmente come Mata Hari, ovvero «Occhio
dell’alba».
Tutti pazzi per lei
I giornali impazzivano per
lei, mettendola avanti persino a Isadora Duncan, come ci racconta
Giuseppe Scaraffia in Gli ultimi giorni di Mata Hari (Mursia), che
intorno al rito sacrificale della fucilazione inscena un teatro dei
libri, e ci dice che cosa stessero facendo in quei giorni Proust o
Virginia Woolf, Marinetti o Debussy. Non senza momenti comici. Hemingway
per esempio si vantò pubblicamente di avere amoreggiato con lei: anche
se era arrivato in Francia due anni dopo la sua morte. Ma i libri sulla
spia danzante sono innumerevoli.
L’infaticabile Paulo Coelho, per
esempio, non si è lasciato sfuggire l’occasione di accoglierla nel suo
universo luogocomunista, l’anno scorso, con La spia (La nave di Teseo).
Ne fa ovviamente un’eroina femminista ante litteram, il che pare
discutibile. Mata Hari era una grande avventuriera, in perfetta sintonia
col suo tempo. Una tessitrice di favole che offriva al pubblico
sensualità e esoterismo ad altissima concentrazione, ed erano questi gli
ingredienti che l’immaginario europeo, in quel momento, agognava. Non
si presentava tanto come «donna» ribelle quanto piuttosto come
danzatrice sacra, dunque sottomessa al cosmo, il che fa una bella
differenza. Non contestava nessuna idea del suo tempo, anzi lo nutriva
col suo corpo, i suoi gioielli, le sue storie: al fondo, niente di più e
niente di meno che un romanzo d’avventura, come quelli che in versione
magari un po’ provinciale scriveva a Torino il suo quasi contemporaneo
Emilio Salgari. Lui però non ne era il protagonista, lei sì.
Sedicente principessa
L’India,
anzi Giava, l’aveva vista davvero, per breve tempo, negli anni di
matrimonio col capitano Rudolph MacLeod, di stanza nell’isola,
conosciuto e sposato per corrispondenza mentre era in Inghilterra in
licenza. Durò poco, anche se nacquero due figli, uno dei quali presto
morì; rimase una bambina, che fu lasciata al ben più anziano marito
quando Mata Hari fuggì a Parigi. Di questa vicenda non fece mai parola,
com’è ovvio, tendendo invece ad accreditarsi come principessa indiana,
se pure figlia - forse - di una madre inglese. Nessuno fece ovviamente
caso alle molte contraddizioni della biografia, che ritoccava secondo le
esigenze del momento, salvo forse i servizi segreti: che furono la sua
ultima speranza, e la trappola mortale.
Negli anni del trionfo
aveva accumulato e sperperato ricchezze considerevoli. Ma con la Grande
guerra e con l’avanzare dell’età il successo cominciò fatalmente a
scivolare via. E per bisogno di soldi, ma forse anche per continuare a
sentirsi al centro di un mondo su cui aveva avuto un potere enorme, nel
1915 accettò la proposta di collaborare coi tedeschi. Doveva raccogliere
informazioni a Parigi, ma venne rapidamente individuata. A questo punto
i francesi le chiesero di fare il doppio gioco - altri soldi - e di
sedurre l’addetto militare tedesco a Madrid. Compito non difficile: il
problema fu che costui, tale maggiore Kalle, la tradì descrivendola a
sua volta come doppiogiochista, ma di parte tedesca, in messaggi con la
Germania che utilizzavano un codice cifrato ampiamente noto ai francesi.
Mostra nella città natale
La
povera danzatrice sacra, questa volta, era davvero perduta. Non aveva
mai passato un’informazione a chicchessia, ma era finita in un gioco
dove non poteva che essere la vittima designata. I francesi finsero di
credere a quel che fingevano di dirsi in segreto i tedeschi, e per Mata
Hari fu la fine. Arrestata in luglio, al processo si difese come poté,
ammettendo qualche responsabilità; davanti agli zuavi del plotone
d’esecuzione disse che almeno avrebbe fatto una bella morte. Di lì in
poi, la leggenda non ha mai avuto fine, basti pensare al cinema dove è
stata interpretata da Greta Garbo, Jeanne Moreau o Sylvia Kristel.
Nessuno
sa che fine abbia fatto il suo corpo. In compenso, molti raccolsero
avidamente i memorabilia. Se ne vedranno moltissimi proprio a partire
dal 15 ottobre, nel Fries Museum di Leeuwarden. La sua città natale
annuncia una grandissima mostra, con oggetti, documenti, immagini, tutta
la storia e tutta la leggenda, qualcosa di «mai visto prima», con il
titolo «Mata Hary, the Mith and the Maiden», che potremmo tradurre
liberamente con «il mito e la fanciulla». Pare azzeccato. «Si offre al
dio per intenerirlo», scrivevano i giornali francesi, esaltati,
all’epoca del successo. Ma era davvero troppo fanciulla per gli dei
della guerra.