Corriere 12.7.17
Asmara
L’Unesco inserisce la capitale eritrea tra i patrimoni dell’umanità. Grazie agli architetti italiani di cent’anni fa
di Guido Santevecchi
L’Eritrea
non è stata mai dalla parte «serena» della cronaca negli ultimi
decenni. Prima immersa in una guerra trentennale per l’indipendenza
dall’Etiopia; poi dal 1991 governata da un gruppo dirigente che ha
tradito le promesse (e le premesse) e l’ha chiusa al mondo, usando la
repressione. Ultimamente terra di partenza di disperati che tentano la
sorte per arrivare sulle nostre coste. Ma ora la sua capitale Asmara ha
conquistato una vittoria culturale per i suoi abitanti e per tutta
l’Africa. La città sull’altopiano è stata dichiarata «Eredità mondiale»
dall’Unesco, l’agenzia Onu per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. La
motivazione: «Un esempio eccezionale di urbanizzazione modernista».
Si
tratta dell’eredità della visione di architetti italiani che più di
cent’anni fa erano stati incaricati di edificare la vetrina dell’Impero,
di quella che allora chiamavamo Africa orientale italiana. Ma se Asmara
ha mantenuto il fascino di una cittadina di provincia del nostro
Meridione, con viali alberati, slarghi, fontane, bar, cinema, palazzi
pubblici razionalisti e villette immerse nel verde, il merito principale
è della sua gente, tanto tollerante e saggia da preservarla.
Hanna
Simon, ambasciatrice eritrea a Parigi, delegata presso l’Unesco, ha
commentato il riconoscimento internazionale: «È il frutto di anni di
ricerca, pianificazione e impegno concreto, una vittoria non solo per
l’Eritrea ma per l’Africa, perché nonostante l’impronta coloniale Asmara
appartiene all’identità eritrea e alla sua battaglia per
l’autodeterminazione». Come detto, oggi il governo di Isaias Afewerki si
è trasformato in regime, ma questo è un altro discorso, triste.
Resta
il fatto che Asmara non ha disprezzato e cancellato il lavoro degli
architetti coloniali arrivati al seguito del generale Baldissera che nel
1889 risalendo dalla calura asfissiante di Massaua si insediò sul
fresco altopiano. L’amministrazione locale non ha abbattuto l’Albergo
Italia, in stile umbertino, inaugurato nel 1899, ma lo ha restaurato; ha
mantenuto il suo simbolo di modernità estrema, la Stazione di servizio
Fiat Tagliero, progettata nel 1938 da Giuseppe Pettazzi con tettoie a
forma di ali, come un aeroplano pronto a decollare. Sono rimasti con le
loro insegne in caratteri cubitali i cinema Odeon, il Roma, l’Augustus,
l’Impero sul corso principale. Resistono i Bar Centro, il Moderno, il
Venezia, dove si trovano sempre le paste fresche la domenica e si beve
espresso da vecchie macchine del caffè. Molti palazzi si affacciano sul
corso principale che negli anni fu dedicato a Umberto e Vittorio
Emanuele. Gli eritrei allora lo chiamavano Combustato, storpiando Campo
cintato, espressione che condensava l’odiosa esclusione degli africani
dalla zona riservata ai colonizzatori. Nel 1938 Asmara era la capitale
della «colonia primigenia», una città modernissima per l’epoca, con 98
mila abitanti, 53 mila italiani.
Sarebbe potuto scomparire tutto
una prima volta, con la caduta dell’Africa orientale italiana. Ma gli
inglesi della Gazelle Force, che presero Asmara il 1° aprile 1941,
furono tutto sommato «sportivi»: comunicarono che le autorità civili
italiane sarebbero rimaste al loro posto, cercarono di imporre alle auto
di tenere la sinistra, chiamarono Bristol un albergo costruito in puro
stile imperial-fascista, smontarono e portarono via come preda bellica i
macchinari di diverse fabbriche italiane e la teleferica che risaliva
da Massaua all’altopiano (finita nelle Indie). Restò intatta la ferrovia
costruita dal genio militare alpino, ripristinata negli anni 90 con
l’aiuto dei vecchi ferrovieri eritrei addestrati dagli italiani.
La
città è sopravvissuta miracolosamente intatta anche alla sanguinosa
guerra di indipendenza dall’Etiopia, tra il 1961 e il 1991. Si è
allargata (800 mila abitanti oggi) con case tirate su da palazzinari
coreani («purtroppo non ci sono più i geometri e i capimastri italiani»,
disse anni fa il sindaco al Corriere) , ma ha preservato il nucleo
centrale, diverse centinaia di edifici. E ora è Patrimonio dell’umanità.
Sul
bancone della Farmacia Centrale, con i suoi scaffali in legno
originale, il dottore eritreo tiene sempre con orgoglio i vasetti in
vetro con le etichette delle «Caramelle contro la tosse e il mal di gola
del Dottor Bruno». Oggi all’Eritrea servirebbe solo una medicina per la
democrazia.