Il Fatto 12.7.17
Barbara Spinelli
“Pensiero di gruppo” e censure: assalto all’ informazione
L’intervento
tenuto ieri (martedì 11 luglio) da Barbara Spinelli nel corso di
un’audizione su “Libertà e pluralismo dei media nell’UE” organizzata a
Bruxelles dalla Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni
del Parlamento europeo (LIBE) e presieduta dal presidente LIBE Claude
Moraes. Barbara Spinelli (GUE/NGL) ha preso la parola in qualità di
Relatore del nuovo Rapporto del Parlamento europeo “Libertà e pluralismo
dei media nell’UE”.
Il mio sguardo sulla libertà dei
media è influenzato dal fatto che per decenni ho fatto il mestiere di
giornalista, ed è uno sguardo allarmato. Le condizioni della effettiva
libertà dei media, della loro indipendenza da agende politiche e da
gruppi di interesse economici, della loro pluralità, si sono aggravate
dall’ultima volta che questo Parlamento se ne è occupato, nella
relazione presentata da questa Commissione nel 2013.
Mi limiterò a elencare alcuni punti che confermano tale aggravamento, e che dovremo a mio parere approfondire:
Primo
punto: le fake news. In un numero crescente di democrazie il termine
domina il dibattito sui media e sul funzionamento della democrazia
stessa. Alcuni parlano di “post-verità”, e nel mirino ci sono
soprattutto internet e i social network. C’è una buona dose di malafede
in queste denunce. Dovremo analizzare il nascere delle fake news andando
alla loro radice, e soprattutto evitare di stigmatizzare il cyberspazio
creato da internet. Le fake news non sono solo figlie di internet. Sono
una malattia che ha prima messo radici nei media tradizionali, nei
giornali mainstream. Sono un residuo della guerra fredda. Quasi tutte le
guerre antiterrorismo del dopoguerra fredda sono state precedute e
accompagnate da fake news: basti ricordare le menzogne sulle armi di
distruzione di massa in Iraq. Internet configura uno spazio nuovo e
interattivo di informazione, che tende a condannare all’irrilevanza i
giornali mainstream. Di qui un’offensiva contro questo strumento, e una
serie di misure politiche che tendono a controllarlo, sorvegliarlo,
imbrigliarlo. L’offensiva ricorda per molti versi la reazione
all’invenzione della stampa, poi della radio e della televisione: le
vecchie forze si coalizzano contro il nuovo, per meglio occultare le
proprie degenerazioni. Per molti versi è un’offensiva che ricorda la
polemica ottocentesca contro il suffragio universale: “troppa democrazia
uccide la democrazia”. Quand’anche alcuni di questi timori fossero
giustificati, le loro fondamenta si sgretolano se poste da pulpiti
sospetti o screditati.
Secondo punto: l’estendersi di alcuni
fenomeni certo non nuovi, ma in continua espansione: le interferenze
della politica e di grandi concentrazioni di interesse
nell’informazione, e non solo la violenza subita da giornalisti e
informatori ma anche le forme sempre più diffuse e insidiose di
autocensura. Lo studio pubblicato nell’aprile scorso dal Consiglio
d’Europa – “Giornalisti sotto pressione”– mette in risalto l’estendersi
di questa patologia, che nel precedente Rapporto del Parlamento è
nominata ma non approfondita. Non viene spiegata la paura che genera
l’autocensura (il moltiplicarsi delle interferenze politiche,
editoriali, di lobby pubblicitarie) e soprattutto non viene sottolineato
il legame causale che lega paure e autocensure alle condizioni sempre
più miserevoli in cui informatori e giornalisti si trovano a operare. La
vera radice delle fake news come dell’autocensura viene occultata ed è a
mio parere il groupthink, che possiamo descrivere come espressione di
un conformismo razionalizzato imposto da gruppi di potere politici o
economici. Per usare le parole impiegate da William H. Whyte, che coniò
questo termine negli anni ’50, si tratta di una “filosofia dichiarata e
articolata che considera i valori del gruppo” – quale esso sia– “non
solo comodi ma addirittura virtuosi e giusti”. La parola è meno moderna
di fake news ma più precisa.
Terzo punto, importante nelle
democrazie dell’Unione: il cosiddetto dilemma di Copenaghen. I Paesi
candidati all’adesione devono rispettare le norme sulla libertà di
espressione della Carta europea dei diritti fondamentali e della
Convenzione dei diritti dell’uomo (rispettivamente gli articoli 11 e
10), ma una volta entrati tutto sembra loro permesso: negli ultimi
decenni ne hanno dato prova le interferenze politiche nella libertà di
stampa in Italia, Spagna, Polonia, Ungheria. Da questo punto di vista la
Carta mi pare più avanzata della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, visto che esige non solo la libertà ma anche la pluralità dei
media.
Quarto punto: i whistleblower. Nel rapporto del 2013 si fa
riferimento in due articoli alla necessità di proteggerli legalmente,
ma manca una normativa europea e nel frattempo si moltiplicano leggi di
sorveglianza sempre più punitive nei loro confronti, specie su internet.
Dovremo insistere su questo punto con maggiore forza.
Quinto
punto: ne ho già parlato e concerne gli effetti della crisi economica
non solo sulla libertà, ma sulla sussistenza stessa dei media. Se
aumentano l’autocensura e l’interferenza arbitraria nel lavoro di
giornalisti e informatori, è anche perché il loro mestiere è tutelato
per una cerchia sempre più ristretta, e più anziana, di operatori.
Cresce il numero di precari che danno notizie per remunerazioni
ridicole, se non gratis. I diritti connessi al Media Freedom devono
essere legati organicamente alla Carta sociale europea e al diritto a un
lavoro dignitoso.
Infine, sesto punto: i rimedi. Abbiamo gli
articoli della Carta, della Convenzione. Per farli rispettare, è urgente
la creazione di un meccanismo che controlli la democrazia nei media. Mi
riferisco alla relazione In’t Veld, che il Parlamento ha approvato
nell’ottobre scorso. Il meccanismo che essa propone è uno strumento che
coinvolge gli esperti della società civile, dunque tutti voi presenti in
questa audizione. Se approvato da Commissione e Consiglio, sarà in
grado di intervenire prima di mettere in campo le misure castigatrici
previste dai Trattati come l’articolo 7, chiamato “opzione nucleare”
perché applicabile solo all’unanimità e quindi praticamente
inutilizzabile.