La Stampa 7.7.17
La linea dura di Matteo contro i nemici
di Federico Geremicca
Tirare
dritto e andare avanti, sempre avanti e soltanto avanti. In ossequio
alla linea preferita - o all’unica che pare in grado di gestire - Matteo
Renzi ha assestato ieri in Direzione un altro bel paio di bastonate ad
Andrea Orlando ed a Dario Franceschini - oppositore di nuovo conio -
allungando ulteriormente la lista di quanti si sono o si stanno
rapidamente allontanando da lui.
È una lista ormai corposa, e
mette assieme - con sfumature diverse - quello che si può considerare lo
stato maggiore dell’ex centrosinistra (o Ulivo o Unione, giusto per
capirsi). D’Alema e Prodi, Veltroni e Bindi, Pisapia e Bersani, Speranza
e Letta, poi Orlando, Epifani, Franceschini, Cofferati e via elencando.
Molti nemici, molto onore è un modo - discutibile, secondo chi scrive -
di intendere la politica e la vita: soprattutto quando i nemici
diventano troppi e cominciano a far fronte comune con chi, in origine,
nemico non era.
La nuova linea di demarcazione - ieri lo erano
stati il profilo di alcune riforme o il referendum costituzionale -
stavolta è il tema delle alleanze: presentarsi al voto politico della
prossima primavera da soli o in coalizione? E di conseguenza: su quale
modello di legge elettorale puntare? In fondo, nulla di cui si debba
discutere necessariamente con il coltello tra i denti o denunciando il
reato di lesa maestà.
E invece, per dire, Orlando si è sentito
accusare - più o meno - di tradimento («Tu vuoi aiutare Pisapia, io
voglio aiutare il Pd») e Franceschini di scorrettezza e slealtà, avendo
avanzato le sue critiche in un’intervista piuttosto che negli organismi
di partito. Ieri il ministro della Cultura lo ha fatto anche in
Direzione, ma non è che sia andata granché meglio: io rispondo ai due
milioni di cittadini che hanno votato alle primarie - gli ha replicato
Matteo Renzi - non certo a caminetti e capicorrente.
Il clima nel
Pd, insomma, è di nuovo arroventato: e la sensazione è che nemmeno la
fresca vittoria alle primarie abbia restituito al segretario la forza e
la serenità per affrontare discussioni che dovrebbero essere pane
quotidiano in qualsiasi partito. Può essere che Renzi sia influenzato da
quel che vede accadere nelle forze dirimpettaie, dove Berlusconi,
Salvini e Grillo fanno e disfanno a proprio piacimento: eppure,
l’esperienza maturata a Largo del Nazareno dovrebbe avergli fatto
intendere che nel Pd un tale modo di fare è assai difficile - forse
impossibile - da praticare (pena abbandoni personali, scissioni di
gruppo e guerriglia quotidiana).
E il clima interno non dovrebbe
essere l’unico elemento a preoccupare i militanti, elettori e
simpatizzanti del Pd: c’è anche la rotta verso le elezioni scelta da
Renzi che sembra, al momento, rischiosa e poco convincente. L’elemento
di possibile rischio non è solo nella decisione - che pare ormai presa -
di «andare da soli»: è anche la filosofia di fondo (la linea, si
sarebbe detto un tempo) a lasciare perplessi.
Stando ai discorsi
ed agli scritti del segretario, la campagna elettorale del Pd dovrebbe
infatti muoversi lungo due direttrici fondamentali: il no ai populismi
(con annessi e connessi) e la puntigliosa rivendicazione delle riforme e
dell’operato del suo governo. Eppure, l’abbozzo di discussione avviato
dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre, metteva al centro - a
giudizio unanime - questo elemento: molti cittadini non hanno votato
contro la riforma costituzionale, ma contro Renzi, la sua
personalizzazione e Il suo governo.
In sostanza: quell’occasione
fu colta per protestare contro il Jobs Act, la scarsa crescita
economica, l’Imu tolta anche ai ricchi, l’insostenibile immigrazione e
via dicendo. E allora delle due l’una: o era sbagliata quell’analisi o è
cosa simile ad un suicidio pensare di andare al voto esaltando proprio
quei risultati di governo bocciati dalla maggioranza degli italiani. Le
due cose assieme, insomma, non possono stare. Il tempo per correggere
quel che eventualmente va corretto, c’è. Non farlo potrebbe rivelarsi,
alla fine, un errore esiziale.