La Stampa 14.7.17
Descalzi: “Accesso all’energia e istruzione. Solo così si ferma l’esodo dall’Africa”
L’ad di Eni: nessuno vuole lasciare la propria terra, creiamo cultura industriale
di Marco Zatterin
Si
fa grave il tono della voce di Claudio Descalzi quando comincia a
parlare del dramma dei migranti in fuga dall’ex «continente nero».
«Nessun africano ha voglia di lasciare l’Africa - assicura -, è gente
attaccata alla propria terra, alle tradizioni: quando scappano è perché
non possono farne a meno, perché hanno problemi esistenziali». Conosce
bene il problema, l’ad dell’Eni che, non a caso, è la più africana delle
imprese italiane, oltre 8 miliardi di investimenti in 16 Paesi. Per
questo si rammarica di come l’Europa, e non solo, ha concepito le
politiche oltre il Mediterraneo. Per questo invita a un salto di
qualità. Come? «Pensando al lungo termine quando si investe - risponde
svelto - . Non solo al profitto immediato, ma alla sostenibilità del
business».
È un punto di filosofia di impresa che impone una
svolta di etica politica e un maggiore orgoglio politico. «Se l’Africa è
il continente che cresce di più, e ne abbiamo bisogno - spiega il top
manager milanese -, allora l’Europa deve trovare una visione unitaria
per aiutare se stessa, sostenendo l’Africa. Se aiuti il tuo
interlocutore a diventare più forte, sei più forte anche tu».
Cosa non ha funzionato?
«È
il modello prevalente di sviluppo postcoloniale in Africa che ha
mostrato limiti di sostenibilità: è quello che ci ha visti andare,
esplorare e sfruttare i campi petroliferi, però esportando tutta la
materia prima. Abbiamo lasciato l’Africa senza energia, dunque senza
sviluppo e diversificazione industriale».
Di qui le migrazioni...
«Un
esodo così forte è stato esacerbato dall’assenza di diversificazione.
Il prezzo basso di petrolio e gas, lontano dalla soglia di profitto, ha
causato ulteriore povertà in un sistema già povero, provocando
disperazione. Il greggio in calo ha messo in estrema difficoltà molti
Paesi».
Serve un cambio di passo?
«Nel momento in cui
estraggo gas, posso scegliere di esportarlo tutto, oppure solo una parte
e lasciare il resto nel Paese come investimento per la stabilità. L’Eni
sta facendo questo. Riducendo in parte il profitto di oggi, ma
aumentando valore, sostenibilità e credibilità per il futuro. Un esempio
è la Libia, dove abbiamo cominciato a distribuire gas, il sessanta per
cento di quello estratto, senza obbligo contrattuale. L’effetto è che ci
considerano più credibili».
L’impegno è oneroso.
«L’Europa
ha messo tanti soldi a disposizione dell’Africa, centinaia di miliardi
in mezzo secolo. Ma sono state iniziative più umanitarie che altro.
Poche volte, sono stati dati contributi per sviluppare accesso
all’energia e formazione in ambiti specifici con il necessario
accompagnamento».
Sono queste le priorità «per aiutarli a casa loro»?
«Certamente.
L’energia è una leva lunga, aiuta l’affermarsi di una cultura
industriale e dello sviluppo. Per far rimanere le persone nella propria
terra occorre farle studiare e formarle. Un 20% dei fondi vanno
destinati ai giovani, 2-3 anni in cui tutti possano seguire una fase di
preparazione che li porti ai mestieri che, nel frattempo, vengono
creati».
L’Ue ha stanziato 2,6 miliardi per l’Africa Trust. Però la cassa è ancora vuota.
«I
fondi arrivano se c’è una forte motivazione da parte di chi deve
versarli, il che richiede leadership molto chiara. Succede nei governi
come nelle aziende: le cose funzionano quando il vertice ci crede, sennò
i soldi da soli non bastano. Occorre condivisione degli obiettivi. Se
moriamo nelle burocrazie, negli attacchi politici perché qualcuno
contesta idee solo perché le ha avute un altro, non c’è speranza».
Messa così, costringe a riflettere sull’assenza di leadership europea di questi mesi.
«In
Europa c’è chi sottostima il problema delle migrazioni. Manca una
sufficiente sensibilità del fatto che gli esodi siano un problema
esistenziale gravissimo, così serio da poter far cadere qualunque
struttura politica. È uno tsunami, non può essere considerato “un
problema di qualcun altro”. Da noi, governo e parlamento, bussano a
un’Europa che sembra non sentire. Non si accetta che sia un movimento
globale che comporta conseguenze che vanno al di là del nostro
continente».
Torniamo alla Libia. È la porta che bisogna chiudere.
«Stabilizzare
la Libia è una questione centrale. Non è semplice. Succederà solo
quando si sarà raggiunta una unità nazionale completa. C’è pressione
sull’Europa ma anche sulla Libia. La questione va risolta alla radice».
È difficile, dopo che gli hai preso il petrolio per anni, convincerli alle rinnovabili?
«Il
cambiamento climatico e le sue problematiche magari non sono prioritari
visto i problemi esistenziali in essere. Però le rinnovabili lo sono.
Abbiamo chiuso accordi di sviluppo delle rinnovabili, nel nostro ambito
petrolifero, con Egitto, Tunisia, Algeria, Ghana. Discutiamo con altri 4
o 5 Paesi».
L’Enel è attiva nelle rinnovabili. È possibile una cooperazione africana?
«Siamo
disponibili a studiare progetti sulle rinnovabili con chiunque e anche
con Enel. Ci sono però dei vincoli. Noi operiamo all’interno delle
nostre attività petrolifere, dove abbiamo terreni, strutture, reti.
Lavoriamo in seno a contrattualistiche consolidate, dove possono
seguirci i partner delle joint venture da noi operate. Ciò non significa
che non saremmo interessati a studiarne la fattibilità».
Gira una
voce nei corridoi europei. Dice che l’Italia ha risparmiato gli sbarchi
dei migranti a Malta in cambio di attenzioni per l’Eni. Che ne dice?
«L’unico modo per risponderle sarebbe una citazione di Fantozzi e la Corazzata Potëmkin. Quindi non lo farò».