La Stampa 13.7.17
Addio a Denis Mack Smith, raccontò vizi e virtù italiani
Storico
inglese, conobbe un grande successo nel nostro Paese con gli studi sul
Risorgimento, per lui stagione di promesse disattese
di Mario Baudino
Al
centro del lavoro di Denis Mack Smith, morto martedì a 97 anni, c’era
una domanda cui per tutta la sua vita di storico ha cercato di
rispondere. La formulò, giovane studioso, nel saggio uscito per Laterza,
il suo editore italiano, nel lontano ‘59, Storia d’Italia dal 1861 al
1958, che suscitò aspre polemiche. Riguardava noi, ovvero il fatto che
l’Italia «nel 1861 era stata fra tutti il paese più ammirato dagli
uomini politici liberali» e tuttavia «fu anche il primo a cedere, dopo
il 1919, al nuovo imperialismo totalitario».
Era stato allievo o
comunque vicino a Benedetto Croce, che lo aveva aiutato nelle sue prime
ricerche, ma la risposta che si diede fu diametralmente opposta a quella
del maestro: perché presupponeva un giudizio storico sul fascismo, che
se per il filosofo napoletano era fondamentalmente un corpo estraneo
alle classi dirigenti liberali, per lui era invece il risultato di una
cultura politica, e di una ambiguità se non inadeguatezza delle élites
alla sfida della modernità.
Mack Smith ha studiato il Risorgimento
con passione «radicale» (da rivoluzionario, attirandosi molte
bacchettate) tenendo sempre di vista il fascismo come risultato non
auspicabile né auspicato, ma tragicamente ottenuto dal combinarsi di
varie forze - o debolezze. Il suo eroe era Garibaldi - un po’ meno
Cavour - mentre il giudizio su Vittorio Emanuele II è molto severo. Con
grande anticipo sulla storiografia successiva, ne evidenziò gli aspetti
francamente reazionari. Non gli piaceva neanche il gallismo del sovrano,
ma questa è una valutazione morale, più che un giudizio storico, che
risente forse della severa educazione britannica.
I suoi libri
hanno avuto sempre un grande successo, anche perché scritti in modo
elegante e godibile, al di fuori di ogni gergo accademico, con un piglio
narrativo, e molta aneddotica che non interferisce però con una ricerca
di alto livello. Le biografie di Garibaldi (1959), Vittorio Emanuele II
(1972), Mussolini (1981), Cavour (1984), Mazzini (1994) hanno raggiunto
molti più lettori italiani di quanti ne avessero fino ad allora
intercettati i nostri storici, ma soprattutto hanno raccontato l’Italia,
fra grandezza e vergogna, nei momenti cruciali della sua storia
moderna, al mondo intero.
Rosario Romeo, tanto per citare un
maestro indiscusso, non lo amava. Disse del suo «Cavour» che «ogni
riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale». Renzo De
Felice e la sua scuola ebbero polemiche con lui a proposito della
biografia di Mussolini. Paolo Alatri invece gli riconobbe prestissimo la
sua vera tradizione: accanto ai radicali britannici, vide quella
cultura critica che va da Fortunato a Pareto, Mosca fino a Gobetti e
Salvemini.
Va detto che Denis Mack Smith sapeva riconoscere gli
errori (in fondo pochi): con Romeo ad esempio ammise di aver forse
sbagliato esagerando i difetti di Cavour. Ma sulle cause della fragilità
italiana tenne la posizione per tutta la lunga vita di studioso,
docente e poi dall’87 professore «emerito» dell’Università di Oxford
(dal ‘96 era anche Grande ufficiale dell’Ordine al merito della
Repubblica italiana), fino al saggio del ‘98, La storia manipolata,
dedicato l’uso politico della storia e alla pratica, molto italiana, di
occultare documenti.
Non era tenero neanche col proprio Paese. Nel
’92, quando uscì uno studio di Roger Absalom (A strange alliance) sui
prigionieri britannici in Italia e sulla loro «grande fuga» dopo l’8
settembre, pubblicò un vibrante articolo sul Times Literary Supplement e
sulla Stampa che terminava con un affondo polemico: «Molti (ex
prigionieri) con ogni probabilità la maggior parte, non rividero mai
più, per ringraziarli, coloro che li avevano aiutati. E le autorità
britanniche si rivelarono davvero ingenerose nel non riconoscere, a
guerra finita, l’assistenza che un grandissimo numero di italiani aveva
prestato con forte rischio personale».
Ricorda chi scrive che gli
fu chiesto come desiderasse essere pagato. Rispose sorridendo che la
faccenda rischiava di essere troppo complicata, ma avrebbe accettato
volentieri una confezione di sigari toscani. Gliene mandammo una scatola
da cinquanta, e lui ne fu felicissimo. Avevano il profumo, disse, della
nostalgia.