il manifesto 7.7.17
Pietro Ingrao: poesia atto cognitivo
di Alberto Olivetti
«Nella
mia esperienza, poesia è un atto cognitivo: conoscenza. Dunque un
elemento attivo. Né una pausa, né un ripiegamento». Così Pietro Ingrao
su «Alfazeta» nel dicembre del 1992. Un convincimento che aveva avuto
modo di argomentare pubblicando Il dubbio dei vincitori, nel 1986,
chiarito da una attenzione costante a segnare il margine che distingue
il comporre poetico e l’agire politico.
Nel giugno del 1991,
«credo, sostiene Ingrao, a una nuova forte attualità del linguaggio
poetico proprio su due aspetti della modernità:a) la crisi di visioni
unidimensionali della vita e del tempo. Oggi parliamo molto di
complessità e di una vita pluriversa; b) la spinta a subordinare, ad
adattare la creatività emotiva del vivente a l’agire strumentale, a la
razionalità calcolistica. Da qui una nuova attualità del linguaggio
poetico per riscoprire la densità del vivente».
Densità che si
credeva possibile affermare grazie al movimento di soppressione dei
rapporti capitalistici di produzione ad opera della classe operaia.
Densità del vivente finalmente liberata. Quello che il giovane Marx
indicava come l’umano proprio della ‘proprietà privata soppressa’: il
peculiare, il personale.
Il sigillo, diciamo, di ciascuna
individualità che è dire il molteplice, il differente, il discreto, il
diverso. Scriveva Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844:
«ogni tuo rapporto con gli uomini – e con la natura – dev’essere una
espressione determinata, corrispondente all’oggetto da te voluto, della
tua reale vita individuale».
A Madrid, il 6 giugno 1991, nella
lezione Un’analisi del presente tenuta presso l’Università, Ingrao
svolge, tra l’altro, queste considerazioni: «lo stacco tra tempo di
lavoro e tempo di vita si accentua e si complica. La nozione stessa di
tempo cambia: diventa – com’è stato detto – puntiforme; e si attenua
perciò la trasmissione della memoria storica e quindi del rapporto
passato-futuro. La tensione stessa verso il futuro si indebolisce, a
causa della difficoltà di afferrare tutte le dimensioni del presente.
Insieme con la dimensione del tempo, stanno mutando momenti vitali.
Basta pensare alla sfera della sessualità e del corpo. Al rilievo che ha
assunto in una lettura diversa del mondo, con la cultura e pratica
femminista della differenza sessuale.
Tutto ciò mette in
discussione, non solo in teoria, ma nella pratica, la cultura della
‘centralità operaia’ o, se vogliamo andare fino in fondo, mette in
discussione la centralità del produrre, del lavorare, che è stata così
tipica del mondo operaio e contadino».
Questa analisi comporta
rilevanti conseguenze che è bene assumere nella loro radicalità. Una
investe direttamente le forme dell’agire collettivo. Agire politico,
agire collettivo. Ingrao ricorre a questi termini per rappresentare una
complessa interazione organizzata intesa alla trasformazione dei
rapporti sociali dominanti. Nel processo delle sue stesse articolazioni
intervengono e contano soggetti diversi e istituzioni. Le regole duttili
della democrazia partecipata e l’invenzione di forme nuove
corrispondenti a nuovi rapporti, alle inedite interrelazioni che
attraversano il corpo della società. Ingrao avverte la «crisi radicale
delle vecchie forme dell’agire collettivo.
La difficoltà vera
delle vie ed esperienze democratiche esplorate in Occidente ha radici in
questo nodo». Da qui una esigenza urgente che reimposti i fondamenti
dell’agire politico per «dare nuova base alla libertà possibile degli
esseri umani».
È in questo contesto che l’atto cognitivo della
poesia assume un ruolo essenziale, si presenta e si impone come un
elemento attivo. Allora, «cognizione poetica assorbente ed esclusiva?»,
si chiede Ingrao. Niente affatto. La poesia nomina «i campi lesi dalla
riduzione del vivente a quantità», ma va perseguita una «pluralità delle
angolazioni cognitive necessarie per l’ampiezza di relazioni col
reale».
Nel settembre del 1991 dichiara a «Leggere»: «senza dubbio
il mio comunismo è cambiato moltissimo. Il modo in cui vedevo, sia la
teoria comunista che la strategia comunista di liberazione delle masse
oppresse; il modo stesso in cui vedevo quel mondo che si chiamava
comunista è molto, molto diverso dall’idea che è venuta in seguito».