il manifesto 7.7.17
Stefano Rodotà, l’urgenza del conflitto
Il
ricordo. Ritratto del grande giurista da poco scomparso e la storia
della Rivista critica del diritto privato: "Non aveva intenzione di
celare il conflitto in corso o tentare di sminuirlo. Ma rifuggiva anche
dalla retorica e da toni da comizio"
Stefano Rodotà
Maria Rosaria Marella
Edizione del
07.07.2017
Pubblicato
6.7.2017, 23:59
La
prima volta che vidi Stefano Rodotà di persona fu nel 1978 in un’aula
universitaria, un’aula in cui si svolgeva un’assemblea di studenti in
agitazione. Lui, allora non ancora deputato della Sinistra indipendente,
era l’unico docente che avesse accettato di partecipare all’assemblea. E
non era, la sua, una presenza di comodo. Al contrario quel giorno, come
gli altri in cui fu presente in assemblea, discusse a fondo le
questioni all’ordine del giorno senza aver timore di mostrare da che
parte stava, e senza alcuna intenzione di celare il conflitto in corso o
tentare di sminuirlo. Ma anche senza retorica e toni da comizio, da
applauso facile.
Un altro ricordo indelebile risale ad un giorno
di inizio estate del 1983 quando, fresca di laurea, partecipai ad una
riunione redazionale della neonata “Rivista critica del diritto
privato”, di cui era appena uscito il secondo numero, su cui avevo
pubblicato anch’io qualcosa. Arrivai in ritardo come al solito. Rodotà
era in fondo alla sala, discuteva con altri giuristi suoi coetanei,
cofondatori della Rivista. Mi vide e si alzò per venirmi incontro e
stringermi la mano. Un semplice gesto di educazione, apparentemente
normale. E invece assolutamente sbalorditivo in un ambiente
profondamente segnato da gerarchie ferree seppure non formalizzate, come
l’accademia italiana di allora, in cui neolaureate e neolaureati, i
c.d. assistenti volontari, erano per lo più trasparenti. Nel senso che
l’ordinario che incrociavi nel corridoio dell’Istituto di norma neppure
ti vedeva, sembrava guardare attraverso di te come fossi di vetro.
Figurarsi salutarti poi!
Ecco, Stefano Rodotà era così. Mai
accomodante davanti all’urgenza del conflitto. E mai incline alle
soluzioni facili, ad effetto. Gentile, ma non per amore della forma,
piuttosto perché profondamente rispettoso di tutti e di ognuna,
noncurante delle gerarchie, democratico. E questa è stata la cifra del
suo rapporto con gli studenti, in aula e fuori, così come con i giovani
studiosi che venivano a parlargli da tutta Italia. Mi sono sempre
chiesta come si vivesse a casa Rodotà, immaginando il telefono squillare
di continuo. Allora, in epoca pre-telefonia mobile, lui dava il suo
numero di casa a tutti: “Ma certo mi chiami!”, “Non la disturbo?”, “Ma
ci mancherebbe!”. E lì sorriso inconfondibile, stretta di mano, e
l’abituale dileguarsi a passi tanto veloci che ti giravi e già non c’era
più. Magico!
Nel 1992 – e fino al 1997, anno in cui fu chiamato a
presiedere il Garante della privacy – inaugurò l’abitudine di riunire
periodicamente la redazione romana della Rivista critica nell’Istituto
di diritto privato della Sapienza per discutere dei temi che ci
sembravano più urgenti. È stato allora che abbiamo affrontato il tema
del rapporto fra principio d’uguaglianza e differenze, la questione
della differenza sessuale in primo luogo; poi i problemi che le
migrazioni ponevano sul terreno del diritto privato, e le questioni
legate al governo del corpo, dallo statuto giuridico delle cellule umane
alla maternità surrogata. Tutti temi ancora fortemente presenti nel
dibattito pubblico, che con Rodotà venivano messi al centro
dell’interesse del civilista con molti anni d’anticipo. Fu, quella,
un’impresa realmente collettiva di produzione di conoscenza e
un’esperienza formativa irripetibile. Alcuni di quei temi furono poi
affrontati compiutamente in “Tecnologie e diritti” che divenne libro di
testo del corso civile dell’anno accademico 1994/95.
Naturalmente
l’eterodossia insita nella scelta di argomenti simili per un corso della
facoltà di giurisprudenza incontrava la diffidenza di più d’un collega
ed è capitato di sentirsi chiedere con sarcasmo “Ma che fate agli esami
da Rodotà, parlate di sperma?”. Se questo atteggiamento di fondo fosse
stato meno diffuso, se ancora oggi i giuristi fossero meno intenti a
proteggere il loro orticello e più disponibili a coniugare il diritto
con la materialità della vita, come Rodotà ha indicato a partire dalla
selezione dei temi ritenuti degni della propria attenzione, essi
sarebbero certamente più utili alla società di quanto nel complesso non
riescano ad essere.
In effetti, Rodotà ha insegnato moltissimo a
tanti ma non è mai diventato mainstream. Anche perché le competizioni
narcisistiche fra accademici non lo hanno mai interessato ed era
certamente alieno dall’autocelebrarsi attraverso la centralità delle
proprie acquisizioni scientifiche, che pure sono state davvero seminali.
Una volta dissodato un terreno, aperto una prospettiva che
immancabilmente avrebbe segnato una svolta, era immediatamente attratto
dall’urgenza di un altro tema, desideroso di esplorare un nuovo
orizzonte con la capacità profetica, che gli era propria, di intuirne le
implicazioni future per la società e per il diritto.
Questa
particolarissima sensibilità è ciò che più di ogni altra cosa, credo, ha
reso unica l’esperienza di chi ha avuto il privilegio di fare con lui
lavoro di ricerca. Una preveggenza, una lungimiranza che è difficile
riconoscere in alcuno dei giuristi delle generazioni a seguire. E che in
definitiva è la ragione principale di una sensazione irredimibile di
spaesamento nel vuoto assurdo e incolmabile che la sua scomparsa lascia.