il manifesto 7.7.17
Una leadership sotto attacco nel Pd, divisiva tra gli elettori
Renzismo.
Per non accontentarsi di cavalcarne la crisi, alle forze della sinistra
plurale serve costruire un'apertura programmatica capace di invertire
la rotta
di Michele Prospero
La liquidazione
della leadership di Renzi è la condizione indispensabile, ma certo non
sufficiente, per una ripresa delle manovre a sinistra. Regalarlo
all’oblio, e affidare il Pd assai ridimensionato a una conduzione meno
provocatoria, sarebbe già un piccolo annuncio di inversione di tendenza.
È
vero che i problemi di fondo della democrazia italiana non sono
riconducibili alle scelleratezze di una singola persona. Anche chi ama
dipingersi come un uomo solo al comando e, nel suo delirio per il
partito personale, manomette la Costituzione e combatte i diritti del
lavoro, in realtà non scatena effetti di sistema con la sua pura volontà
di arbitrio.
Contano sempre i rapporti di forza e le potenze
sociali di cui una leadership è comunque espressione. E però rinunciare
al forte impatto divisivo che la figura di Renzi esercita nella società
non sarebbe ragionevole. Il popolo non sta con Renzi. È caduto “in odio
all’universale” direbbe Machiavelli. E, fino a quando lui sarà al centro
della contesa, i molti non aspetteranno altro che una qualsiasi arma
politica per percuoterlo a reiterazione negandogli il consenso.
Non
ci sono effettive possibilità di invertire il ciclo negativo con le
trovate di un marketing ormai ripetitivo e con slogan fastidiosi come un
ronzio testardo. Il meccanismo simbolico che la sua riapparizione ha
scatenato rinvia al duello tra un capo irridente e un popolo che si
sente beffato nei suoi pronunciamenti. Eppure un plebiscito non lascia
libertà ermeneutica alcuna. Un politico appena savio dovrebbe
scongiurare questa estrema polarizzazione tra l’alto e il basso, il capo
e il popolo. Renzi invece accetta una corsa al massacro che trasforma
un politico che veste il linguaggio del comico in uno sconfitto ad
oltranza che per cocciutaggine infantile volge al martirio.
Poiché
è difficile che una tardiva congiura possa sortire effetti liberatori,
allontanandolo dal Nazareno dopo la sceneggiata dell’incoronazione avuta
da un simulacro di partito, non resta che attendere lo schianto delle
elezioni. Per motivi del tutto obiettivi, l’antirenzismo è uno dei
collanti per abbozzare una alternativa al potere che ha aggredito
lavoro, costituzione, scuola. Non è sufficiente l’immagine del nemico,
ma intanto l’avversione radicale verso un leader non più tollerato è una
cosa che si annusa nell’aria e impolitico sarebbe rinunciarvi.
Occorrerebbe anche dell’altro, ma non esiste ancora una sinistra
credibile e pronta per imbastire una alternativa progettuale.
Le
sue difficoltà sono la sedimentazione di 25 anni di storia repubblicana
non ripensati criticamente e quindi oltrepassati per davvero, senza
camuffamenti strumentali. La rivendicazione del bilancio positivo di
quanto realizzato dal centro sinistra nei suoi anni di governo è di
sicuro legittima. Ma la puntigliosa difesa di un ceto politico che si è
mantenuto lontano dalla corruzione, ha raggiunto un certo prestigio in
Europa e ha anche mostrato una capacità di gestione della macchina
dell’amministrazione, non dovrebbe occultare l’impatto strategico, nel
complesso negativo, che nel lungo periodo ha esercitato la contagiosa
metamorfosi culturale della sinistra Dc che, già negli anni ’80, si
convertì alla venerazione del liberismo, dell’efficienza.
Da una
tradizionale predilezione statalista (industria pubblica, politiche
industriali, partecipazioni statali), la sinistra Dc, anche in
competizione con il Psi, passò alla rivendicazione delle virtù
dell’efficienza degli ingranaggi del libero mercato. In questo impeto
contro lo Stato imprenditore, essa si incontrò con l’innamoramento della
sinistra postcomunista per il nuovo verbo blariano che cantava l’elogio
della concorrenza, delle privatizzazioni, dello Stato regolatore e non
gestore. Molte scelte furono obbligate per una tradizione annichilita e
spaesata dopo la sconfitta dell’Ottobre. E però una valutazione
complessiva andrebbe ormai abbozzata per tentare un’operazione nel segno
della discontinuità come quella di Corbyn.
Se dopo 25 anni
l’Italia non cresce, la sua economia conserva gli stessi elementi di
fragilità strutturale, con il riemergere di pesanti differenziazioni
territoriali e con livelli insostenibili di disoccupazione e di
esclusione sociale, ciò chiama in causa qualcosa di permanente, cioè
l’abbandono dei canoni dell’antico governo pubblico dell’economia. Il
maltrattamento dell’economia mista, l’esaltazione del vincolo esterno
come irripetibile occasione di un recupero di competitività contro i
lacci e lacciuoli dello Stato sociale, ha estirpato, con le
degenerazioni e gli elementi di improduttività, con le sacche di
corruzione e di inefficienza, anche le condizioni pubbliche a garanzia
della crescita, dell’innovazione, degli investimenti produttivi,
dell’occupazione, della redistribuzione.
Su questi punti di
sofferenza epocale o declino è opportuno insistere criticamente non per
imbastire affrettati processi sulle colpe delle classi dirigenti ma per
immunizzarsi definitivamente da una cultura di governo che ha fallito
nella sua idea di modernizzazione e indotto alla marginalizzazione
sociale, alla perifericità dell’Italia nell’economia-mondo. Non per
cercare capri espiatori ma per riproporsi come reali forze di
alternativa, cioè come punto di riferimento in un tempo di crisi sociale
cronicizzata, la sinistra dovrebbe ripensare le sue categorie, per
definire un progetto nuovo che parli alle sofferenze ed esclusioni
odierne.
Se questa apertura programmatica manca, alla sinistra
plurale non resta che accontentarsi dell’antirenzismo. È unilaterale e
rozzo il desiderio di abbattere la statua di un capo odiato che non se
ne va, ma questa picconata a un’icona ostile sprigiona pur sempre un
elemento di mobilitazione. Antirenzismo, allora? Sì, solo se serve per
prendere tempo e lavorare a un progetto politico che non può cavarsela
con una riedizione di un antico centro-sinistra.