il manifesto 7.7.17
La memoria riesumata del presente
Diario. 1939-1945, gli anni che hanno segnato l’Italia repubblicana. «L’eredità» di Corrado Stajano
di Marco Revelli
Si
può camminare sull’orlo di un precipizio senza neppure accorgersene. Ci
si può avviare verso una catastrofe a occhi chiusi, senza neppur
coglierne i segni. Ci sono voluti gli occhi di un bambino e i ricordi di
un anziano, compresi in un’unica voce narrante, per darci la misura di
questa nostra maledizione (personale e nazionale).
È questa la
sensazione attualissima – sconvolgente – che ho provato leggendo il più
recente libro di Corrado Stajano, appena pubblicato dal Saggiatore.
L’Eredità (pp. 165, euro 18) di cui parla – e che dà il titolo al libro –
è appunto questa storia depositata dentro di noi, costellata di
tragedie reali e di normalità virtuali. D’illusioni attese e di rovine
concrete. La demagogia della politica (meglio: del Potere) e le dure
repliche della Storia.
AL PRINCIPIO E AL CUORE del libro il 1939
(la madre di tutte le tragedie). Un giorno di maggio, anzi, un
pomeriggio. In una città di confine, Como. Un bimbetto in divisa da
«Figlio della Lupa», inquadrato alla meglio con gli altri scolari, agita
la bandierina tricolore distribuita dal «maestro nero», in orbace, in
attesa del grande evento, la limousine di Stato con sopra due signori in
divisa, coperti di decorazioni, le aquile dorate sui cappelli, che
passano veloci, sorridenti e salutanti, tra la gente in festa, e sono
già oltre, in un amen.
Erano Galeazzo Ciano e Joachim von
Ribbentrop, si preparavano a firmare il «Patto d’acciaio», l’alleanza
mortale dell’Italia fascista con la Germania di Hitler, («su un foglio
di carta la giovinezza perduta di milioni di uomini») ma lì, a
quell’angolo di strada, tra la cappelleria Rossini e la Casa dei filati
col suo odore di vecchia bottega, sembravano il ritratto della bonomia e
dell’amicizia.
Appena il tempo di ricordare frammenti di quella
«tragica estate mascherata di serena letizia», i caffé eleganti
affollati, l’orchestrina che suona canzoni leggere. E subito la scena
cambia: le strade del centro di Milano devastate dalle bombe dei
Lancaster alleati, macerie ovunque, con le case che mostrano impudiche i
propri interni.
ORA IL BAMBINO fattosi ragazzo – sono passati
quattro anni appena – si aggira attonito nei luoghi consueti caduti in
rovina, Palazzo Marino sventrato. corso Magenta una grattugia, piazza
San Fedele irriconoscibile. Sbircia tra i muri diroccati della «bella
basilica delle Grazie», dove il Chiosco dei morti distrutto rivela,
dallo squarcio di un muro, lo spettacolo leonardesco de L’ultima cena,
miracolosamente sopravvissuta.
È L’AGOSTO DEL ’43. Tra poco Milano
si riempirà di fabbriche dell’orrore, villa Triste con i sadici della
Banda Koch, l’Albergo Regina a quattro passi dalla Scala, le urla dei
torturati dalle SS. Una catena di sofferenze, prima che la festa
d’aprile del ’45 ponga fine al terrore.
Sullo sfondo, la sfilata
di ritratti, uomini e donne del regime, carriere folgoranti in camicia
nera all’insegna della fedeltà al Duce e repentine cadute in disgrazia:
come quella di Giuseppe Terragni, l’architetto del razionalismo
fascista, ingenuo adoratore di un «fascismo onesto», passato dagli
altari della Patria alla polvere e al ghiaccio della ritirata di Russia,
da cui uscirà inebetito e disilluso per morire solo, a 44 anni, di
trombosi alla vigilia del 25 luglio. O come quella di Margherita
Sarfatti, la «Maga Circe del Fascismo», riverita e omaggiata amante del
Capo, onnipotente signora dei Salotti letterari prima di essere
emarginata dalla volubilità di Lui e infine travolta dalle leggi
razziali. Una successione di mondi caduti. Le icone della fatuità del
successo maturato all’insegna del servilismo e della dedizione a un uomo
solo al comando.
È QUESTA L’EREDITÀ – la legacy, direbbero gli
inglesi, il «lascito» – che dovremmo riattivare ogniqualvolta assistiamo
a una parata, un Vertice, una Conferenza internazionale o un proclama
governativo. Per imparare a guardar dietro ai sorrisi di circostanza o
alle fotografie di gruppo. Per tentare di vedere il sotterraneo lavoro
della Storia al di là delle verità di comodo o di regime, siano le
conclusioni di un G7 o le Conferenze stampa di un Premier. Quando
Schauble parla di Grecia. Quando Theresa May parla di Brexit. Quando
Donald Trump parla di America great again. Quando Matteo Renzi parla
dell’Italia che «cambia verso». Quando tutti insieme a Taormina parlano
di clima. E ancora a quell’eredità dovremmo tornare, col pensiero,
quando – tra un bail-in e un bail out di banche – leggiamo sui giornali
la minaccia del Governo di chiusura dei porti in faccia ai soccorritori
dei migranti, dopo aver ascoltato un Ministro dell’Interno che si dice
«di sinistra» vantare gli accordi feroci con le «40 tribù» libiche del
confine col deserto per respingervi i flussi di profughi.
DOVREMMO
DISSEPPELLIRE dalla memoria – pure questo fa parte del «lascito»
descritto da Stajano – quanto, meno di un secolo fa, fecero sulla stessa
costa libica da cui partono oggi i barconi baldi italiani come Graziani
e Badoglio: i 40.000 ammazzati in operazioni di repressione, e gli
altri 100.000 in tutta la Cirenaica, a cui aggiungere lo sterminio di
Etiopia, con l’uso sistematico dei gas, iprite, fosfene, i gioielli
della nostra chimica. Anche nel convivere, silenziosi o inerti, di
fianco a tutto ciò sta il nostro «danzare giulivi» sotto la «cappa nera»
che ci oscura il futuro, in un tempo in cui – direbbe Montale, oggi
come allora – «la bussola va impazzita all’avventura/e il calcolo dei
dadi più non torna» (La casa dei doganieri, 1939).