il manifesto 6.7-17
La tortura c’è
Tortura all’italiana
Giustizia.
Finalmente il reato entra nel codice, ma la legge è debole. Con soli i
voti di mezzo Pd, la camera approva definitivamente un testo che
annacqua i principi della Convenzione Onu e sarà difficile da applicare
di Andrea Fabozzi
ROMA
Meno di duecento voti favorevoli (198), vale a dire meno di un terzo
della camera dei deputati, sono bastati ieri sera a far entrare con
trent’anni di ritardo il reato di tortura nel codice penale italiano. La
ragione di tanto scarso entusiasmo è che la legge delude quasi tutte le
attese, tanto da essere stata criticata dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, dal Consiglio d’Europa, da una lunga schiera di giuristi e
persino dai magistrati che hanno portato in tribunale le forze
dell’ordine per le violenze del G8 di Genova. La «informe creatura
giuridica» approvata ieri (secondo la definizione di uno dei tanti
appelli al parlamento perché correggesse la legge, tutti inascoltati)
secondo i giudici genovesi non sarebbe stata applicabile neanche alla
«macelleria messicana» della scuola Diaz.
Di fronte a un testo del
genere, frutto di successivi compromessi al ribasso voluti dal Pd,
soprattutto nell’ultimo passaggio al senato durato due anni, i
sostenitori dell’introduzione del reato di tortura fuori dal parlamento
si sono divisi tra chi apprezza comunque il passo in avanti (Amnesty
Italia) e chi lo ritiene al contrario un passo falso, controproducente
(A buon diritto, associazione Cucchi, comitato verità e giustizia per
Genova). In parlamento ha votato a favore praticamente solo il Pd (gli
alfaniani di Ap in teoria erano della partita, ma si sono presentati
solo in 4 su 24); i democratici hanno registrato comunque il 40% di
assenze. Segno di un forte malcontento, espresso giorni fa in
un’intervista dal presidente del partito Orfini – «legge inutile, meglio
non approvarla» – e in aula solo dalla deputata Giuditta Pini. Si sono
astenuti i 5 Stelle, che tendono a vedere il bicchiere mezzo pieno, e
infatti al senato sull’identico testo avevano votato a favore, Mdp che
parla di «legge debole», i centristi di maggioranza del gruppo Civici e
innovatori e anche Sinistra italiana che è assai più critica: «Abbiamo
confezionato il reato impossibile per il retropensiero di alcuni che in
questi tempi di terrorismo un po’ di tortura possa tornare utile», ha
detto il deputato Daniele Farina. Mentre è noto che il senatore del Pd
Luigi Manconi, che ha presentato il progetto di legge originario nel
primo giorno della legislatura, ha parlato di un provvedimento
«completamente stravolto». Contraria tutta la destra, che vede nella
legge una minaccia alla libertà di azione delle forze di polizia. Con
argomenti come quelli del «fratello d’Italia» Cirielli: «Il poliziotto
che di fronte a uno stupratore o a un autonomo perde la pazienza e
lascia partire qualche schiaffo o qualche calcio rischia più dei
delinquenti».
Difficile però che si possa applicare a casi del
genere – «meno di un occhio pesto», per citare sempre Cirielli – il
reato di tortura. Perché così com’è stato approvato definitivamente ieri
non è più un reato proprio del pubblico ufficiale ma un «delitto
comune» che può essere compiuto da chiunque si trovi nelle condizioni di
esercitare «vigilanza, controllo, cura o assistenza» nei confronti
della vittima. È forse la peggiore novità imposta nel passaggio in
senato, rispetto al testo già approvato dalla camera nel 2015.
Le
altre, tutte negative, sono la previsione che le violenze e le minacce
debbano essere «gravi» (un po’ come dovevano essere «particolarmente
efferate» le sevizie escluse dall’amnistia del ’46) «ovvero agendo con
crudeltà», una circostanza difficile da dimostrare per i pm. Perché si
verifichi tortura è adesso richiesto che siano commesse «più condotte»,
sembrerebbe cioè non bastare un singolo episodio e neanche un episodio
reiterato della stessa natura. L’azione del pubblico ufficiale è adesso
sempre giustificata «nel caso di sofferenze risultanti unicamente
dall’esecuzione di legittime misure limitative di diritti». Infine è
necessario che l’azione del torturatore cagioni sulla vittima «un
verificabile trauma psichico», sempre difficile da provare soprattutto a
distanza dai fatti (quando in genere si arriva al processo).
Le
pene sono alte, al massimo dieci anni aumentati a dodici nel caso in cui
l’autore sia un pubblico ufficiale, ma la prescrizione non è del tutto
scongiurata. Mentre è addirittura prevista la pena fissa, solo massima,
di trent’anni e dell’ergastolo nel caso in cui dalla tortura derivi la
morte, accidentale o intenzionale. «Tutti questi requisiti rendono
difficile l’applicazione della nuova norma», ha spiegato il presidente
della prima commissione, il centrista Mazziotti.
D’altra parte
nella legge è rimasto il divieto di espulsione dello straniero quando ci
sono fondati motivi di ritenere che rischi di essere torturato, anche
sulla base delle violazioni sistematiche dei diritti umani nel suo stato
di origine. Ma 33 anni dopo la Convenzione dell’Onu e 29 anni dopo la
legge italiana che la recepiva (al governo c’era Ciricaco De Mita) il
nostro paese per adottare il reato di tortura ha avuto bisogno di
snaturarlo.