il manifesto 6.7.17
Non basta che sia nel codice
di Patrizio Gonnella
In
Italia da oggi la tortura è reato. C’è voluto un dibattito parlamentare
lungo quasi trent’anni per produrre una legge definita di compromesso
dal deputato del Pd Franco Vazio, relatore del provvedimento. Ma si può
accettare o siglare un compromesso su un crimine contro l’umanità?
Il
dibattito parlamentare è stato per lunghi tratti triste, incolto,
illiberale, ricco di opposizioni pretestuose. Nel nome delle mani libere
delle forze dell’ordine si è cercato di renderle immuni da
responsabilità. Governi di destra e di sinistra hanno in passato detto
no alla tortura. Oggi c’è un reato ad hoc.
Retroguardie culturali
hanno condizionato il dibattito pubblico contribuendo a produrre una
legge criptica, non rispondente alla definizione presente nella
Convenzione Onu contro la Tortura del lontano 1984.
In vari punti
la legge approvata ieri è di difficile digeribilità: la previsione della
pluralità delle condotte violente affinché vi sia la configurabilità
del delitto, il riferimento espresso alla condizione della
«verificabilità» del trauma psichico. Un tentativo pacchiano di
restringere l’area della punibilità del presunto torturatore. E poi non
sono stati previsti tempi straordinari di prescrizione come un crimine
di tale tipo richiede. Ed è stata prevista la pena dell’ergastolo contro
cui si siamo sempre battuti e ci batteremo sempre.
Era il 10
dicembre del 1998 quando Antigone elaborò la sua prima proposta di
legge, fedele al testo delle Nazioni Unite. Non abbiamo mai abbandonato
la nostra pressione pubblica e politica su questo tema. Siamo andati
davanti a giudici nazionali, europei, organismi internazionali a
segnalare questa lacuna gravissima nel nostro ordinamento giuridico. Il
manifesto è stato sempre al nostro fianco. Nel tempo i governi che si
sono succeduti hanno usato le più svariate strategie di risposta:
dilatorie, apertamente oppositive, falsamente disponibili.
Da ieri
comunque abbiamo una legge che incrimina la tortura. Possiamo da oggi
nelle Corti chiedere che un pubblico ufficiale sia incriminato non per
lesioni o abusi vari o maltrattamenti in famiglia (come è accaduto ad
Asti) ma per tortura. Purtroppo il delitto è configurato in modo a dir
poco arzigogolato. È definito come un delitto generico, ossia che può
essere commesso anche da un cittadino comune e non solo da un pubblico
ufficiale. Per noi la tortura, nonostante la divergente previsione
normativa, è e resta invece un delitto proprio, ossia un delitto che,
come ci tramanda il diritto internazionale pattizio e consuetudinario,
non può che essere un delitto dei pubblici ufficiali. Da domani il
nostro lavoro sarà quello di sempre: nelle ipotesi di segnalazioni di
casi che per noi costituiscono «tortura» ci impegneremo affinché la
legge sia applicata davanti ai giudici nazionali. E se questi dovessero
latitare – un po’ dipende anche da loro, così come dagli avvocati,
rendere quella fattispecie operativa – andremo davanti alle Corti
internazionali.
Uno sguardo va rivolto alle altre parti della
legge ugualmente importanti le quali riguardano la non espulsione di
persone che rischiano la tortura nel paese di provenienza e
l’estradizione di cittadini stranieri accusati di tortura e attualmente
residenti nel nostro paese. Qualora applicate in sede giurisdizionale
con ragionevolezza e spirito democratico tali norme potranno salvare
molte vite da un lato e rompere il circolo vizioso della impunità dei
torturatori di Stato dall’altro.
Nessuno è però così ingenuo dal
pensare che ottenuta la legge, buona o brutta che sia, la tortura sarà
di conseguenza definitivamente eliminata dalle nostre prigioni, dalle
nostre caserme, dai nostri centri per migranti, dalle nostre strade.
Il
reato è una condizione necessaria ma non sufficiente per mettere al
bando la tortura. È necessario che vi sia un cambio di paradigma che
porti la dignità umana al centro delle nostre politiche di sicurezza.