Corriere 6.7.17
Le lotte fratricide a sinistra
di Paolo Mieli
Oggi
si riunisce la direzione del Pde riprende la navigazione della sinistra
italiana verso l’ignoto. La rotta indicata dal nocchiero Matteo Renzi
non è chiara; il bastimentoha recentemente urtatocontro qualche scoglio
e, il 4 dicembre scorso, contro un iceberg, ma è ancora a galla. La
ciurma rumoreggia com’è avvezza a fare ormai da decenni. Alcuni tra gli
ufficiali in seconda appaiono deditiad organizzare (ognuno per conto
proprio) la prossima sedizione. Forse Dario Franceschini e Andrea
Orlando, gli ultimi ad aver lanciato la sfida al capitano, nella
giornata di oggi fingeranno di riappacificarsi con lui. Ma si tratterà,
appunto, di una finzione, di una sosta lungo un itinerario che è già
segnato. E che conduce all’ennesima rivolta. Come fu del resto per i
loro predecessori, tutti, nessuno escluso. È il destino di questo
partito: non fa in tempo a subire una defezione che c’è già qualcuno
pronto a prendere il posto di coloroche se ne sono andati.
Raccogliendone le bandieree facendone proprie le argomentazioni. Anche a
costo di entrare in palese conflitto con quel che i nuovi riottosi
avevano fatto e sostenuto fino a qualche ora prima. Ai fuorusciti non
tocca miglior sorte: le acque in cui si trasferiscono con le loro
scialuppe appaiono tutt’altro che tranquille. Dopo un po’ salgono su
nuovi bastimentiin cui c’è un’atmosfera strana: quelli che non si erano
mai imbarcati sulla nave da cui loro provengono non sembrano entusiasti —
eccezion fatta per i più cinici — all’idea di accogliere a braccia
aperte coloro che sene sono allontanati nella penultima e nell’ultima
ora.
I nevitabile che il tema maggiormente dibattuto sia: fu
giusto salire sulla imbarcazione renziana? E quand’è che fu chiaro che
la si doveva abbandonare? Come mai alcuni lo capirono prima, altri ci
misero mesi e altri ancora anni? Per quali motivi gran parte degli
sbarcati — che pure adesso sostengono essere stata la navigazione
funesta fin dall’inizio — sono rimasti a bordo fino a pochissimo tempo
fa? È giusto, infine, che chi è sceso per ultimo venga messo a capo di
coloro che se ne andarono precedentemente? Chi lo ha deciso? Ed è,
oltretutto, una discussione tutt’altro che serena. Si svolge, anzi,
all’insegna di un termine che sempre più ricorre in cronache e commenti:
«odio».
Tempo fa, alla vigilia delle elezioni francesi, Marc
Lazar osservava come i dissidi che dividevano le sinistre francesi,
benché non fondati su corpus dottrinari definiti come ai tempi del
comunismo, provocavano «antagonismi sempre più virulenti» che a volte
degeneravano «in espressioni di vero e proprio odio reciproco». La
sinistra e non solo quella parigina, gli appariva «impegolata nei suoi
conflitti interni e nelle sue rivalità di leadership» al punto da
renderla «incapace di comprendere la portata delle mutazioni in atto e
le enormi sfide che gravano sulle nostre democrazie». Anche Emanuele
Macaluso — grande vecchio del comunismo italiano che non ha mai avuto
grande simpatia per l’attuale segretario Pd — di recente ha accantonato
il dilemma «Renzi Sì-Renzi No» per soffermarsi su una questione più
generale. Si è detto colpito, Macaluso, dall’«eterna» riproposizione
dell’«odio a sinistra». Non ha avuto remore a definirla una «disgrazia
storica», addirittura un «male incurabile». Anche perché, notava, l’800 è
finito, se n’è andato pure il 900, non ci sono più né il socialismo, né
il comunismo «con le loro lunghe lotte fratricide», eppure «la pulsione
suicida di farsi la guerra a sinistra perdura come se niente fosse». È
una pulsione che viene da lontano, da tempi, forse, assai remoti in cui
la politica come la conosciamo oggi non esisteva nemmeno. Ma remoti
quanto? Impossibile rispondere con una data. Forse ci può aiutare solo
la mitologia greca.
Qualche giorno fa, Gianni Cuperlo, tra i più
colti della combriccola ex Pci, ha messo in guardia i propri compagni
dal rischio di «fare la parte dei proci a Itaca». Strana evocazione.
Inconsueta. Poco lusinghiera, già nelle premesse, nei confronti dei suoi
sodali. L’avvertimento era rivolto, presumibilmente, a coloro che
militano dentro e fuori dal Pd per metterli in guardia dal rischio di
farsi trascinare in un’ecatombe simile a quella che ha reso celebre il
XXII canto dell’ Odissea . È da escludere che Cuperlo intendesse
proporre una sovrapposizione tra la figura di Renzi e quella di Ulisse.
Ed è anche improbabile che volesse suggerire una qualche analogia tra i
nobili pretendenti alla mano di Penelope e coloro che vorrebbero
detronizzare il segretario del partito testé rieletto dal congresso. Per
quanto, come numero (108) siamo lì. Possibile invece che Cuperlo
volesse alludere al clima che, a detta di Omero, si respirava nella
reggia di Itaca prima, durante e dopo la strage: i rampolli della
nobiltà locale si mostravano in pubblico pensosi del futuro dell’isola,
ma in privato elaboravano complicati disegni per la presa del potere
abbandonandosi nel contempo a baccanali e a festosi consessi. Non
avevano, i proci, un leader riconosciuto, a meno che non si consideri
tale Antinoo che era soltanto il più irriducibile, il più deciso a
togliere di mezzo financo Telemaco, l’erede dinastico e che sarebbe
stato il primo ad essere trafitto da una freccia di Odisseo. Il quale
Odisseo — ed è un passaggio importante dell’intera vicenda — rinuncerà,
persino nei momenti di maggior difficoltà, a stringere accordi con i
proci apparentemente più duttili (non scenderà a patti neanche con
Eurimaco che, dopo l’uccisione di Antinoo, gli aveva proposto una pace
accompagnata da un considerevole indennizzo). E si darà la forza di
combattere da solo, tenendo con sé esclusivamente il figlio e due servi
fedeli. Il trattativista Eurimaco sarà il secondo dei proci a
soccombere; poi, uno a uno, verranno uccisi tutti gli altri. Dopo la
carneficina giungerà il tempo del lieto ricongiungimento tra Ulisse e
Penelope. Un tempo che lì per lì poteva apparire definitivo ma che
invece sarà brevissimo: i parenti dei proci uccisi cercheranno subito
una rivincita armata che Ulisse (ora, nel XXIV e ultimo canto, in
compagnia del padre Laerte) si mostrerà ben lieto di concedere. Stavolta
però sarà Atena, con una saetta di Zeus, ad impedire lo svolgimento
della nuova, ennesima, sanguinosa tenzone. E a chiudere lì questa storia
di odi e di vendette.
Ripetiamo: siamo certi che Cuperlo non
volesse proporre un’equiparazione tra la figura di Renzi e quella di
Ulisse, accostamento che, tra l’altro, a dispetto degli intendimenti
cuperliani, sarebbe stato oltremodo lusinghiero per il politico di
Rignano. Ma siamo altresì convinti che il paragone venuto in mente a
colui che sfidò Renzi nelle primarie del dicembre 2013, ci dica qualcosa
— perfino al di là delle intenzioni — in merito all’aria che traspira
dalla dimora del centrosinistra e dagli ambienti che la circondano.
Laddove l’unica speranza rimasta a chi auspica la fine delle lotte
fratricide che spaventano Macaluso e Lazar sembra essere che Zeus e
Atena non si distraggano come hanno fatto per circa tremila anni dopo
quei giorni di Itaca. E decidano di intervenire una seconda volta.