Corriere 6.7.17
Le occasioni perse della Polonia, il «quinto grande» che manca alla Ue
di Antonio Armellini
Le
architetture ultramoderne oscurano a Varsavia la mole «socialista» del
Palazzo della Cultura; a Cracovia l’assalto dei turisti fa il paio con
quello di Praga. L’impronta mitteleuropea dei palazzi risorti dalle
macerie convive con la cacofonia della globalizzazione. L’Ambasciatore
Alessandro de Pedys fa notare che gli investimenti italiani in Polonia
sono maggiori che in Russia. Appena fuori dai centri rinnovati tuttavia,
ricompaiono i caseggiati popolari tirati su in fretta negli anni
Cinquanta: hanno mantenuto il grigiore dimesso di un tempo e sono la
metafora di un Paese in crescita vorticosa e profondamente diviso sul
senso della sua ritrovata identità.
La Polonia potrebbe essere il
«quinto grande» della Ue, in grado di riequilibrare la proiezione
tedesca verso Est, e il brusco cambio di rotta nei confronti di
Bruxelles ha il sapore di un’occasione perduta. Jaroslaw Kaczynski —
l’uomo forte dietro il governo del PiS — usa abilmente la
contrapposizione sull’Europa per rafforzare un consenso che si fonda
sulla divaricazione fra città e campagna, fra vinti e vincitori della
globalizzazione e sul misto di intolleranza e irrazionalità insito
nell’animo polacco. La Ue è vista soprattutto in termini di
costo/beneficio economico e in chiave anti russa. Secondo Adam Bielan,
vice Presidente del Senato e del PiS, le «interferenze» della Ue sul
ruolo di Donald Tusk e le accuse in materia di libertà di stampa e di
prerogative della Corte Costituzionale non fanno che accrescere
l’appoggio trasversale al governo. Con lui concorda uno dei padri della
nuova Polonia come Adam Michnik, il quale guarda con rassegnata saggezza
ad un Paese che avrebbe potuto essere quello per cui aveva lottato e
rischia di diventare qualcos'altro.
Kaczynski non è il personaggio
rozzo descritto talvolta, bensì un politico consumato. Ha ereditato dal
precedente governo — fa notare l’ex premier Marek Belka — un quadro
macroeconomico solido che gli consente di continuare in larghezze
populiste (come l’assegno di poco più di cento euro mensili a partire
dal secondo figlio) e di rinviare il momento in cui la crisi con la Ue
comincerà a mordere seriamente, soprattutto in agricoltura. Il 14 per
cento del settore assicura la sufficienza alimentare e l’export agricolo
del Paese, mentre la restante maggioranza di piccoli produttori
inefficienti dipende dai sussidi europei e costituisce un serbatoio
elettorale fondamentale per il PiS.
Lo stesso vale per la Chiesa
cattolica, che ha subito impotente la rapida secolarizzazione del Paese e
si è rifugiata in una ortodossia retriva che ne ha indebolito il ruolo
di riferimento morale della nazione. L’alleanza tattica fra la gerarchia
cattolica e il governo conviene ad entrambi e consente a quest’ultimo
di guadagnare tempo: prima o poi la pressione della Ue — che
l’opposizione esorta a non lasciar cadere — avrà il suo effetto e il
cambiamento diverrà inevitabile. Forse fra un paio di legislature, dice
l’ex presidente della Repubblica Aleksander Kwasniewski, forse prima
secondo Michnik. Sempre che, aggiungono, Kaczynski non fiuti per tempo
il vento e faccia compiere al PiS una giravolta che spiazzi gli
avversari nei giochi con Bruxelles. Wawrzyniec Smoczynski, il
quarantenne esponente del think tank Polytika Insight, ha una visione
diversa e afferma che lo scontro con Bruxelles è espressione di una
politica in attesa di rottamazione, i cui temi non interessano la sua
generazione la quale punta a una Polonia nella Ue e — un giorno — anche
nell’euro. Perché la verità è che, al di là delle lamentazioni
nazionalistiche, la grande maggioranza dei polacchi si vede saldamente
dentro la Ue; il paradosso è che, nell’attesa, rischiano di contribuire
ad affossarla.