il manifesto 14.7.17
Landini, sette anni in salita combattendo per i diritti
Landini,
da Pomigliano al passaggio in Cgil. Il duello con Marchionne e vinto
grazie alla «via giudiziaria». La sovraesposizione mediatica
Maurizio Landini a piazza San Giovanni
Massimo Franchi
Edizione del
14.07.2017
Pubblicato
13.7.2017, 23:59
Quando
fu eletto segretario generale il primo giugno del 2010 in pochi
conoscevano Maurizio Landini. Certo, era segretario nazionale della
Fiom, aveva seguito vertenze «rognose» come Electrolux, Piaggio, Indesit
ma nessuno poteva prevedere come «l’uomo con la maglietta della salute»
potesse diventare un punto di riferimento per la riconquista della
dignità «di chi per vivere deve lavorare».
SCELTO DAL CONTERRANEO
reggiano Gianni Rinaldini si propone in continuità nel periodo già lungo
dei contratti separati. Proprio in quei giorni però sta per scoppiare
la bomba Fiat, quella che segnerà tutta la segreteria Landini. Il
«ricatto» di Marchionne parte da Pomigliano, la fabbrica napoletana che
diventerà il simbolo della strategia del «manager col maglioncino». In
cambio del lavoro e di un nuovo modello – la Panda – ai sindacati e ai
lavoratori viene chiesto di rinunciare a buona parte dei diritti
conquistati: diciotto turni, pause ridotte da 40 a 30 minuti, aumento
dello straordinario obbligatorio e, «più «inaccettabile di tutto», la
clausola di salvaguardia sugli scioperi che sanziona lavoratori e
organizzazioni che dichiarano scioperi. Il tutto in deroga al contratto
nazionale costruendone in pratica uno nuovo: il Contratto collettivo
specifico di lavoro.
Landini va a Pomigliano e, nonostante le
forti pressioni anche dentro la Cgil per «una firma tecnica», guida la
protesta al «modello Marchionne» e la campagna sul No al referendum che
si tiene il 22 giugno e il plebiscito voluto da Marchionne e dai
sindacati firmatari (Fim, Uilm, Fismic, Ugl) si ferma al 63,4 per cento.
Nonostante tutto il mondo politico si schieri per il Sì la Fiom da sola
porta il No ad oltre il 36 per cento. Da lì parte la battaglia per i
diritti che porta alla grande manifestazione di piazza San Giovanni a
Roma del 16 ottobre con un milione di persone, la prima in cui sul palco
salgono non solo sindacalisti e lavoratori ma Gino Strada di Emergency e
il comitato per l’acqua pubblica inaugurando un modello innovativo di
alleanza sociale che si allargherà a Libera di Don Ciotti, a Stefano
Rodotà a Gustavo Zagrebelsky.
SE SUL PIANO MEDIATICO è imbattibile
e viene conteso da ogni talk show – da Santoro a Mediaset per finire a
La7 perché come ha ricordato ieri Canio Calitri «la crediblità gli viene
dal fatto che in tv dice le stesse cose che dice in fabbrica» – a
livello organizzativo a Corso Trieste lascia molto a desiderare:
accentratore e poco incline all’ascolto in molti territori
l’organizzazione ha problemi non da poco.
Se la Fiom torna (o
diventa) un punto di riferimento perfino per giovani, precari e
disoccupati, Marchionne può sempre sostenere di aver vinto la sua
guerra: a Mirafiori vince solo con il 54% (e fra gli operai perde) ma il
suo modello si allarga e, “grazie” all’articolo 19 dello Statuto dei
lavoratori abilmente utilizzato, caccia la Fiom e la Cgil dalle sue
fabbriche: a livello aziendale solo i sindacati firmatari degli accordi
possono essere rappresentati.
Le foto dei delegati di Mirafiori
che fanno gli scatoloni e arrotolano le foto di Berlinguer e Trentin
fanno il giro del mondo. Ma lì parte la «via giudiziaria» e la
controffensiva della Fiom. Che rientra in fabbrica «con la Costituzione
in mano» grazie alla sentenza della Consulta del 3 luglio del 2013 che
sanziona come illegittima la norma ristabilendo la rappresentanza per il
maggior sindacato italiano anche nelle fabbriche ormai diventate Fca
con sede legale in Olanda e quotata a Londra e poi a New York.
A
posteriori si può dunque sostenere che se Marchionne non ha chiuso
fabbriche in Italia lo si deve in buona parte alla battaglia Fiom. E non
certo all’azione sindacale sempre acritica degli altri sindacati.
Ridurre
però i sette anni di Landini alla sola battaglia con Marchionne è
riduttivo. L’autonomia e l’indipendenza dei metallurgici della Cgil in
piena coerenza con la lezione di Claudio Sabattini sono state
riconquistate grazie a proposte innovative come l’uso dei fondi pensione
per investire in Italia, la battaglia per una industria verde, le tante
vertenze (le manganellate prese con gli operai delle acciaierie di
Terni) in cui si è riusciti a rilanciare aziende date per morte,
l’alleanza coi precari, la democrazia (il voto dei lavoratori) come
precondizione per qualsiasi accordo.
L’ERRORE PRINCIPALE che si
imputa a Landini è la presto sotterrata “Coalizione sociale”. Forse
lusingato dall’attenzione che media, professori, vip e tanti politici,
lancia la manifestazione di piazza del Popolo il 28 marzo 2015 viene da
molti (Il Fatto in testa) percepita come la nascita di un partito o come
la disponibilità di Landini a sfidare Renzi. In realtà lo stesso
Landini fissa un obiettivo molto più sindacale: «Riunire il mondo del
lavoro».
Ma tutto finisce lì e il flop è fragoroso.
Da quel
momento però Landini corregge la sua posizione, si concentra solo sul
sindacato. L’obiettivo è di «riconquistare un contratto nazionale
unitario» dopo gli ultimi due separati. La traversata del deserto è
lunga e faticosa: parte con il ricostruire i rapporti con Fim e Uilm e
passa per una lunghissima trattativa con Federmeccanica. I compromessi
accettati sono molti e duri da digerire: il welfare aziendale come quasi
unica voce di aumento salariale, lo spazio lasciato al contratto
aziendale di secondo livello. Ma l’obiettivo viene raggiunto. A questo
punto Landini considera «conclusa una fase». E decide che è «venuto il
momento di provare a cambiare la Cgil». Di certo la sfida maggiore delle
non poche che ha già affrontato.