Il Fatto 8.7.17
“Possono perquisire i cronisti solo in cerca di terroristi e pedofili”
L’ex giudice della Corte di Strasburgo sul caso Lillo
Vladimiro
Zagrebelsky è stato giudice della Corte europea dei diritti umani dal
2001 al 2010. Già membro del Csm, dal 1998 all’aprile 2001, è stato a
capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia
di Alessandro Mantovani
Il
nostro vicedirettore Marco Lillo è stato perquisito martedì: qualunque
supporto informatico nella disponibilità sua o dei suoi congiunti è
stato sequestrato dalla Finanza su ordine della Procura di Napoli che
cerca le fonti di informazioni coperte da segreto pubblicate dal Fatto e
nel libro Di padre in figlio (Paper First). Non è il primo caso e non
sarà l’ultimo ma non si può fare. Ne abbiamo parlato con Vladimiro
Zagrebelsky, giudice italiano alla Corte europea dei diritti umani dal
2001 al 2010.
Cosa dice la giurisprudenza di Strasburgo delle
perquisizioni ai giornalisti alla ricerca delle loro fonti
confidenziali, protette dal segreto professionale?
La Corte
europea ritiene che la libertà della stampa di informare sui fatti di
interesse per la pubblica opinione sia un pilastro delle democrazie e
che quindi siano gravissimi i casi in cui quella libertà viene
compressa. Condizione essenziale del lavoro dei giornalisti è la
protezione delle loro fonti; se la confidenzialità del rapporto tra la
fonte e il giornalista non fosse garantita le fonti si esaurirebbero e
con esse la stessa possibilità della stampa di svolgere il suo ruolo.
Questa è la giurisprudenza costante a partire da una fondamentale
sentenza del 1996 (Goodwin c. Regno Unito), ove la Corte ha affermato
che il segreto delle fonti può essere forzato dalle autorità pubbliche
solo in presenza di un’esigenza preponderante di interesse pubblico.
Come sempre nella giurisprudenza della Corte europea, la questione
fondamentale è quella della proporzione, in concreto, nel bilanciamento
tra l’esercizio di un diritto e le limitazioni possibili. Della
proporzione dovrebbero occuparsi anche i magistrati italiani quando
applicano la norma del codice di procedura penale (art. 200) che in
certi casi consente loro di obbligare i giornalisti a comunicare le
fonti. La Convenzione europea dei diritti umani, come si sa, è
vincolante.
Quando questi interventi sono legittimi?
La
Corte europea ha quasi sempre ritenuto sproporzionati perquisizioni e
sequestri di materiali (specie informatici) dei giornalisti. Ma ha
ritenuto giustificato l’agire delle autorità in un caso in cui la fonte
era manifestamente un appartenente a organizzazioni terroristiche e in
un altro in cui l’identificazione della fonte era indispensabile per
smantellare una rete di pedofili.
Lillo, non indagato, viene perquisito per scoprire i responsabili di una violazione del segreto d’ufficio. Si può fare?
Il
segreto delle fonti non è un privilegio del giornalista, ma un suo
dovere professionale. Esso riguarda le fonti lecite come quelle
illecite, che violano loro doveri di riserbo. Per esempio, in un caso
del 2003 (Ernst c. Belgio), in cui alcuni magistrati erano sospettati di
violazione del segreto istruttorio, la perquisizione e i sequestri nei
confronti di giornali e giornalisti che avevano pubblicato le notizie
sono stati ritenuti sproporzionati e la Corte europea ha ritenuto
violata la libertà di espressione. Naturalmente il giudizio sulla
necessità e sulla proporzione dell’interferenza statale nella libertà di
informazione dipende dai particolari del caso concreto, ma
perquisizioni e sequestri nei confronti di giornali e giornalisti non
sarebbero giustificati per il solo fatto che essi hanno pubblicato
notizie ancora segrete. Operazioni come quella del caso belga, simili
per certi versi a quelle disposte dalla Procura di Napoli, sono
estremamente pericolose sul piano generale. La Corte europea e tutti gli
organismi europei che si occupano di democrazia e libertà di stampa si
preoccupano del cosiddetto chilling effect, l’effetto di inibizione che
si genera su tutta la professione giornalistica e sulle fonti da cui
essa raccoglie le notizie. La questione non riguarda quindi questo o
quel giornalista, questo o quel giornale, ma la libertà di stampa nel
suo complesso.
Numerose sentenze della Cassazione hanno annullato
perquisizioni e sequestri a giornalisti, dal nostro Antonio Massari a
Fiorenza Sarzanini e a Sergio Rizzo. Ma è una vittoria morale. Il danno
resta gravissimo. Anche per Lillo non c’è rimedio neppure a Strasburgo?
Il
danno è compiuto. Le autorità ora conoscono tutta la rete di rapporti
del giornalista, anche se nel procedimento penale utilizzeranno solo
quello che è utile in quel procedimento. La sicurezza delle (future)
fonti risulta non più garantita. Il danno è quindi generale, non
riguarda solo il caso specifico. Il giornalista e il giornale possono
ottenere un indennizzo, ma non l’eliminazione del danno. Se non lo
ottengono in sede nazionale possono ricorrere alla Corte europea dei
diritti umani.
E la Corte cosa può fare?
La Corte, se
dichiara che c’è stata violazione dell’art. 10 della Convenzione
(libertà di espressione) può ordinare un indennizzo economico, ma
potrebbe anche indicare al governo che l’articolo 200 Cpp non è adeguato
rispetto alle esigenze della Convenzione perché non specifica in quali
circostanze il giudice può obbligare il giornalista e non contiene il
criterio della proporzione rispetto all’esigenza che spinge a forzare il
segreto delle fonti. L’Italia dovrebbe così modificare la legge e prima
ancora i magistrati dovrebbero far uso della facoltà riconosciuta
dall’art. 200 Cpp con grande cautela e solo quando la necessità di
conoscere la fonte sia legata a gravi esigenze – come nei due esempi che
ho fatto: fonte terrorista o fonte utile a smantellare rete pedofili – e
non sia possibile altrimenti soddisfarla. Ma la Procura di Napoli è
andata oltre, con un’operazione che mi pare molto grave.