Il Fatto 15.7.17
“Avanti”, ma anche vade retro sinistra
di Gianfranco Pasquino
Di
tanto in tanto, gli estimatori di Matteo Renzi discettano sul modello
di partito che l’ex-segretario ritornato segretario sull’ondina di un
consenso più ristretto starebbe costruendo. Per un po’ di tempo, questi
estimatori, quando i numeri sembravano promettenti, si erano
appassionati all’idea del Partito della Nazione. Suonava, il termine,
molto potente. Era quasi un programma, non è mai stato chiarito di cosa,
forse di un’ipertrofica aggregazione al centro, con tutti gli altri
contro “la nazione”. Poi, di tanto in tanto, ma senza troppa
convinzione, il Partito di Renzi avrebbe rappresentato il nuovo Ulivo,
ma, in tutta sincerità né le premesse né le azioni di Renzi
giustificavano una qualsiasi costruzione di un qualsiasi Ulivo che
avesse qualche riferimento al vecchio.
L’assenza più evidente
nella discussione, peraltro mai centrale, del nuovo partito (sì,
dell’ultimo partito ancora esistente in Italia), era relativa proprio
alla motivazione con la quale i Ds e i Popolari della Margherita avevano
troppo rapidamente proceduto a quella che fu criticata come “fusione
fredda” e che ebbe come esito il Partito Democratico. Che dovesse
contenere il meglio delle culture riformiste del paese fu detto troppe
volte, ma, al di là del non coinvolgimento dei socialisti che, in fondo,
non poca cultura riformista avevano formulato, avuto e espresso, le
altre culture politiche erano già declinate, se non esauste al momento
della fusione. Per questa assenza di fondo di qualsiasi cultura politica
divenne fin troppo facile flirtare con definizioni di partiti
immaginari, mai sostenuti da idee, quindi sempre mobili quanto serviva,
per esempio, ad attrarre il riformista Verdini, sul continuum
destra/sinistra.
La prima segreteria di Renzi non diede alcuno
spazio a riflessioni di cultura politica. La grande occasione delle
riforme costituzionali non fu neppure presa in considerazione per andare
ad una esplicitazione della cultura, non solo costituzionale, che le
sottintendeva, ma per aggiungervi anche quei principi e quei valori che
esprimono e danno corpo ad una cultura più specificamente politica.
Respinta la richiesta delle minoranze per una conferenza programmatica
che precedesse le votazioni per il segretario tenutesi alla fine
d’aprile 2017, il discorso sembra definitivamente chiuso.
Il
Partito Democratico è un partito vote and office-seeking, che cerca voti
e cariche. Punto e basta. Qualche volta, però, un libro potrebbe essere
il luogo dove riflettere sulla cultura di un partito, quello che si
guida e quello che si vorrebbe. Invece, no. Non lo fece Veltroni nella
sua cavalcata del 2007 (La nuova stagione. Contro tutti i
conservatorismi, Rizzoli 2007) che delineò non un partito nuovo, ma un
programma di governo, se non del tutto alternativo a quello del già
traballante Prodi, sicuramente competitivo. Non lo fa affatto il libro
di Renzi che il suo autore presenta come segue: “Questo libro non è solo
un diario personale, una riflessione sulla sinistra o il programma del
governo che verrà. Più di tutto, è la condivisione di idee, emozioni e
speranze che spesso si sono perse nel racconto della comunicazione
quotidiana. I risultati ottenuti e gli errori commessi. Il viaggio tra
passato e futuro di un’Italia che non si ferma. Che vuole andare
avanti”. Niente, dunque, che possa riguardare la cultura politica del Pd
di Renzi il quale si esprime semmai soltanto in critiche, talvolta
offensive, a tutti coloro che si muovono nella sinistra e dintorni.
Per
fortuna, ma certo non per virtù, i commentatori politici renziani,
politologi (che sarebbe un’aggravante), e no (che è molto più di
un’aggravante!), dalle Alpi alla Sicilia, l’hanno trovata loro la
cultura politica del partito renziano. Certo, bisogna aguzzare la vista,
cogliere anche gli indizi più labili, tuffarsi in un linguaggio che
proprio non facilita la scoperta di elementi culturali appena malamente
abbozzati. Soltanto ai, “diciamo”, meglio attrezzati apparirà allora che
Renzi sta costruendo un partito di “sinistra liberale”.
Gli
opposti essendo sicuramente due: un partito di destra liberale (che non
può certamente essere quello di Berlusconi in conflitto d’interessi
permanente) e un partito di sinistra illiberale (quello del passato, di
D’Alema e Bersani?, quello del futuro, nel campo di Pisapia?)
Naturalmente, il paese attende di essere istruito sia sul sostantivo
“sinistra”, secondo Renzi e non solo secondo Michele Salvati, che è il
non-politologo che auspica instancabilmente la vittoria definitiva di
Renzi, sia sull’aggettivo liberale per il quale, però, non ritengo che
sia Salvati lo studioso meglio in grado di illuminarci. Peccato che nel
libro di Renzi e nelle quarantasette anticipazioni non si trovi nulla né
relativo alla sinistra né relativo al liberalismo.