sabato 8 luglio 2017

Corriere 8.7.17
Franceschini e il duello sulle alleanze: Matteo, impara dalla Dc (e da Silvio)
Il ministro: siamo al governo con i centristi, quel campo c’è e ha guidato il Paese con noi
di Francesco Verderami

Sostiene Franceschini che Renzi dovrebbe imparare dalla Dc e persino da Berlusconi l’importanza delle alleanze, che non è argomento di Palazzo ma «una questione politica ineludibile» per governare. Dunque interessa al Paese.
Per questo motivo Franceschini sostiene che Renzi non potrà sfuggire alla questione, e che «a prescindere dal modello di legge elettorale che verrà adottato, il nodo andrà sciolto. Prima o dopo il voto». E non basta evocare la fallimentare esperienza dell’Unione per chiudere il discorso e chiudere la bocca a quanti lo sollevano, deridendoli come «residuati bellici». Semmai è sospetto il tentativo di accreditare la tesi che «un partito da solo possa vincere»: «Anche perché, se in un sistema multipolare è già difficile che una coalizione riesca a conquistare la maggioranza in Parlamento, figurarsi cosa potrebbe fare una singola forza politica».
Avere i numeri per governare il Paese è una questione della quale il Pd deve farsi carico, secondo il ministro della Cultura: «E allora serve certamente un programma, serve l’azione di un leader, serve l’organizzazione di un partito. Ma servono anche gli altri». Cioè gli alleati. C’è un motivo se Franceschini fa due esempi. Parte dal più recente, cita Berlusconi, l’acerrimo avversario di un ventennio, che «nei momenti in cui era vincente e aveva la massima presa carismatica sulla pubblica opinione, si curava di accogliere nella sua alleanza anche il Partito dei pensionati».
È vero, era la stagione del bipolarismo, l’epoca delle «scelte di campo», con il maggioritario che decretava la vittoria di una coalizione per un voto. Ma lo stesso metodo era già stato adottato ai tempi della Prima Repubblica e del proporzionale dalla Dc, che «fin dal 1948 volle avere al suo fianco i partiti laici. E in tutte le successive campagne elettorali non pensò mai di alzare la soglia di sbarramento della legge elettorale per sbarazzarsi di quelle forze. Semmai si fece carico delle loro esigenze, perché con loro puntava a governare nella legislatura successiva».
Il riferimento non è casuale, rimanda al modo in cui il segretario democratico ha gestito la recente trattativa sul modello «tedesco», e senza curarsi dell’alleato centrista ha posto la soglia di sbarramento al 5%. Quando Alfano ha avuto da ridire, Renzi gli ha risposto che «se dopo cinque anni al governo non riesci a prendere il 5% alle elezioni, non possiamo bloccare tutto». Dietro quella inusitata violenza verbale è affiorata per un istante una concezione della politica ridotta a mera logica clientelare, è stato riesumato l’andreottismo più deteriore, rivisitato in chiave moderna nell’idea di un bonus-un voto.
Sostiene Franceschini che il Pd dovrebbe avere un approccio diverso, parlare di alleanze partendo «dal campo del centrosinistra, oggi in evoluzione, e anche dal campo di quell’area che ha sostenuto» i gabinetti Letta, Renzi e Gentiloni: «Perché i governi in questa legislatura non sono stati solo del Pd, si sono retti sulle alleanze. All’inizio con le larghe intese e dopo la rottura di Berlusconi con i centristi. Quando andremo al voto non potremo raccontare agli italiani che quel campo non c’è più. Quel campo c’è e ha guidato il Paese insieme a noi».
È un modo per sottolineare che i dividendi dell’azione di governo, «un’azione positiva», non sono solo del Pd. È un modo per costruire i presupposti di una nuova collaborazione a Palazzo Chigi, come faceva appunto la Dc, che «in campagna elettorale non bastonava mai gli alleati. E infatti guidò l’Italia per cinquanta anni». Storia vecchia? Roba da «residuati bellici»? Franceschini sostiene che non è così. Le regole della politica non sono mutate. Valgono ancora, anche per i segretari di partito, anche per chi ha ottenuto due milioni di voti alle primarie: «Un segretario guida una comunità, tiene insieme tutti con pazienza, senza vedere dietro ogni pensiero diverso un tradimento o un complotto».
Peraltro le liste di proscrizione, le minacce sulle ricandidature, quel proposito fatto trapelare di portare in Parlamento solo i fedelissimi, non solo offre l’immagine di un partito sulla difensiva, ma potrebbe alla lunga non reggere. I fedelissimi infatti sono quelli che, se il capo avanza, seguono. Ma se il capo indietreggia, si dileguano. Non è questione di tradimento, altrimenti cosa dovrebbe pensare Renzi degli attuali gruppi parlamentari del Pd, giunti alle Camere con Bersani segretario? Certo che ci sono interessi personali, ma c’è anche una logica politica: è il progetto che unisce. E per quanto gli eletti possano essere a immagine e somiglianza del leader, in caso di difficoltà potrebbero cambiare verso. «La lealtà è cosa diversa dall’ubbidienza», sostiene Franceschini.