Corriere 13.7.17
Sul Pd avanza l’ombra di una nuova scissione
di Massimo Franco
Sul
Pd l’ombra di un nuova scissione. A settembre si capirà. Nella cerchia
renziana più stretta, la prospettiva è vista con irritata rassegnazione.
L
a metafora della «tenda» sta diventando pericolosamente virale. Da
quando Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo, ex premier ed ex presidente
della Commissione europea, ha raccontato di avere piantato una tenda
simbolica vicino al Pd, intorno al partito di Matteo Renzi è spuntato un
vero e proprio camping. Ma non si tratta di un accampamento costruito
da dirigenti in sintonia con la leadership renziana: semmai è il
contrario. Sono «tende» tirate su da chi si sente in una sorta di limbo,
con un piede fuori e uno dentro: spiazzato politicamente ma non ancora
sicuro di dovere andare altrove. Sono minoranze che per adesso aspettano
di capire se nel «giglio magico» prevarrà l’idea di una formazione
tagliata su misura sul leader, senza la possibilità di spazi per i
critici; o se il Pd sopravviverà. Ma si comincia a considerare
seriamente la possibilità di una nuova rottura: un po’ voluta, un po’
subìta.
Le trattative
Qualcuno sta già trattando per uscire;
altri sperano che alla fine prevalga un progetto più inclusivo. A
settembre si dovrebbe capire se sta per consumarsi la seconda scissione
in pochi mesi: alla vigilia di un voto regionale in Sicilia che si
presenta come una sfida proibitiva; e a pochi mesi da elezioni politiche
destinate a ridisegnare i rapporti di forza in Parlamento. «Vedo un
pericolo serio. È vero che per il momento lo strappo è stato rinviato.
Non è scongiurato, però», spiega uno dei dirigenti storici del Pd. «E la
mia sensazione è che Matteo lo stia sottovalutando. Non ha ancora
capito che, se ci fosse un’altra scissione, il partito non reggerebbe».
Non essere riuscito a ottenere le elezioni anticipate ha reso il vertice
più assertivo verso il governo di Paolo Gentiloni. Ha acuito la
sindrome del complotto contro il segretario; e acuito la voglia di
un’altra resa dei conti.
I tempi
Nella cerchia renziana più
stretta, la prospettiva della scissione è vista con una punta di
irritata rassegnazione; e in parte anche come una liberazione da
oppositori interni vissuti come una fastidiosa zavorra. Esponenti del
governo come il ministro Luca Lotti e la sottosegretaria a Palazzo
Chigi, Maria Elena Boschi, tendono a vedere l’uscita dal Pd del capo
della minoranza più consistente, il Guardasigilli Andrea Orlando, solo
come una questione di tempo: sembrano non chiedersi più «se» andrà via
ma solo «quando». E questo nonostante Orlando ripeta che cercherà fino
all’ultimo di rimanere e di scongiurare la seconda scissione; e che
terrà aperto da dentro il Pd un canale di dialogo con la formazione
nascente dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, perché comunque
bisognerà tornare a parlarsi.
Insomma, l’incognita è se almeno in
una parte del vertice si stia lavorando per provocare la rottura o per
evitarla. Nell’attesa, il «camping» democratico si allarga. Si fanno
strada il timore e il sospetto che il vertice punti a sostituire i
segretari non renziani nei congressi provinciali dopo l’estate: un
assaggio di quello che avverrebbe nelle liste per il Parlamento. La
guerra interna che si sta combattendo a livello locale, dall’Emilia
Romagna alla Calabria, viene considerata una controprova della resa dei
conti in incubazione. Forse si tratta di paure esagerate, sebbene le
reazioni alle critiche di personaggi della maggioranza come il ministro
Dario Franceschini siano state dure, perfino ruvide. La domanda è se sia
frutto degli spigoli caratteriali di Renzi, di una strategia che non
esclude un secondo trauma, o di entrambi.
Il progetto
In
questo caso la prospettiva, a sentire gli avversari, sarebbe di un
segretario tentato a fine estate di archiviare il Pd per lanciare in
modo esplicito il proprio partito. Una forza agile, fedele, magari
intorno al 15-20 per cento ma in grado di far valere il proprio peso
nelle trattative per il governo, in un Parlamento senza maggioranze:
sebbene a Bersaglio Mobile su La 7 Renzi abbia ribadito di volere il 40
per cento «per governare da soli»; e dal vertice si smentisca qualunque
ipotesi di scissione e si ricordi che a ottobre si celebrerà il
decennale della fondazione del Pd: un’occasione per ricucire, non per
lacerare. Il problema sarebbe solo di evitare «un congresso permanente» e
di rimettere in discussione una strategia e una leadership confermate
appena due mesi fa. Dunque, la situazione rimane in bilico: nulla è
scontato. Lo stesso Renzi forse intuisce che un partito destinato a
perdere altri pezzi viene punito: i sondaggi forniscono più di un
indizio.
I tre mandati
C’è chi gli ha fatto notare che,
ponendo il limite dei tre mandati parlamentari, rischia di accelerare le
dinamiche centrifughe. «Quando Mino Martinazzoli annunciò questa regola
per il Partito popolare negli Anni Novanta, in pochi giorni si ritrovò
la scissione del Ccd di Pier Ferdinando Casini», ricorda uno dei
protagonisti di allora. E evoca il terrore di centinaia di deputati e
senatori quasi certi di non essere ricandidati. Ma il tema è ancora più
di fondo. La convinzione è che se dovesse prevalere la spinta a
escludere le minoranze e dunque a facilitare un altro strappo, non
esisterebbe più il Pd. L’uscita di Orlando potrebbe portare con sé quasi
per inerzia quella di Franceschini e dell’altro ministro, Graziano
Delrio, finora leali alleati del segretario. Prodi pianterebbe la sua
«tenda» sempre più lontano dal Pd. L’incontro di ieri a Bologna con
Pisapia e Orlando può essere vista come una conferma.
La somma di
questi corpo a corpo non promette riconciliazioni, semmai strappi
progressivi. Ma l’esito prevedibile è che alla fine non ci sarebbero più
il partito, opposto agli scissionisti entrati nell’orbita della
nebulosa di Pisapia: ci sarebbe la metamorfosi renziana di ciò che resta
del Pd, e dall’altra parte un nuovo Ulivo. Il «camping» diventerebbe un
vero agglomerato con ambizioni e consistenza almeno pari a quelli del
partito d’origine. Ma Renzi, se vuole, è ancora in tempo per impedirlo.
Il problema è questo: se vuole.