Corriere 12.7.17
Non si giudica il passato da prigionieri del presente
di Ernesto Galli della Loggia
Come
è già accaduto per altri esponenti della Chiesa cattolica, anche dal
passato del neodesignato capo della Congregazione della Dottrina della
Fede, Luis Francisco Ladaria Ferrer, pare che possano emergere fatti
gravi. Molti anni fa, quando era vescovo, egli avrebbe (il condizionale è
assolutamente d’obbligo) «coperto» alcuni sacerdoti accusati di
pedofilia. Un caso non nuovo, dicevo, che qui mi interessa solo come un
esempio del modo in cui nella nostra società, che pure sta così
velocemente cancellando il passato, questo stesso passato sembra
prendersi una rivincita affermando la propria esistenza e facendo
irruzione nel presente .
Ma è una rivincita solo apparente.
Infatti anche in questo caso il presente si dimostra di gran lunga più
forte e capace di affermare il suo pieno dominio sul tempo. Lo fa
innanzi tutto in un modo quanto mai penetrante: cioè con l’applicare
disinvoltamente anche alle epoche e alle circostanze più lontane, quando
viene per qualunque ragione a contatto con esse, i propri criteri di
giudizio, la propria morale — criteri e morale naturalmente attuali,
tutti improntati alla sensibilità di oggi. Perlopiù, insomma, il
predominio asso-luto del presente, il «presenti-smo», prende la forma
speci-fica di un’indiscriminata at-tualizzazione etica. La quale però, a
ben vedere, non è che uno dei tanti aspetti di un fenomeno più
generale: e cioè l’ostracismo ormai decretato dalla nostra cultura nei
confronti della storia (a proposito del quale si può leggere un
interessante libro di Francesco Germinario, appena uscito: Un mondo
senza storia? , Asterios). Ostracismo verso la storia che nasce da due
fratture avvenute negli ultimi decenni: da un lato le novità del
progresso scientifico-tecnico responsabili di averci cambiato la vita, e
dall’altro la fine delle grandi narrazioni ideologiche
otto-novecentesche la quale sta cambiando il nostro modo di pensare.
Tutto
ormai è presente: e così giudichiamo il passato con il nostro metro
attuale. Negando quindi implicitamente che come mille altre cose anche
il giudizio morale — specie quello collettivo, quello riferibile alla
società nel suo complesso — risenta inevitabilmente dei tempi. Che
anch’esso sia frutto della storia e possa mutare con essa. Viceversa,
messi di fronte a grandi fenomeni storici i più vari come la schiavitù,
la guerra, l’entusiasmo religioso, lo spirito di conquista, il
colonialismo, la differenza sociale e giuridica tra i sessi, siamo
indotti a emettere su due piedi facili giudizi di condanna. Nel generale
addio alla storia che si sta consumando in tutto l’Occidente, il
passato diviene così il più ovvio e facile (tanto non si urta la
sensibilità, e dunque la reazione, di nessuno) ambito di applicazione
del «politicamente corretto». Con l’accluso obbligo di fare ammenda e di
chiedere perdono per chi di quei fenomeni può essere più o meno
sensatamente e più o memo direttamente ritenuto oggi responsabile.
Ho
parlato di «politicamente corretto» perché del passato, di quanto ogni
volta è allora davvero accaduto — cioè del contesto effettivo in cui le
cose si svolsero, e pertanto delle logiche, dei valori e delle mentalità
allora operanti, dei vincoli e dei condizionamenti allora presenti —
sembra che non si possa, e soprattutto non sia lecito, darsi alcun
pensiero. Ciò che importa, invece, sembra essere solo affermare un
principio generale circa ciò che è bene e ciò che è male. Naturalmente,
secondo il punto di vista delle maggioranze politico-culturali che
dominano il discorso pubblico in Occidente: punto di vista che,
intendiamoci, può essere giusto e accettabilissimo — chi mai per esempio
approverebbe oggi la schiavitù o la subordinazione della moglie al
marito? — ma che, trasposto nel passato, acquista un carattere di
assolutezza che fa capire poco o nulla, comporta una rigidità
prescrittiva che rischia di non rendere giustizia alle persone.
So
bene che se si applica quanto vengo dicendo a certi argomenti il
discorso si fa pericoloso, rischiando di apparire in qualche modo
giustificatorio: ma può essere questo un buon motivo, mi domando, per
rinunciare a porre a tutti noi un problema di verità e di equità? Chi
come chi scrive ha una certa età ricorda bene un tempo e una società in
cui comportamenti che oggi non esitiamo a qualificare come pedofilia
(perché senz’altro lo sono), e che quindi suscitano la nostra sacrosanta
indignazione con relativa richiesta di sanzioni adeguate, non
producevano invece la stessa riprovazione e lo stesso allarme che
producono oggi. Ad esempio, è molto probabile che oggi le notti romane
di Pier Paolo Pasolini non sarebbero circondate dalla sostanziale
noncuranza di quarant’anni fa. Sicché se egli fosse vivo è possibile che
retrospettivamente più d’uno troverebbe in proposito qualcosa o molto
da ridire. Così come oggi troveremmo certamente molto da ridire sul
passato del responsabile dell’ex Sant’Uffizio se le voci che lo
riguardano venissero confermate; e in ogni caso giustamente esigiamo che
in questo come in tutti gli altri casi analoghi sia fatta fino in fondo
la necessaria chiarezza e quindi la necessaria giustizia.
Il che
non può impedirci però di continuare ad agitare nel nostro animo il
pensiero della fragilità di ogni facile giudizio davanti alla dura
macina del tempo, e di condividere sempre anche noi laici l’antico
ammaestramento alla pietà.