domenica 1 settembre 2013

il Fatto 1.9.13
400 mila dicono: la Carta non è loro
di Antonio Padellaro


Accompagnato dalle firme di Francesco Rosi e di Paolo Sorrentino, l’appello del Fatto per salvare la Costituzione sfiora quota 400 mila: un risultato che nessuno poteva immaginare quando poco più di un mese fa ci ribellammo all’idea che la Carta fondamentale della democrazia repubblicana potesse essere cambiata e forse anche stravolta nelle segrete stanze da comitati di presunti “saggi”. Straordinario il numero e straordinario lo slancio di tanti scrittori, giornalisti, donne e uomini del mondo della ricerca, della cultura e dello spettacolo che hanno fatto sentire la loro voce di cittadini come centinaia di migliaia di altri cittadini. Comprendere cosa c’è dentro questo mare di adesioni potrebbe aiutare la politica e le istituzioni a ritrovare un contatto con quel Paese che dicono di rappresentare. Poiché dubitiamo che ne avranno voglia, cerchiamo di aiutarli.
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“Chi sono i mandanti di queste malvagità? ”, si domandava pochi giorni fa su queste pagine Adriano Celentano, denunciando lo scandalo delle navi-mostro che sfregiano Venezia. Basta guardarli, Adriano. Perlopiù politicanti di mezza tacca con la loro corte di burocrati in carriera pronti a timbrare qualsiasi nefandezza. Piccoli uomini spesso incolti a cui sono stati affidati immensi patrimoni dell’umanità. La domanda è questa: perché mai la sublime eredità che ci è stata consegnata dalla storia, di chi ha costruito città meravigliose, realizzato i più fantastici capolavori, innalzato cupole e torri come inni alla bellezza e all’armonia, perché mai di tale incommensurabile tesoro devono oggi occuparsi mani rapaci e teste mediocri? Con quale diritto, per tornare agli scempi veneziani, si possono autorizzare bestioni da 130 mila tonnellate alti venti piani a violentare il Canal Grande? Con il diritto della legge, prontamente rispondono le mezze tacche, esibendo permessi e nulla osta opportunamente vistati da altre mezze tacche di una tacca sopra. E il Ponte Vecchio affittato per una festicciola elegante? E l’incuria che risommerge Pompei? E il parco dell’Appia Antica butterato dagli abusi di lusso? E le coste calabresi cancellate dal cemento e ridotte a disastro dell’umanità? Se fossimo una nazione vera, da quel dì avremmo dovuto circondare con i forconi i palazzi dove si concepiscono tali lordure gridando: maledetti, avete distrutto ciò che non era vostro. Ma il sonno della ragione sembra prevalere e la nazione si perde nei cavilli per salvare Berlusconi. Non tutti per fortuna.
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Un discorso analogo, se ci pensiamo, può essere fatto riguardo alla Costituzione della Repubblica. Essa di chi è? Prima di tutto di chi l’ha realizzata, proprio come fosse un grande monumento o un capolavoro dell’arte (non è stata forse definita “la più bella del mondo”?). I Costituenti l’hanno affidata al popolo italiano poiché a esso appartiene “la sovranità” che esercita “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (articolo 1). Dunque, la Costituzione non è certo dei “saggi”. E neppure del Parlamento che può modificarla solo dopo una procedura complessa per poi sottoporla a un successivo referendum nel caso le modifiche non abbiano avuto il sì dei due terzi delle Camere. E allora perché “saggi” e Parlamento mettono le mani su qualcosa che non gli appartiene cambiando l’articolo 138 in una scorciatoia (proprio quello studiato per evitare i colpi di mano) senza averne prima parlato con il popolo? Penso che grandi registi come Rosi e Sorrentino, e gli altri 400 mila cittadini come loro, abbiano firmato l’appello del Fatto, preparato da personalità del diritto e della società civile (da Lucarelli a Ingroia a don Ciotti solo per citarne alcuni), solo perché vogliono essere sicuri che la Legge Fondamentale dei loro diritti e doveri non venga stravolta con qualche sotterfugio. E penso che non siano contrari a prendere in considerazione qualche necessaria modifica (per esempio la riduzione del numero dei parlamentari) purché tutto avvenga alla luce del sole e con una qualche forma di consultazione preventiva dei cittadini. Per tutti questi motivi, sabato prossimo, 7 settembre, alla Festa del Fatto Quotidiano nel Parco La Versiliana di Marina di Pietrasanta verrà annunciato che le firme raccolte saranno consegnate al Presidente della Repubblica e ai Presidenti delle Camere perché ne facciano l’uso migliore. Quattrocentomila italiani vigileranno, soprattutto adesso che con il Caimano disperato tutti i colpi di mano sono possibili. Se poi riusciremo a essere 500 mila (si firma sul sito www. il  fattoquotidiano.it  ), come chi scrive un mese fa aveva incautamente (ma non troppo) sperato, tanto meglio. Forza.

l’Unità 1.9.13
Susanna Camusso
Priorità chiare, investimenti importanti per l’occupazione meno tasse su stipendi
e pensioni: risposte non date
«Se tardano ancora dice la leader Cgil passeremo al pressing»
«Ora il governo deve correggere il tiro: per noi la vera prova è sul lavoro»
intervista di Andrea Bonzi


«In autunno il governo dovrà dare risposte sull’occupazione e sul lavoro, con priorità chiare e investimenti importanti, che solo una regia pubblica può garantire. Se questo non avverrà, dovremo esercitare pressioni e lo faremo in tutti i modi che ci sono consentiti». Meno di un mese fa, Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, aveva chiesto all’esecutivo Letta un cambio di segno, una svolta che «deve arrivare» nella legge di Stabilità 2014, la cui presentazione è prevista per metà ottobre.
Segretario, nell’ultimo decreto le due rate Imu sono state messe da parte: un’abolizione sofferta, e si è ancora alla caccia delle coperture necessarie. Che ne pensa? «È giusto che chi ha una sola casa, non di lusso, possa essere esentato dal pagamento dell’Imu, l’abbiamo sempre sostenuto. Non a caso, abbiamo sempre detto che chi possiede solo una prima casa non deve pagare. Non è la stessa cosa se uno ha un appartamento che si è costruito negli anni o possiede un grande patrimonio immobiliare. In una stagione in cui le risorse scarseggiano, si è dato un segnale che non è di vera equità. Si è messo sullo stesso piano chi nella crisi soffre di più, a cui è giusto abbassare le imposte, ma anche a chi sarebbe utile contribuisse. Così facendo si rafforza l’idea che la tassazione del patrimonio sia sempre un problema nel nostro Paese, mentre in tutti gli altri è normale. Piuttosto, sarebbe stato meglio usare le risorse disponibili per sostenere i redditi di pensionati e lavoratori».
Nel decreto ci sono 500 milioni per la cassa integrazione e una posta di bilancio per altri 6.500 esodati. Come giudica questo sforzo su temi sui quali aveva richiesto molta attenzione?
«Letta ha detto che si tratta di un primo intervento, non l’unico. Di certo, così non basta. Credo sia giusto sottolineare che, rispetto ai decreti precedenti del governo Monti, per risolvere il problema questa volta si riparte dal diritto in capo alle persone e non da numeri teorici: non è cosa da poco. Tuttavia, non può passare troppo tempo prima che si risolva definitivamente il problema. Siamo già oltre il consentito, non si può giocare con i destini delle persone. Ragionamento analogo anche per cassa integrazione e mobilità in deroga e per i contratti di solidarietà: se servono due settimane per rifare il punto con le Regioni, va bene, ma non si può andare oltre. Bisogna accelerare, perché aspettare a lungo significa accentuare i problemi economici di chi già è in difficoltà».
La ripresa potrebbe affacciarsi nel 2014. Lei ci crede?
«Se uno usa i criteri dell’analisi dell’andamento degli spread e della finanza, molti possono dire che va meglio di un anno fa. Tuttavia si pensa che la ripresa non avrà effetto sull’occupazione. Anzi, vedo che ci sono segnali di peggioramento della condizione sociale e mi aspetto che il governo non si accontenti dei timidi segnali finanziari, ma che voglia tutelare la parte del Paese che maggiormente paga le conseguenze della crisi. Per dare una prospettiva servono investimenti sull’occupazione. Se ne è parlato troppo poco, perché il dibattito è prigioniero di una strisciante, e dannosa, campagna elettorale».
La legge di stabilità può essere il luogo dove questi provvedimenti vedranno la luce?
«Deve esserlo, è l’ultima occasione. Per far ripartire l’occupazione ci vuole un governo dell'economia, se così non fosse saremmo di nuovo alla mercé dei giochi della finanza speculativa».
Quali provvedimenti darebbero il segno della svolta che invocate?
«Viste le poche risorse a disposizione, serve una serissima selezione degli interventi. Innanzitutto, dare soldi ai lavoratori e ai pensionati, con un’operazione di riduzione della tassazione sugli stipendi e sulle pensioni. I redditi devono crescere. Alle imprese si può togliere la componente del lavoro dall’Irap, che in alcuni casi è una tassa sull’occupazione. Il secondo capitolo è quello delle politiche industriali: vorrei immaginare che si scegliessero poche priorità, mettendo fine agli investimenti a pioggia che magari accontentano alcuni ma non determinano il cambio di passo necessario. Con le risorse restanti bisogna superare il Patto di stabilità dei Comuni, attuare interventi per le imprese, come la riduzione dei costi dell’energia, per stimolare gli investimenti. Poi si potrebbero mettere attorno a un tavolo le imprese pubbliche, in modo che una regia centrale indirizzi scelte ed investimenti». Posto fisso, addio. I lavoratori con contratto stabile sono sempre di meno, il 53,6% del totale. Quali strumenti contro la precarietà?
«Questi dati sono il segno di un indebolimento della qualità della produzione e dei servizi e la responsabilità principale di questa situazione è da rintracciare nella frammentazione della normativa sul mercato del lavoro. Anche per questo abbiamo detto che l’Expo di Milano non poteva diventare un modello per estendere queste forme di lavoro. Probabilmente c’è anche una responsabilità del sindacato che ha sottovalutato la crescita del fenomeno, e forse non ha dedicato il massimo degli sforzi a una contrattazione inclusiva per questi soggetti». Precarietà e disoccupazione in aumento, fragilità del governo costantemente minacciato, segnali economici contrastanti. Che autunno si aspetta per l’Italia? «Avverto un senso di smarrimento e preoccupazione delle persone, e spesso la sensazione di essere ignorate dal dibattito politico. Questo è foriero di scenari non positivi. Per scongiurarli il governo deve trovare nella Legge di Stabilità soluzioni per l'occupazione, per la crescita e per sostenere i redditi. In caso contrario dovremo esercitare, in tutti i modi e le forme di cui disponiamo, le necessarie pressioni affinché questo accada».

l’Unità 1.9.13
Data e regole del congresso braccio di ferro nel Pd
Bonafè: «Renzi non ha chiesto nulla di strano, dopo quattro anni assise non rinviabili»
Fassina: «Rottamare le correnti? Matteo ha ragione, ma può cominciare dalla sua»
di Maria Zegarelli


Da Forlì, i democratici lo hanno incitato a «mandarli tutti a casa», lui ha promesso che se diventa segretario intanto rottama le correnti, poi gira il Pd come un calzino e alla fine lo porta a vincere finalmente le elezioni. Ma ci vuole un congresso per fare tutto ciò. Ecco cosa chiede il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Che si faccia un congresso a novembre, come prevede lo statuto. «Sono molto d’accordo. Spero che intenda eliminare non solo le altre correnti, ma anche la corrente di cui lui è a capo, che è una delle più strutturate», risponde dalla Versiliana in tono provocatorio il viceministro Stefano Fassina. Guglielmo Epifani, chiamato direttamente in causa dal sindaco proprio sui tempi del congresso, non scende in polemica ma non ha gradito quell’attacco frontale. «Il 20 settembre sarà l’Assemblea nazionale a tracciare il percorso», ripetono dal Nareno.
«Matteo non ha chiesto nulla di strano – ribadisce la deputata Simona Bonafè – ha semplicemente ribadito la necessità che si fissi una data e si apra il congresso. Dopo quattro anni e in questo momento storico il congresso non può essere un fatto episodico. È un passaggio fondamentale durante il quale si definisce il partito e la proposta politica che vogliamo per l’Italia dei prossimi anni».
Il timore di Renzi e dei renziani è che i tempi e le date scivolino sempre più in là, sempre più verso il 2014 per volere di quella parte dei democratici che teme che con Renzi al Nazareno cambi inevitabilmente anche il destino di un governo che è già più che fragile di suo, sotto ricatto costante del Pdl e di Silvio Berlusconi. Anche perché la sua decisione il sindaco l’ha presa: se la situazione politica non precipita e il governo resta in piedi, la sua candidatura alla segreteria è scontata, a questo sta lavorando la sua macchina organizzativa e stavolta sa che la vittoria è lì, a un passo. Serve soltanto capire quando si va alle primarie, perché ormai la lista di amministratori locali che si sono schierati con lui è lunghissima, ma, cosa ancora più importante, è la base del partito, i militanti, gli iscritti e i simpatizzanti, ad aver puntato su di lui.
Se invece dopo il 9 settembre dovesse cambiare lo scenario, se davvero vincessero i falchi del Pdl, se non si riuscisse a trovare quella nuova maggioranza parlamentare che allontanerebbe le urne dando vita a un Letta-bis, allora la corsa sarebbe verso Palazzo Chigi. «Ma a noi sembra chiaro che il Cavaliere non ha alcun interesse ad andare al voto, malgrado le minacce che lancia a giorni alterni», confessa un senatore renziano. Ecco perché, alla luce di tutte queste considerazioni, Renzi è tornato sui tempi e sulle regole del congresso.
Epifani da Genova ha ribadito che no, non ci sarà nessuno slittamento: «Faremo le cose per bene». Ma stavolta partendo dal basso, dai congressi territoriali, provinciali e regionali per arrivare poi a quello nazionale. Nico Stumpo, che fa parte del comitato che deciderà le nuove regole e la modifica dello Statuto, dice: «Per me non è cambiato nulla, non capisco questo allarme perché è stato stabilito che sarà l’Assemblea del 20 settembre a ratificare le modifiche, se ci saranno, che dovranno poi essere deliberate dall’Assemblea nazionale».
Anche Davide Zoggia, responsabile Organizzazione del partito, getta ac-
qua sul fuoco e spiega che non c’è nessun giochetto in atto, ma solo gente «che lavora dalla mattina alla sera per far sì che le cose si facciano al meglio». Eppure sembra davvero difficile che il congresso si celebri entro il 24 novembre. Se lo statuto restasse com’è i tempi sono così lunghi che di sicuro non si arriverebbe a primarie prima di gennaio 2014, tra congressi provinciali e regionali, con i tempi richiesti per la relativa raccolta delle firme per le candidature, la convocazione della Convenzione nazionale, la campagna elettorale e l’apertura dei gazebo.
Ma spetta al Comitato per le regole decidere se e come modificare lo statuto. Finora si è raggiunto una sorta di accordo generale, anche se restano aperte alcune questioni sui tempi e su chi voterà ai congressi regionali (se soltanto gli iscritti o una platea più ampia). Sul ruolo che dovrà svolgere il segretario, invece, la formula su cui si dovrebbe chiudere è che non c’è automatismo tra leadership e premiership.

l’Unità 1.9.13
Sonia Alfano: «15 senatori M5S pronti a un’altra maggioranza»
L’eurodeputata: «Ci sono i numeri
per un nuovo gruppo Possibile un esecutivo di centrosinistra»
di A. C.


Da mesi Sonia Alfano, europarlamentare ex Idv, si pone come pontiere tra il centrosinistra e i grillini inquieti. Discute con loro, non solo i siciliani, ne ascolta gli sfoghi, talvolta suggerisce strategie.
In questi giorni di governo in bilico e di nuove forti tensioni dentro il M5S tra falchi e colombe, il radar della Alfano è di nuovo puntato sui dialoganti. «Il numero dei cosiddetti dissidenti sta crescendo. Comunque possiamo già parlare di un numero utile», ha detto ieri intervistata da Klaus Davi. «Un numero utile per la fiducia c’è, c’era già prima. Siamo a ben oltre 10, direi 15». Alla domanda dell’intervistatore, «Sono pronti a votare per un Letta bis?», l’eurodeputata ha risposto: «Più che per un governo Letta bis, parlerei di senatori disposti a discutere alcuni punti imprescindibili sulla base dei quali costruire una intesa col Pd. Un gruppo autonomo al Senato potrebbe già contare su 20 componenti. Questi 20 da sempre si incontrano con componenti del Pd».
In queste ore a palazzo Madama è tornato di moda il pallottoliere. Secondo alcuni calcoli, dopo la nomina dei nuovi 4 senatori a vita (e calcolando un loro voto favorevole a un nuovo governo), basterebbero solo 7 grillini per arrivare alla soglia di 161 senatori necessaria per far proseguire la legislatura in caso di crisi. Già, perché i grillini già fuoriusciti sono 4: Marino Mastrangeli, Adele Gambaro, Fabiola Anitori e Paola De Pin. Quello della Gambaro, espulsa a giugno per aver criticato Grillo in una intervista per il flop alle amministrative, è un caso ancora aperto nella truppa grillina. «Una ferita ancora aperta», ha spiegato a l’Unità Lorenzo Battista. Dopo la sua espulsione una decina di senatori sembrava pronta alla scissione, e così altrettanti deputati. Anche Paola Pinna sembrava vicina alla cacciata, poi Il capo aveva iniziato ad ammorbidire i toni, a telefonare ai dissidenti uno per uno, e la battaglia di luglio con l’ostruzionismo contro la riforma dell’articolo 138 della Costituzione sembrava aver ricompattato la truppa.
La condanna di Berlusconi e i nuovi venti di crisi, nelle ultime settimane, hanno riaperto lo scontro tra le due fazioni. Che ormai si muovono e litigano su Facebook come due partiti in uno, come bossiani e maroniani nei mesi durissimi della crisi leghista. Venerdì la pretoriana Laura Bottici è arrivata a mandare «affanc...» i dialoganti. E le reazioni non si sono fatte attendere.
«Mi auguro che questa scissione non avvenga. Sarebbe un vero peccato», dice la Alfano. «I dissenzienti sono molti, ma sono in difficoltà perché dal Pd non arrivano i segnali che si aspetterebbero. Non vedono la mano tesa verso obiettivi di condivisione. Ma, sia chiaro, non vorrebbero uscire. Si tratta di senatori e deputati anche spinti dalle pressioni della base grillina costituita anche da artigiani, imprenditori, gente comune che sta male e che non capisce il senso di questo fondamentalismo e ne chiede conto». «Parliamo pur sempre di una base elettorale del 25% dei voti. Quindi non solo un voto di protesta. Aggiungo che almeno il 20% di senatori e deputati non si ricandiderà più, visto il clima», conclude l’eurodeputata.
Il tema delle ricandidature non è di poco conto. Grillo vuole tornare alle urne col Porcellum soprattutto per avere pieno controllo sulla nuova truppa parlamentare. Ed è certo che tutti quelli che in questi mesi hanno lanciato distinguo su giornali e tv non saranno riconfermati. Un motivo in più per esplorare strade alternative in questa legislatura, prima di precipitare al voto. L’ipotesi di una nuova maggioranza viene monitorata con grande attenzione nel quartier generale grillino. Spiega l’ideologo Paolo Becchi sul blog di Grillo: «I 4 senatori appena nominati saranno, probabilmente, decisivi nel caso in cui il governo Letta dovesse entrare in crisi. Essi, infatti, potrebbero garantire quella manciata di voti necessaria ad un possibile Letta-bis, nel caso in cui Berlusconi dovesse cercare la crisi di governo e le elezioni anticipate». Una prospettiva decisamente osteggiata. Segue il solito attacco a Napolitano, definito «il monarca». «È lui il vero capo del governo di larghe intese, di cui Letta è solo formalmente il premier. Il Capo dello Stato non vuole le elezioni e per questo ha appoggiato la soluzione Violante (rinvio alla Consulta) per salvare Berlusconi. Sta pensando tutti i modi per salvare il suo governo».
Domani i parlamentari a 5 stelle si ritroveranno in assemblea dopo la pausa estiva. E quella sarà la prima occasione per affrontare faccia a faccia i nodi che li hanno divisi in queste settimane d’agosto. Mario Giarrusso, intanto, senatore siciliano, ironizza sulle affermazioni della Alfano: «Purtroppo non è nuova a queste improvvide ed inverosimili dichiarazioni, che non sono altro che il frutto di una tardiva insolazione».

l’Unità 1.9.13
Francesco Campanella
«L’ipotesi di un Letta-bis non mi convince: non mi piace l’attuale, non voterei un suo replay. Ragioniamo piuttosto di un esecutivo di cambiamento»
«Un nuovo governo Pd-Cinquestelle? Se ne può discutere»
intervista di Andrea Carugati


Il ragionamento parte dalla legge elettorale. «Il Porcellum è dannoso, lo si è visto ampiamente, e per questo va cambiato prima di tornare al voto». A spiegarlo è Francesco Campanella, senatore siciliano del Movimento 5 Stelle, appartenente all’ala dei cosiddetti dialoganti, in questi giorni sottoposti a un continuo “mobbing”da parte dei colleghi più ortodossi rispetto alla linea decisa da Beppe Grillo.
Sonia Alfano sostiene che una quindicina di voi sia pronta a dar vita a un nuovo governo...
«Se il tema è un Letta-bis supportato da un po’ di senatori sparsi io non sono per niente convinto. A me non piace come si muove questo governo, e dunque non ne vorrei un replay».
E tuttavia per cambiare la legge elettorale potrebbe servire un nuovo governo.
«Il Movimento 5 Stelle, pur con sfumature diverse, non si è mai detto contrario a un proprio impegno di governo con alcune caratteristiche precise di cambiamento. Ma questo nostra idea non ha mai trovato orecchie particolarmente attente nel centrosinistra».
In pochi si sono accorti di questa vostra disponibilità...
«L’errore più grave che ci può essere addebitato è di non avere mai voluto fare dei nomi per Palazzo Chigi».
Il suo movimento nelle ultime settimane parla di un incarico affidato a voi dopo il fallimento di Pd e Pdl. «Pensiamo a una personalità di assoluto spessore, una sorta di Mario Monti senza banche e senza lobby...».
Fatto sta che tra di voi stanno volando stracci. Vi accusano di voler trattare col Pd e Laura Bottici addirittura vi manda “affanc...”».
«Ho letto le parole della Bottici e non mi sono per niente piaciute. Quando lo incontrerò le chiederò che senso ha un approccio del genere ai problemi».
State tornando al clima delle espulsioni di giugno?
«Direi di no. Una esperienza come l’espulsione di Adele Gambaro non si può ripetere. Una volta è un vulnus, proseguire in quella direzione porterebbe grave danno a tutto il movimento».
In quei giorni si era molto parlato di una scissione che poi è rientrata. Perché?
«In molti abbiamo ritenuto che un evento traumatico come una scissione avrebbe rischiato di indebolire gli obiettivi comuni di cambiamento. La considero una extrema ratio».
E se nelle prossime settimane ci fossero nuove espulsioni?
«È come pensare a un terremoto. Non voglio neppure ipotizzare che possa succedere una cosa simile». Ma secondo lei, nel caso in cui Silvio Berlusconi dovesse provocare una crisi di governo, che cosa dovrebbero fare i gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle?
«Fare attenzione a quello che succede, confrontarsi con Beppe Grillo ma anche con i nostri iscritti. Forse i colleghi come Laura Bottici non hanno capito che nessuno di noi sarebbe entusiasta di un governo col Partito democratico, che nei comportamenti concreti non è molto diverso dal Pdl. La distanza tra noi riguarda il giudizio a priori: c’è chi ritiene che tutti gli altri partiti vadano condannati e basta e chi invece continua a volere osservare quello che fanno concretamente».
Grillo vuole le urne subito, con il Porcellum...
«Nessuno può illudersi che Giorgio Napolitano sciolga le Camere perché lo chiede il Movimento 5 Stelle. Anch’io non sono ottimista sulle possibilità di ottenere una buona legge elettorale, ma vorrei almeno provare a farlo. Ascoltare come evolve la discussione tra i partiti prima di dire che vogliono prenderci in giro o che è tutto uno schifo».
Prudenza contro oltranzismo?
«In una situazione come questa la prudenza è d’obbligo».
C’è chi indica voi dialoganti come possibile stampella di un nuovo governo. «Voterei un governo solo se in discontinuità con quello attuale. Nel M5S la dialettica c’è ed è dura, non discutiamo davanti a una tazza di tè. E tuttavia tra manifestare opinioni non omogenee ed essere pronti a sostenere un Letta bis passa una bella differenza». Lei ritiene probabile una crisi di governo?
«Faccio questo ragionamento proprio perché penso che questo esecutivo sia già in agonia. Ma non mi piace l’idea di fare la stampella, o di appoggiare un governo purchessia. Penso a Fausto Bertinotti, che sostenne i due governi Prodi in cambio di qualche contentino e ancora si lecca le ferite. Non vogliamo fare la fine di Rifondazione comunista...».
Dunque che genere di governo sareste pronti a sostenere?
«Uno in grado di aprire una vera prospettiva di cambiamento. Attendo da tempo segnali dal Pd, e invece vedo solo una richiesta di appoggio a scatola chiusa. Un po’ come fece Pier Luigi Bersani a marzo. Se il Od resta quello dei lodi Violante non si va da nessuna parte. Su un punto Grillo ha perfettamente ragione: tra i nostri militanti si coglie una distanza profonda con il Pd. Per questo è indispensabile che arrivino da loro dei forti segnali in controtendenza rispetto a quello che hanno fatto finora».

il Fatto 1.9.13
Caimano disperato. Ormai si affida anche a Pannella
di Mariagrazia Gerina

“Ma vattene agli arresti domiciliari”, gli grida una signora appena lo vede arrivare, sotto braccio a Marco Pannella, a Largo Argentina, a metà strada tra Palazzo Grazioli e la storica sede del Partito radicale. Voce dal sen fuggita a sciupare la scena, che il fido Roberto Gasparotti, spedito in avanscoperta, aveva ricontrollato nei minimi dettagli. Nel-l’attesa, il pidiellino Vincenzo Piso (ala missina fedele a Silvio) e il pannelliano Sergio D’Elia fraternizzano. Due passati a confronto: l’uno in Terza Posizione, l’altro in Prima Linea. Strani mix di fine impero: Domenico Gramazio, il “pinguino”, che fa il gentile, mescolato alla militanza radicale, Maria Antonietta Farina Coscioni ed Elisabetta Zamparutti, che si preparano al rito della firma. Il banchetto allestito per sostenere i referendum radicali è pronto per Silvio: “Firma. Questa giustizia può colpire anche te”. Dietro, la foto del povero Enzo Tortora. “Mettetevi qui”, suggerisce Gasparotti rivolto a un gruppetto di giovani del Pdl. “C’è solo un presidente”, gridano loro. Dall’auto blu, scendono Pannella e Berlusconi, quasi 160 anni in due.
ACCOMPAGNATI da Maria Rosaria Rossi, “la badante”. Sembrano una coppia di vecchi amici stranamente assortiti e diversamente invecchiati. L’uno con maglietta nera sotto la giacca blu, che fa tanto buttafuori, l’altro con i capelli bianchi lunghi e la cravatta fantasia fuori dal maglione, che fa un po’ “ragazzo di strada”. Vecchi amici ritrovati sotto le comuni insegne del-l’amnistia, storica battaglia pannelliana e nuova bandiera berlusconiana (“purtroppo, ogni intervento che possa favorire me la sinistra non lo fa”). E dei referendum anti-giudici. “Marco Travaglio, toh”, si diverte a fare il buffone Pannella, con tanto di gesto dell’ombrello: “Dal servo di Berlusconi”. Che bacia, platealmente. Dopo avergli fatto da spalla per tutto il tempo, con tempi comici perfetti. Il Cavaliere tenta una improbabile storia della sua riforma della giustizia. E Pannella lo interrompe: “Ma quale? ”. Quella che non è riuscito a fare, ovviamente. “Dai sempre la colpa agli altri delle cose che non hai fatto tu”, lo punzecchia bonario il sodale. Felice come una pasqua del suo amico Silvio, venuto a firmare tutti e dodici i referendum radicali. E pazienza se metà sono contro le leggi “liberticide” – come diceva Pannella – approvate dal governo Berlusconi. Contro la Bossi-Fini e il reato di clandestinità. Contro la Fini-Giovanardi e la criminalizzazione delle droghe leggere. Berlusconi firma tutto. Quelli sulla “giustizia”: “Che sono assolutamente sacrosanti”, assicura il condannato. Ma anche gli altri, tutti, pure quello contro l'Otto per mille. “Voglio difendere il diritto di ogni cittadino a esprimere il proprio voto”, sfoggia la sua anima liberale il Cavaliere. L'uomo che voleva salvare Eluana Englaro con una legge che l’avrebbe condannata all'accanimento terapeutico. Cose del passato. Ora il condannato ha bisogno dell'amico Pannella. E, senza fare troppi mea culpa, si gode l'abbraccio a favore di telecamera. Che utilizza anche per lanciare qualche messaggio al governo Letta. “Spero che possa continuare a lavorare”, “l'Italia ne ha bisogno”, “sta facendo cose egregie”. Ieri, nel calendario, era il giorno delle colombe. E i ministri che minacciano le dimissioni? “Sono loro che mi dicono di volerlo fare”. Ma “Niente ultimatum”, assicura l'ex premier, riproponendo l'aut-aut del giorno prima come una questione di bon ton: “È assurdo che una forza democratica resti al tavolo dell'esecutivo se gli viene sottratto il leader”. E di coerenza con la storia: “Ma ve lo immaginate cosa avrebbero fatto i comunisti se avessero sottratto De Gasperi alla Dc o se la Dc avesse sottratto Togliatti al Pci? ”. Mutatis mutandis: “Loro non erano fondatori di un partito come me”. Altro che condannato. L'unica colpa che il Cavaliere è disposto a riconoscere: “Non aver raggiunto il 51% dei consensi”. Quanto a Pannella, si sa, è uno che va in soccorso dei condannati. “Marco, il presidente ha detto che ti saluta e che io sono a tua disposizione per accompagnarti dove vuoi”, gli si avvicina Gasparotti, quando Silvio è già lontano. “Che ne dici della Turchia? ”, gli fa lui. Sembra una battuta. Ma forse non lo è del tutto. “Gliel'ho detto a Silvio”, se la ride: “Anche senza passaporto non preoccuparti, ti porto io fuori, all'estero, magari per qualche giorno... Lo faccio come atto di disobbedienza civile”.

il Fatto 1.9.13
I due compari sono tornati
di Pino Corrias


L’IDEA LISERGICA di Marco Pannella di coinvolgere B, pregiudicato, plurinquisito e a rischio latitanza, nei suoi sconclusionati referendum “per una Giustizia giusta”, ha un tasso talmente alto di inverosimiglianza da risultare più vero del vero. Equivalente, per dirne l’allegro paradosso, a convocare la buonanima di Alphonse Capone per una campagna contro l’uso dell’alcol, l’abuso della frode fiscale e il riuso delle escort baresi. Stimolati da chissà quali sostanze – intellettuali, chimiche e in un caso anche chirurgiche – i due compari si sono dati una voce, dopo anni passati a ignorarsi. Uno impegnato a digiunare ingrassando. L’altro a infilare soldi nelle scatole estere di David Mills. In grado di fiutare un buono pasto politico a miglia di distanza, Pannella ora esulta: “Adesso che Silvio ha appoggiato pubblicamente i nostri referendum, ho in mente per lui un luminoso futuro”. La qual cosa, onestamene, assomiglia a una minaccia. Che infatti prosegue così: “Presentarsi a Rebibbia, andare in carcere e incassare il 25 per cento dei voti. Oppure rendersi latitante come Toni Negri”. Aspettiamo con impazienza la mossa di B. Vedi mai che, stordito dalla Cassazione, ci caschi.

La Stampa 1.9.13
Il leader Pdl ha firmato i referendum radicali
Il tira e molla tra Marco e Silvio Un flirt che non si consuma mai
Con Pannella alla continua ricerca di un’alleanza in nome della “rivoluzione liberale”
I due leader d’accordo anche sull’amnistia che svuoterebbe le carceri e risolverebbe i guai giudiziari del Cavaliere
di Mattia Feltri


Se ci fosse un filo conduttore, sarebbe un groviglio. Se fossero due punti, Silvio Berlusconi e Marco Pannella sarebbero uniti da un arabesco. Se c’è uno schema logico per raccontare i rapporti fra i due, non è ancora stato scoperto: lo si può forse rappresentare come il tracciato di un elettrocardiogramma, ma di un paziente malmesso. Appaiati da due pazzie completamente diverse, Silvio e Marco si prendono e si lasciano, secondo un’antica simpatia e secondo i calcoli di rispettiva convenienza, ma soprattutto secondo un’incomunicabilità irrimediabile. Si mettevano lì, venti anni fa, quando il leader radicale ancora credeva (come mezza Italia) che il collega di centrodestra avesse l’intenzione e la forza di inventare qualcosa di rivoluzionariamente liberale. Si mettevano lì e Marco cominciava con Ernesto Rossi, con Gaetano Salvemini, il cattolicesimo liberale di Romolo Murri, e andava avanti per ore e quell’altro, che ha una capacità d’attenzione pari alla durata di uno spot televisivo - e forse aveva qualche amica che lo aspettava o forse cominciava il Milan - cadeva disperato in narcolessia. E nemmeno poteva liquidare l’interlocutore, poiché non è di quelli che gli danno ragione e lo chiamano dottore, ma piuttosto dei pochissimi che lo mandano bellamente al diavolo, o anche altrove.
Fu in quelle condizioni che nacque l’intesa del 1994. Preceduta da qualche incontro qua e là, quando Berlusconi arrivava in via degli Uffici del Vicario, al gruppo radicale, e se c’erano i giornalisti si incipriava in ascensore. E soprattutto da un episodio che avrebbe dovuto far intuire come sarebbero andate le cose. A fine ’93 i radicali si radunarono sotto la sede della stampa estera (dove Berlusconi doveva parlare ai giornalisti) per protestare contro il suo appoggio al «clerico-fascista» Gianfranco Fini contro il laico-progressista Francesco Rutelli nella gara al Campidoglio. Si risolse tutto a baci e abbracci, naturalmente, perché Silvio ignorò i consigli della scorta, andò verso Marco passando in mezzo ai militanti, e queste cose, si sa, al Grande Capo Bianco piacciono da morire. Il problema per entrambi è che le cose finiscono lì. A un’affezione istintiva, nata ai tempi in cui Bettino Craxi teneva le fila del gruppo. Per il resto stop. Uno si tiene le sue idee, quell’altro si tiene i suoi voti, in una relazione clamorosamente infeconda. Una diceria spiega bene - che sia vera o no - il concetto: nel ’94 pare che Pannella chiedesse per sé il ministero della Giustizia; Berlusconi, che alla Giustizia voleva piazzare Cesare Previti, e poi non ci riuscì per l’opposizione di Oscar Luigi Scalfaro, rilanciò col ministero degli Esteri, anche da girare a Emma Bonino. Ma Pannella rifiutò. Ecco, sono trascorsi diciannove anni abbondanti, la Bonino è agli Esteri e, al culmine di una clamorosa serie di fallimenti, in tema di giustizia Silvio torna da Marco (e dai suoi referendum).
Valutato come sono andate le cose, sarebbe stato bello vedere se Pannella alla Giustizia avrebbe cambiato la storia del Paese. E come sarebbe cambiata se, nel 1994, Berlusconi avesse seguito il consiglio del suo ministro Giuliano Ferrara e nominato commissario europeo Giorgio Napolitano. Pochi mesi prima, a Montecitorio, il premier di Forza Italia aveva lasciato i banchi del governo per raggiungere il capogruppo del Pds, reduce da un discorso duro ma sincero, e stringergli la mano; doveva essere l’inizio della pacificazione, già allora. Quando per Napolitano in Europa sembrava tutto fatto, piombò Pannella che seppellì Berlusconi sotto una montagna di parole. Dopo qualche ora, il presidente del Consiglio cedette per sfinimento: che sia la Bonino. Andandosene, Pannella passò davanti all’ufficio di Ferrara e lo salutò col gesto dell’ombrello.
A un certo punto Berlusconi si stancò. Le trattative per l’alleanza alle elezioni del 1996, durate le classiche sette ore, si chiusero bruscamente. Scocciato, Pannella mollò il consesso. Fu Rocco Buttiglione a inseguirlo. Lo cercò fino a notte, ristorante dopo ristorante, e infine lo trovò: «Marco, scusa, hai preso il mio cappotto».

La Stampa 1.9.13
Quando Craxi disse: Mai impannellarsi
di Marcello Sorgi


Culminato nella cerimonia della firma per i referendum del leader del centrodestra, l’incontro politico tra Pannella e Berlusconi ripropone un’altra delle analogie tra la caduta della Prima Repubblica, vent’anni fa, e quella ormai annunciata della Seconda. Protagonista, anche in questo caso, il leader radicale autore delle mille battaglie per una giustizia giusta - compreso il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati - e il super-inquisito Craxi, che ormai meditava l’esilio. Nell’ annus horribilis che correva tra il 4 maggio ’93, giorno in cui la Camera a voto segreto negò l’autorizzazione a procedere contro l’ex-presidente del consiglio socialista, e per reazione una folla di manifestanti lo accolse all’uscita dell’hotel Raphael con il famoso lancio di monetine, e lo stesso mese dell’anno successivo, quando si apprese che era fuggito ad Hammamet, Pannella lo avvicinò più volte per convincerlo a continuare a combattere dal carcere. «Vedrai che sarà meglio per te, la gente rifletterà, in cella diventerai un simbolo come Tortora», gli diceva, puntando sull’antica amicizia e militanza comune che li legava dai tempi dell’Unuri, il parlamentino universitario pre-sessantottesco. Ma Craxi, forte proprio di quella confidenza, lo mandò a stendere e preferì la fuga. Una regola non scritta per Bettino era infatti che si potesse essere amici di Pannella, ma non alleati. Quando La Malfa e Altissimo, nel 1987, avevano tentato di mettere su con i radicali un «polo laico», e si erano presentati insieme alle elezioni, il giudizio tranchant di Craxi era stato: «Peggio per loro, se ne accorgeranno. Non bisogna mai farsi impannellare da Marco».
Dettaglio più, dettaglio meno, è andata allo stesso modo in questi giorni tra Pannella e Berlusconi. Per tutto agosto Marco ha preparato l’incontro! dando pubblicamente a Silvio lo stesso consiglio che aveva dato a Bettino tanti anni fa: «Accetta la pena e vai in carcere. Diventerai il simbolo della nuova battaglia per la giustizia, come Tortora». Quando però se lo è trovato di fronte, e ha capito che Berlusconi non aveva alcuna intenzione di rassegnarsi, nè di consegnarsi, e soprattutto che piuttosto che finire in cella avrebbe fatto cadere il governo, Pannella non s’è perso d’animo. «L’importante è che tu venga subito a firmare per i referendum. Poi, se vuoi, puoi anche andare all’estero... ».
Così a una perfetta analogia tra Craxi e il Cavaliere manca solo la decisione di quest’ultimo di prendere il largo. Con una differenza: all’inizio di maggio ’94, i giudici di Mani pulite chiesero all’ormai ex-segretario socialista di consegnare il passaporto, ma dovettero scoprire che era troppo tardi. Il 4 Craxi era stato avvistato a Parigi, il 18 mandò da Hammamet il primo di una serie di fax che avrebbero scandito la sua lunga agonia, politica e umana. Stavolta invece la Cassazione e la Procura di Milano si sono premuniti: il 2 agosto, all’indomani della condanna, i carabinieri erano già ad Arcore, e in men che non si dica Berlusconi è rimasto senza documenti per l’espatrio. Da allora in poi, non a caso, parla quasi come se si sentisse già prigioniero.

Repubblica 1.9.13
Una storia di alleanze e di divorzi, ieri il ritorno di fiamma con il Berlusconi “impannellato”
Silvio e Marco, la strana coppia che attraversa le due Repubbliche
di Filippo Ceccarelli


IL TERMINE “impannellamento”, invero poco lusinghiero, fu coniato da Craxi, che fino all’ultimo rifiutò di sottoporsi a tale pratica vagamente penitenziale — e forse oggi si può dire che mal gliene incolse, specie quando gli fu consigliato di andare in carcere, e proprio da lì dentro trarre slancio per la sua battaglia contro Mani Pulite. Da non violento, Pannella adora infatti la via socratica. La mise in atto, anche efficacemente, con Enzo Tortora; mentre con Toni Negri gli venne male perché dopo averlo fatto eleggere, e quindi togliendolo dalla galera, Pannella promise con enfasi al Parlamento che il professore si sarebbe costituito: “Lo avrete in vincoli!”. E invece quello non solo scappò definitivamente in Francia, ma in un successivo libricino, “L’Italie rouge et noire” (1985), coprì d’insulti il povero Pannellone, pure arrivando ad augurarsi che ci lasciasse la pelle in qualche sciopero della fame.
Anche per questo suona poco credibile che l’altro giorno Pannella abbia suggerito a Berlusconi di firmare i referendum e poi di squagliarsela all’estero. Ieri, piuttosto, si è concesso il lusso, la rivalsa, l’auto-indennizzo e un po’ anche lo sfizio di mettere in scena l’inedita e sorprendente pièce del Cavaliere impannellato.
Ossia, gli ha costruito un set tanto più scomodo, per lui che odia parlare avendo gente alle spalle, quanto più spettacolare. Gli ha poi modulato un format politico che tornerà utile ai “suoi” referendum. Ma soprattutto, gli ha assegnato una parte: quella della vittima da esporre come trofeo della propria coerenza.
Non si pensi che tutto questo è cinismo, configurandosi semmai come qualcosa di più e di meno. Berlusconi, che in queste faccende non è una mammoletta, ha cercato disperatamente di reagire mostrandosi disinvolto protagonista, ma con Pannella civuol altro che darci dentro con la parlantina o allargare le braccia a beneficio delle tv.
Quell’omone con la coda di cavallo giallastra e vestito come sempre in modo del tutto improbabile incombeva su di lui accentuandone la figura di attempatissimo damerino.
Il filmato, in provvida visionesul sito di Radio radicale, offre un documento sensazionale. Più Berlusca fa l’amicone e più Pannella gli afferra la mano, se la tiene, quindi lo tocca e ritocca sulle spalle e a un certo punto perfino su una coscia, sotto il tavolo. Per non dire del fetido sigaraccio che, del tutto ignaro del maniacale igienismo del Cavaliere, glisfumacchia sotto il naso.
Più volte lo interrompe tonante, “Siiiilvio!”, oppure lo prende in giro, sempre rubandogli la scena. Altrimenti se lo guarda con un misto di orgoglio e diffidenza, sardonico e condiscendente ad un tempo. Quando Berlusconi si permette una battutina — “noi due vecchietti” — Pannella gli fa tanto di occhiacci: “Io — proclama — sono un vecchio ragazzo di strada!”, il che pare difficile da smentire, e infatti si prende di prepotenza l’ultima parola, che poi è un gestaccio a freddo, e quindi purtroppo bossiano, comunque rivolto a Marco Travaglio, della cui popolarità il primoe unico Marco deve sentirsi in qualche modo geloso. Ma poi è talmente sicuro di sé da autodefinirsi: “Il servo di Berlusconi”.
Tra i due leader ci sono vent’anni di alti e bassi. Qui ci si limita a ricordare che Pannella è certo stato il primo a mettere in guardia il Cavaliere facendogli balenare non tanto il carcere, quanto la triste fine del tycoon Bob Maxwell, misteriosamente scivolato giù dalla sua barca nelle acque dell’oceano.
Tale ardore protettivo e cavalleresco rende gloria al personaggio, anche perché rivolto a tutti. Giusto quarant’anni fa (1973), in quello che Pasolini definì “il manifesto del radicalismo moderno”, Pannella compilò la lista di quelli che amava e quindi era pronto a difendere in nome del diritto: gli obiettori di coscienza, i fuorilegge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, gli omosessuali, i veri credenti, le femministe, i paria, gli emarginati. Nel ventennio seguente altre scandalose figure completarono la lista: ex preti e monache, pornostar, parlamentari inquisiti, neofascisti, brigatisti, mafiosi e drogati in galera, carcerati in generale, ma anche agenti di custodia. Che nell’elenco della nobile pietà sia oggi entrato Berlusconi forse dice più di quanto l’ennesimo impannellamento possa far pensare a prima vista.

il Fatto 1.9.13
Felice Casson: Strada chiusa
“Non c’è altra via I nostri non lo capirebbero”
di Luca De Carolis


Nelle Feste del Pd dicono peste e corna del cosiddetto lodo Violante. E il messaggio di tutti è sempre quello: non vi sognate neppure di non votare la decadenza di Berlusconi”. Felice Casson, senatore democratico e membro della Giunta delle elezioni, è in linea con la base.
Che ne pensa dell’incontro fissato con Violante da dieci senatori del centrosinistra? C’è chi l’ha letto come un’apertura a Berlusconi delle “colombe democratiche”.
Io dico che ogni iniziativa volta a capire e approfondire è legittima. E mi sembra questo lo spirito dell’incontro.
Tra i firmatari della lettera c’è anche un suo collega della giunta, Enrico Buemi (Psi). Lui non dovrebbe avere già le idee chiare?
L’importante sarà presentarsi preparati alla Giunta del 9 settembre. Di tempo ce ne sarà stato a sufficienza: oltre un mese, dall’ultima riunione.
Oggi (ieri, ndr) Violante ha fatto una parziale marcia indietro. Ma sul Corriere della Sera era stato chiaro: “La Consulta ha ritenuto che il procedimento davanti alla Giunta delle elezioni è di carattere giurisdizionale, e la stessa Giunta può fare ricorso alla Corte costituzionale”.
La Corte non ha detto esattamente così, bensì che la giunta talvolta ha compiti para-giurisdizionali. Per essere più chiari, è un organo istruttorio e non un giudice, perché le manca un elemento essenziale, la terzietà, essendo di nomina politica. Quindi non può proporre ricorso alla Consulta.
E il Senato invece potrebbe rivolgersi alla Corte?
A mio avviso no. Se una camera ritiene che una norma non vada bene la può cambiare. Rivolgendosi alla Consulta delegherebbe a un altro organo i propri compiti, fissati dalla Costituzione. E così facendo uscirebbe proprio dai confini fissati dalla Carta.
Perché Violante ha preso quella posizione? Voleva dare un segnale al Pdl?
Mi astengo dal commentare. Devo dire però che ogni volta che sento parlare di “lodi” divento sospettoso, perché scatta un cortocircuito per la democrazia. Basti pensare al lodo Alfano.
E i militanti cosa ne pensano?
Di questo ipotetico lodo dicono peste e corna, tutti. Basta girare per le feste, o leggere le mail che ci mandano. Ma mi lasci dire che il Pd mi appare compatto: da Epifani sino ai segretari di circolo, tutti ripetono che bisogna votare la decadenza di Berlusconi, senza esitazioni. Proprio come i militanti. Il Pd non può proprio permettersi di fare qualcosa di diverso da quanto promesso.
Giorni fa ha lanciato l’allarme sui “franchi tradi-
La situazione è delicata e va monitorata. Diciamo che più se ne parla, meno rischi si corrono di sorprese nell’urna. Quei 101 che votarono contro Prodi ce li ricordiamo tutti: ed è meglio tenerli a mente, sempre.

il Fatto 1.9.13
Doris Lo Moro: Lasciateci lavorare
“Macché Consulta Chiudiamo entro settembre”
di Wanda Marra


Continuare a discutere se votiamo la decadenza e quando la votiamo, serve solo a creare tensione”. Doris Lo Moro, senatrice Pd nella Giunta delle elezioni del Senato che deve decidere della destino di Berlusconi, prima di essere una parlamentare è stata un magistrato. È alla festa democratica di Genova per presentare un libro.
Senatrice, non si poteva votare subito la decadenza?
È giusto riconoscere a Berlusconi il diritto alla difesa. Non abbiamo fatto altro che applicare il termine a difesa, che dà 30 giorni per questo ed è appena scaduto. Augello ci ha chiesto qualche altro giorno. E per questo riferirà il 9.
Lei come voterà?
Non esiste un magistrato che dice quello che farà prima di ascoltare quello che gli altri hanno da dire.
La Giunta può rimandare la legge alla Consulta?
L’unico argomento che mi sembra pertinente è quello procedurale. Penso che la competenza sull’eccezione di costituzionalità sia della Giunta, che è un organo giurisdizionale, non del-l’Aula.
Quindi secondo lei si può sollevare l’eccezione di costituzionalità?
Credo di sì, se qualcuno lo pone. Non sono io che lo faccio, visto che ho presentato una proposta di legge per l’incandidabilità per i condannati in primo grado, secondo l’articolo 54 della Costituzione, che pone il requisito dell’ onorabilità.
Ha ragione Violante? Bisogna rimandare la legge alla Consulta?
Non ho parlato con Violante, anche se sono persona a lui vicina, ma credo sia stato frainteso: non ha detto che bisogna rimandare la legge alla Consulta, solo che è la Giunta a essere competente. È anche meno pericoloso. In Aula si può votare a scrutinio segreto.
Voterete a favore o contro il rimando alla Consulta?
Non voglio esprimermi ora. Ma dovremmo essere tutti folgorati come San Paolo sulla via di Damasco per votare per rimandare la legge alla Consulta. Di folgorati, peraltro, ce ne sono già abbastanza, visto che quelli che gridano all’incostituzionalità la Severino l’hanno votata.
Lei sa meglio di me che in questa vicenda i tempi sono cruciali. E che le pressioni per rimandare sono molteplici, visti i ricatti di Berlusconi al governo.
Di tutte queste storie non mi interessa niente. È una questione di diritto.
Finirete prima o dopo il 15 ottobre, quando si chiude la finestra elettorale?
Se chiudiamo prima è meglio. È una questione urgente. Ragionevolmente penso che possiamo terminare entro la fine del mese. Ma non è una decisione facile. Richiede molta attenzione, motivazioni ineccepibili. Non possiamo sbagliare, non possiamo essere ricattabili. E non sbaglieremo.

Repubblica 1.9.13
Un nuovo partito per la destra italiana
di Eugenio Scalfari


DUE notizie meritano una breve anteprima. La prima è la volatilità di Berlusconi che l’altro ieri ha dato per certa la caduta del governo Letta se gli sarà tolto lo scranno di senatore, ma ieri ha detto esattamente il contrario affermando l’incrollabile fiducia nel suddetto governo indipendentemente dalle sue vicende giudiziarie. La seconda notizia è la nomina di quattro senatori a vita da parte di Napolitano alle persone di Abbado, Piano, Rubbia ed Elena Cattaneo.
La volatilità mentale è a volte un dono di natura, altre volte è una sciagura. Quando può influire sui destini di un Paese può arrecare gravi danni e questo è il caso. Resta da capire se nel caso specifico si tratti d’un elemento caratteriale o d’un sopravvenuto disturbo mentale. L’unico rimedio è di non dargli alcuna importanza.
La scelta dei quattro senatori è in perfetta linea con i requisiti previsti dalla Costituzione. Le reazioni del centrodestra, dei giornali berlusconiani e della Lega sono state di motivare quella scelta con ragioni politiche volte a rafforzare al Senato il centrosinistra. La stessa reazione ha manifestato Travaglio. La comunanza non è casuale: si tratta di fango che imbratta le mani di chi lo maneggia.
Fine dell’anteprima.
In un mondo sempre più interdipendente gli elementi negativi e quelli positivi si intrecciano senza posa e il termometro che ne misura l’andamento ne registra ogni giorno l’intensità e le aspettative che ne derivano.
Nella settimana appena trascorsa l’alternarsi degli eventi e gli effetti che hanno prodotto hanno toccato il culmine della confusione tra timori e speranze, ottimismo e pessimismo. Pensate all’Egitto, ai venti di guerra in Siria che potrebbero incendiare tutto il Medio Oriente, ai sintomi di crisi nell’economia dei Paesi emergenti, ma anche alle buone notizie sulla ripresa dell’economia americana e ai segnali – timidi ma visibili – d’un miglioramento dell’economia europea.
I mercati, sempre molto sensibili a queste diverse sollecitazioni, hanno registrato fedelmente quanto accadeva. Alla fine il bilancio della settimana è moderatamente positivo anche se il circuito mediatico tende a mettere in evidenza le cattive notizie che producono più sensazione delle buone.
Per quanto riguarda l’Italia i temi che hanno tenuto banco sono stati: la sorte politica e giudiziaria di Berlusconi, le conseguenze sul suo partito e sul governo, la questione dell’Imu, dell’Iva, dei rapporti con l’Europa, le attese prevalenti dell’opinione pubblica. Senza dimenticare l’imminenza delle elezioni politiche tedesche che avranno influenza su tutto il continente e anche fuori di esso.
Dalla settimana che ora comincia le agenzie di sondaggio riprenderanno il loro lavoro ma fin d’ora sappiamo che l’opinione più diffusa, al di là delle diverse posizioni politiche, è in favore della stabilità. L’ipotesi di imminenti elezioni politiche o di crisi di governo prive di alternative credibili, creano timore e rifiuto. Questo sentimento è comune al 70-80 per centodei cittadini e rappresenta quindi una condizione che determina l’intera nostra situazione politica ed economica.
La cosiddetta abolizione dell’Imu è un effetto di quella condizione determinante. La stabilità ne è uscita rafforzata ed è destinata a reggere nonostante le bizze, le rivalità e la faziosità del piccolo mondo politico che stenta a recuperare consapevolezza e dignità di comportamenti. * * * Berlusconi si sente perso e fa di tutto per non abbandonare il proscenio dove da vent’anni e più recita la parte del protagonista. Voleva e vuole dominare il governo, logorarlo, ricattandolo e ingraziandosi il favore del pubblico con proposte che possono riscuotere favore popolare. L’abolizione dell’Imu era una di queste. In realtà a lui e ai suoi fedeli importa assai poco dell’Imu. Del resto fu lui a introdurre l’Ici, poi ad abolirla, poi a ripresentarla sotto altra forma. Ma oggi lo slogan di abolirla definitivamente gli avrebbe fatto gioco, era il modo per puntellare la sua presenza sul proscenio nonostante la sentenza di condanna definitiva. «Se io resto l’Imu sarà cancellata»: questo è stato lo spot dell’ultimo mese. Adesso questo spot è caduto e resta in piedi la sola questione che veramente interessa il protagonista: non uscire di scena. Si direbbe che, risolta la questione Imu, il re è nudo. Inutile dire che quel nudo offende al tempo stesso la morale e l’estetica, non dei moralisti e giustizialisti ma dei milioni di persone perbene che hanno assistito con indignazione e disgusto alla corruzione dilagante, al prevalere degli interessi privati, al degrado della società e della dignità del Paese.
Il re è nudo e un regime è finito. Questo tema diventerà in un prossimo futuro dominante per tutti i moderati italiani che dovranno trovare nuove forme di rappresentanza, lontane dal populismo e dall’uomo della Provvidenza. È un tema che non interessa soltanto i moderati ma anche la sinistra democratica e riformatrice. Va dunque discusso con consapevole responsabilità.
Il tema dell’Imu merita tuttavia ancora qualche parola per chiarirne la portata che a mio avviso non è stata spiegata secondo realtà.
Nel suo discorso di investitura di qualche mese fa in Parlamento Enrico Letta aveva detto che l’Imu sarebbe stata “rimodulata”. In che modo? Sostituendola con un’altra imposta comunale sugli immobili, come esiste in tutti i Paesi europei.
Ci volevano alcuni mesi di tempo per effettuare questa rimodulazione; nel frattempo il pagamento delle rate dell’Imu sarebbe stato sospeso. Così è ora avvenuto. L’Imu 2012 (già pagata) non è stata rimborsata come aveva promesso Berlusconi, ma la prima rata 2013 è stata cancellata con decreto e una copertura certa e approvata dalla Ragioneria dello Stato. L’abolizione del saldo è un impegno politico che prenderà forma di decreto a metà ottobre insieme alla legge finanziaria e al disegno della nuova “service tax” che sostituirà l’Imu rimodulandola.
Questo è avvenuto e avverrà e non si vede in che cosa tradisca gli impresi presi da Letta quando ottenne la fiducia. Le poche risorse disponibili potevano essere utilizzate per altri e più importanti scopi sociali? Credo di sì, ma il governo sarebbe stato battuto con lo spot sull’Imu e il re non sarebbe stato denudato di fronte alle sue private responsabilità. Senza governo è evidente che nessun’altra decisione poteva esser presa. Si sarebbe aperta quella crisi politica che il grosso dei cittadini non gradisce ed anzirifiuta.
Infine: per quanto riguarda il saldo dell’Imu, la copertura nelle sue grandi linee c’è già ma il decreto non c’è ancora ed è una delle necessarie astuzie della politica. Soltanto a metà ottobre Berlusconi sarà definitivamente decaduto dagli incarichi pubblici; se il suo partito e lui stesso perdessero la testa e i ministri si dimettessero dal governo, la rata dell’Imu dovrebbe essere pagata dai contribuenti, la rimodulazione non avverrebbe e l’intera responsabilità cadrebbe sulle spalle del Pdl.
Questa è la realtà di quanto è avvenuto. Restano ovviamente aperte le questioni delle risorse, dell’Iva, della crescita e dell’occupazione; questioni in parte di pertinenza europea ed in parte italiana. Le possibilità non mancano. Saranno indicate a fine ottobre con la legge finanziaria. Complessivamente occorrono circa 15 miliardi, fermo restando l’impegno a contenere il deficit entro il 3 per cento. Abbiamo più volte affrontato questa risolvibile questione. Tra due mesi dagli annunci si passerà ai fatti. Se così non fosse, allora sì, il governo verrebbe meno ai suoi scopi e non meriterebbe più la fiducia.
* * *
Nel frattempo – lo ripeto – i moderati debbono costruire una forma di rappresentanza politica che abbandoni totalmente il populismo e si configuri come una destra democratica ed europea rendendo possibile l’alternanza con una sinistra democratica e riformista. È interesse di tutti che questa trasformazione avvenga e non mancano nel Pdl persone che stanno già lavorando a quel progetto: Quagliariello, Lupi, Cicchitto e molti altri. Vanno incoraggiati, ma il loro compito è molto difficile; la sua riuscita presuppone infatti che in Italia esista unaborghesia moderata che dia lo sfondo sociale ad una simile operazione.
Purtroppo in Italia una borghesia moderata non c’è, anzi – per essere ancora più chiari – in Italia non esiste una borghesia se con questa parola s’intende una classe generale che abbia al tempo stesso un ruolo economico, sociale, politico. E purtroppo non esiste più una classe operaia che sia anch’essa una classe generale con ruoli economici, sociali e politici.
Classe generale significa un ceto sociale che coltivi al tempo stesso i suoi propri interessi nel quadro dell’interesse di tutti. I partiti rappresentano (dovrebbero rappresentare) l’articolazione politica di queste classi che si contrappongono e si alternano nel governo del Paese, divise nelle rispettive visioni del bene comune ma accomunate dal rispetto della democrazia, dello Stato di diritto e dello spirito liberale che tutto consente a tutti nel rispetto dell’eguaglianza di fronte alle legge, delle pari opportunità e del principio di difendere la libertà altrui come la propria.
Sono principi elementari, affermati da molti a parole ma praticati da pochissimi nei fatti e questo è il vero male italiano. Ne ho molte volte esposto le cause originarie e non starò qui a ripetermi. Ma un fatto è certo: l’ultimo in ordine di tempo (con molti predecessori) a danneggiare gravemente questi principi e questi valori è stato Silvio Berlusconi. Il compito dei suoi successori è arduo ma necessario e se anche il risultato fosse parziale sarebbe pur sempre un avvio. Il tempo è venuto, hanno pochi mesi a disposizione. Perciò si muovano subito altrimenti si troveranno di fronte soltanto alle rovine prodotte dall’implosione del regime che hanno consentito a Berlusconi di costruire con la loro complicità.

l’Unità 1.9.13
La città degli schiavi dei pomodori
Si chiama “Il ghetto”
A Foggia baracche che ospitano lavoratori stagionali africani alla ricerca di un lavoro pulito e di dignità
di Elisa Baffoni


Da lontano non si vede. Campi sterrati, campi appena piantati, campi in maturazione. Campi dietro campi: devi arrivare a cinquanta metri per vedere le prime «case», accolte in una leggera infossatura del terreno che le nasconde alla vista, ombelico della terra: il Ghetto. Lo chiama così chi ci abita: il Ghetto. Non «il ghetto di Foggia», il Ghetto. Un nome, non un giudizio. È una città: con le sue strade, gli assi ortogonali che di notte diventano «il corso», le piazze là dove ci sono i bidoni dell’acqua potabile, i rubinetti di quella non potabile per lavarsi. Una città che ospita in questi giorni mille e trecento persone, in larga parte giovani maschi africani che di giorno vanno a fare i braccianti nei campi in Capitanata, la seconda pianura d’Italia dopo la val Padana.
Il primo impatto è straniante. Baracche, nient’altro. Un lusso le pareti di bandone o lamiera. Di regola le colonne portanti sono di assi di legno su cui viene inchiodato compensato di risulta e vecchi cartelloni pubblicitari. All’esterno grandi plastiche a fasciare le strutture, solidamente fermate dai tubi dell'irrigazione inchiodati sul legno. Vecchi infissi ripescati in discarica, rare e piccole le finestre, la luce entra dalla porta, a volte protetta da un porticato; gran uso di tapparelle come staccionata.
È cominciato così: qualche casa colonica abbandona, occupata e riattata per la stagione. L’anno dopo accanto alle case, ecco le prime baracche, che l’inverno venivano smontate, ma già qualcuno si fermava nelle case. Poi le baracche si sono moltiplicate, molte sono abitate anche d'inverno. Dopo i fatti di Rosarno, vi si sono rifugiate 150 persone. Lo scorso dicembre c’erano 250 abitanti e, dopo la chiusura di «Emergenza Nordafrica», in maggio c’erano già 500 persone. L’anno scorso erano 900, quest’anno 1.300.
Baracche. Eppure l’uniformità del sistema di costruzione dà uno stile, una riconoscibilità a queste abitazioni molto diverse dalle baracche degli immigrati campani o abruzzesi alle porte di Roma fino agli anni ‘80 affogati nel degrado. Qui grazie alla Regione Puglia c’è l'acqua, potabile e no. I bagni chimici. La raccolta dei rifiuti; se qualche plastica viene portata per i campi via dal vento battente è perché i sacchi accuratamente chiusi non vengono tutti raccolti, e i randagi li lacerano a morsi nella
notte. Due volte a settimana c’è il furgone di Emergency che fa ambulatorio (ma la Asl?). C'è persino Radio Ghetto, affiancato dalle Brigate di solidarietà attiva, che trasmette nelle moltissime lingue che si parlano in Senegal, Mali, Guinea Bissau, Costa d’Avorio, Guinea Conakry. Non c’è luce: di notte sono i punti di ritrovo a colorare di neon la strada principale. Da luglio a settembre c’è il campo di lavoro di «Io ci sto», ragazzi e non che dalle 17 alle 21 insegnano italiano e insieme ai ragazzi senegalesi e maliani riparano le biciclette, indispensabile strumento di mobilità. Due volte a settimana ci sono gli «avvocati di strada» che informano su diritti del lavoro e permessi di soggiorno. Ogni tanto compare qualche sindacalista, ma senza un luogo attrezzato, una postazione, un appuntamento fisso.
È vero, non c'è solo il Ghetto. In Capitanata sono 22mila residenti, a cui si aggiungono per la stagione della raccolta altre 16mila braccianti. Oltre agli africani. Sono gli europei (rumeni, polacchi, albanesi) che occupano i ruderi delle case coloniche o trovano altri ricoveri di necessità e a volte vengono segretari e schiavizzati. Ma il Ghetto è un'altra cosa. Un bel libro, «L’urbanistica del disprezzo», descrive come vivono in Italia i rom, e perché. Più che il disprezzo, per il Ghetto c'è invece «l’urbanistica dell’esclusione», dello sfruttamento. Lontani dalla città quando c'è scuola un pullman garantisce almeno il collegamento con Rignano, d'estate c’è solo una corsa alle 7.40 con ritorno verso le 10 nemmeno visibili, chi sta al Ghetto non ha che da lavorare, dormire, mangiare. C’è qualche «ristorante» che funziona anche da bar e a volte da bordello, frequentato anche da italiani c’è un barbiere, uno spaccio, il mercato: qualche ambulante che vende abiti usati e stoffe: soprattutto tende, grandi tende da interni che vengono drappeggiate nelle stanze per nascondere le pareti e abbellirle con cura. C'è un mercato informale, a volte illegale. Ma c’è anche solidarietà, nessuno rimane digiuno anche se non ha trovato lavoro.
Ora c’è chi vorrebbe cancellarlo. Una vergogna, dicono: buttiamolo giù. Meglio una tendopoli, ingressi controllati, mensa e polizia (e magari qualche nuovo posto di lavoro per italiani). Ma chi non ha il permesso di soggiorno sarebbe escluso, di nuovo. Di nuovo dovrebbe costruirsi una baracca nascosta. Il Ghetto è una vergogna. Sotto però c’è un’altra vergogna: quella dello sfruttamento, del caporalato che, nonostante la legge lo vieti, è più vivo che mai. Una vergogna le paghe da fame, 3.50 euro l’ora contro le 7.36 del contratto. E c’è qualche azienda che si spinge anche più in basso: domenica scorsa una squadra di undici braccianti si è sentita proporre una paga di 2.50 euro. Hanno rifiutato, e ci vuole coraggio, sono tornati al Ghetto.
Alla grettezza delle aziende si aggiunge il giogo del caporalato. I caporali, o i «capineri» (africani che ormai li hanno quasi sostituiti), tengono i contatti con le aziende, organizzano le squadre e le portano sul posto di lavoro riscuotendo 5 euro a testa, contrattano e ritirano le paghe e ci fanno una congrua cresta. Di norma strappano alle aziende 5 euro l'ora, ma al bracciante ne arriveranno 3.50. Meccanismo perfettamente descritto dal corto Caponero Capobianco (http://www.iocisto. eu/i-media/video-2/162-caponero-capobianco.html).
Se un bracciante avesse un contratto normale, potrebbe pagare un affitto e vivere a Foggia. Questo è il modo giusto per distruggere il Ghetto. Qualcuno ce la fa, una sessantina di persone almeno tornano al Ghetto solo per ritrovare gli amici. Giacché il ciclo delle culture si è ampliato (si comincia con l'orzo e il grano, poi pomodoro, zucchine e melanzane, cipolle e zucche, uva e olive, broccoletti e finocchi e carote) qualche rara azienda ha scelto di dare un contratto. Ma sotto molti dei contratti registrati all’Inps c’è un inganno: si assumono parenti e amici che non andranno mai nei campi ma riscuoteranno contributi e cassintegrazione invernale, così chi lavora davvero è truffato 2 volte.
Lavoro pulito e dignità, questo è il piccone che può distruggere il Ghetto. Ogni alternativa lascia intatto il problema e lo nasconde sotto un tappeto diverso. In quella città negata c’è «un serbatoio prezioso dice Arcangelo Maira, sacerdote scalabriniano con un lungo percorso da migrante e missionario, direttore di Migrantes per la diocesi Manfredonia-Vieste-s.Giovanni Rotondo e animatore di Io ci sto di energie e speranze per questi ragazzi migranti. E ci sono piccole azioni positive. Come la scuola di italiano, che dà uno strumenti indispensabile di cittadinanza. Come la ciclofficina, che mantiene in efficienza un mezzo di trasporto economico così da bypassare il caponero e andare direttamente a contrattare la giornata di lavoro. Ma soprattutto l’incontro tra giovani italiani e giovani braccianti, i cui contatti con gli italiani si limitano spesso a poliziotti, caporali, mafiosi e sfruttatori. L’incontro produce rapporti, fermenti, fiducia. I braccianti hanno l'obiettivo di mandare 50 euro al mese a casa, per i loro villaggi è uno stipendio rispettabile. Ma se avessero più giustizia, una paga decente, una casa, una famiglia, magari investirebbero qui. Trent’anni fa noi italiani raccoglievamo pomodori per 12.000 lire l'ora, 6 euro. Oggi i braccianti ne prendono 3.50 e nei mercati il pomodoro costa tre volte di più. Perché il bracciante prende la metà e il consumatore paga il triplo?». La colpa è dell'ago della bilancia, la grande distribuzione che determina il prezzo, decide quanto comprare e da chi. I loro nomi non circolano, ma le loro azioni, qui nel Tavoliere, si vedono chiaramente.
Intanto sotto il tendalino della scuola di italiano, vicino alla bandiera della pace, si impara a scrivere, la testa china sui fogli, l'emozione di sentirsi capaci, sorrisi e risate. E, alla fine, tutti in cerchio a spizzicare taralli e fare conversazione, dalla poligamia al cibo, dalla moda a come si lavora nei campi. Su quel che è avvenuto, ad esempio, qualche settimana fa: lo scorso anno 287 braccianti hanno lavorato due mesi per la stessa azienda che, alla fine, non li ha liquidati. «Alcuni non si sono arresi dice Arcangelo Maira hanno deciso di fare vertenza, di combattere per i loro diritti. Abbiamo cercato i loro compagni, ormai dispersi per l'Italia, in cinquanta hanno chiamato in causa una grande azienda. Un bel segno di speranza».

l’Unità 1.9.13
Scienza a porte aperte
Un convegno ad Anagni si interroga sulla condivisione dei dati scientifici
di Pietro Greco


OPEN ACCESS: ACCESSO TOTALE, LIBERO E GRATUITO ALLA CONOSCENZA SCIENTIFICA. REALIZZARE IN MANIERA DEFINITIVA E INTEGRALE L’IDEALE che, secondo lo storico Paolo Rossi, ha caratterizzato la nascita della scienza moderna in Europa: abbattere il «paradigma della segretezza». Comunicare tutto a tutti. Open data: rendere integralmente accessibile non solo la letteratura scientifica consolidata, ma che tutti condividano con tutti ogni e qualsivoglia dato in ogni e qualsivoglia modo è stato raccolto.
Si apre domani, lunedì 2 settembre presso il Convitto Nazionale Regina Margherita ad Anagni, il convegno «Scientific Data Sharing», la condivisione dei dati scientifici, organizzato da Giovanni Destro Bisol, dell’Istituto Italiano di Antropologia dell’Università La Sapienza di Roma in collaborazione con l’Istituto Italiano di Paleontologia Umana. Si tratta di un convegno internazionale e interdisciplinare, che ha il merito di riproporre anche in Italia un tema che è diventato di primaria importanza fuori dai nostri confini.
Certo, come ci ricordava il compianto Paolo Rossi, la domanda di trasparenza totale del processo di produzione della conoscenza è antica come la scienza stessa. Ma la novità è che oggi sono non solo gli scienziati ma anche i governi, di qualsiasi colore politico, a fare proprio questo ideale. Il presidente democratico degli Stati Uniti, Barack Obama, per esempio, ha chiesto e sta ottenendo che tutta la ricerca finanziata con fondi federali sia open access: accessibile gratuitamente a tutti. E il premier conservatore del Regno Unito, David Cameron, ha fatto propria l’indicazione contenuta già nel titolo di un rapporto della Royal Society, una delle più antiche e prestigiose accademie scientifiche del mondo: «Science as an open enterprise», considerare la scienza un’impresa aperta. E, dunque, rendere accessibile a tutti le conoscenze e i dati su cui si fondano le conoscenze.
Questa spinta non solo alla trasparenza totale, ma addirittura alla condivisione integrale di ogni conoscenza, muove da diverse cause. La prima è di natura etica. La conoscenza scientifica, come sosteneva Francis Bacon, non deve essere a vantaggio di questo o di quello, ma dell’intera umanità. Il prerequisito per realizzare questo ideale è che la conoscenza scientifica sia accessibile all’intera umanità.
Una seconda causa è di natura tecnologica. La comunicazione elettronica consente finalmente di comunicare tutto a tutti in maniera relativamente poco costosa. Un’altra costellazione di cause è di natura epistemologica. Oggi al mondo lavorano oltre sette milioni di ricercatori. Una comunità scientifica che è superiore alla somma di tutti gli scienziati vissuti in tutte le epoche precedenti. Nel medesimo tempo oggi al mondo viene prodotta una quantità di dati, scientifici e non, superiore alla somma di tutti i dati prodotti nelle epoche precedenti. Dobbiamo cogliere tutte le opportunità offerte da questo numero inusitato di cervelli che lavorano insieme. E per farlo occorre che questi cervelli costituiscano una reale comunità. Ovvero che condividano tutte le conoscenze, per poterne produrre di nuove.
Di più, come sostengono Jim Gary e altri pionieri della computer science, la messa in comune delle conoscenze e di una quantità senza precedenti di dati processati da computer sempre più potenti costituisce di per sé un’innovazione. Può portare a un nuovo modo di produrre scienza. A un «quarto paradigma», dopo i due della scienza galileana le certe dimostrazioni e le sensate esperienze e dopo il terzo paradigma, quello della simulazione, reso possibile dal computer. Il quarto paradigma consisterebbe nella possibilità di mettere a punto algoritmi capaci di scoprire cose nuove sulla natura semplicemente processando una grande quantità di dati. Diciamo la verità. Sono soprattutto questi due ultimi motivi ovvero la possibilità di accelerare il processo di produzione di nuova conoscenza che muovono i governi verso l’open access e l’open data. Ma c’è un altro motivo che muove molti scienziati e settori più o meno consapevoli della società. Un’esigenza di democrazia. Viviamo nella società della conoscenza. La libera circolazione dei dati, delle informazioni, del sapere è nel medesimo tempo un fattore di efficienza e di partecipazione democratica in questa nuova era della storia dell’umanità.
Tuttavia, per quanto forte e generale sia ormai la tendenza verso la comunicazione di tutto a tutti, non mancano gli ostacoli che vi si frappongono. Alcuni sono interni alla comunità scientifica e, tutto sommato, facilmente superabili. Un ostacolo all’open access deriva dalla potente lobby della case editrici scientifiche, che vuole continuare il ricchissimo business. Questo ostacolo può essere facilmente superato spostando l’onere dei costi dai consumatori (chi acquista la conoscenza) ai produttori (gli scienziati che intendono pubblicare i loro lavori). Un ostacolo all’open data viene dal singolo ricercatore o da gruppi di ricercatori, poco disponibili a condividere dati che potrebbe portare altri a produrre scoperte. Un ulteriore ostacolo, più tecnico, deriva dalla necessità di trovare standard comuni tra gruppi di discipline scientifiche diverse. Sono questi due temi che ad Anagni saranno oggetto di particolare attenzione.
Tuttavia i principali ostacoli alla «scienza come libera impresa» e alla comunicazione totale delle conoscenze vengono dall’esterno della comunità scientifica. Una prima costellazione di ostacoli viene posta dalle imprese private che finanziano la ricerca e che sono interessate a tenere per sé non certo a condividere conoscenze e dati. Un’altra costellazione di ostacoli viene da quei settori pubblici che si occupano di sicurezza. La libera circolazione di conoscenze e dati viene considerata un pericolo per i cittadini e per le istituzioni. I casi recenti e clamorosi di Wikileaks o di Edward Snowden hanno posto il problema all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Ma il conflitto tra libera circolazione dei dati e sicurezza è molto più vasto e profondo. E non è un problema semplice. Dal modo in cui sarà risolto dipenderà non solo il futuro della scienza. Ma anche della democrazia nell’era della conoscenza.

Corriere 1.9.13
Stravinskij e Schönberg: perché la musica ha bisogno di scandali
di Zubin Mehta


Okay. Verdi e Wagner; no problem, si va sul sicuro. È il primo pensiero che ho avuto ricevendo la telefonata del direttore artistico di MiTo, Enzo Restagno: mi parla di un doppio anniversario, siamo nel 2013, penso immediatamente al bicentenario dalla nascita di Verdi e Wagner. Poi però fa riferimento al 1913, dice che vorrebbe ricordare due tra i più grandi scandali che si siano mai consumati nella storia musicale, due episodi clamorosi che vorrebbe accostare in uno unico concerto da affidare proprio a me. Lì per lì ho provato un misto di timore ed eccitazione, ma in pochi secondi il gusto per la sfida ha prevalso sulla prudenza, e così il 20 e 21 dirigerò la «mia» orchestra del Maggio Musicale Fiorentino nella «Sacre du Printemps» di Igor Stravinskij e nella Kammersymphonie n. 1 di Arnold Schönberg.
Perché è una sfida? Immaginatevi un lussuoso teatro parigino inaugurato da neppure due mesi, il Théâtre des Champs-Elysées, una serata di gala dedicata ai balletti russi, la sala gremita, le luci sfavillanti; e all'improvviso la platea diventa una bolgia, il pubblico inizia a scagliare ogni sorta di oggetto verso l'orchestra, la musica viene letteralmente subissata da grida e insulti, si scatena una rissa sedata solo dall'intervento della polizia che allontana a forza una cinquantina tra i più tumultuosi. Accadde il 29 maggio di cent'anni fa, e la causa fu proprio quello che sarebbe passato alla storia come uno dei massimi capolavori del 900, forse il suo emblema musicale, ma anche come lo scandalo più clamoroso del 900 e forse dell'intera storia della musica. A quei tempi il pubblico parigino dei balletti era diviso in due fazioni: i tradizionalisti, che chiedevano belle musiche e allestimenti rassicuranti, e un gruppo bohémien, tra cui il poeta-filosofo Jean Cocteau, che applaudiva qualunque cosa suonasse nuova e che rompesse gli schemi. Le cronache rilevano unanimi il mormorio che si levò dalla platea fin dall'Introduzione e che andò crescendo fino a divenire, all'inizio del secondo quadro, un boato che impediva ai ballerini sul palco di sentire la musica. Stravinskij, offeso, aveva lasciato la sala già nell'Introduzione, rifugiandosi nel retropalco. Le invettive si scagliavano anche contro le coreografie di Vaclav Nijinskij, osannate al pari della musica dal gruppo dei bohémien. Pierre Monteux, sul podio dell'orchestra, ricorda la rissa tra le due fazioni, sottolineando orgogliosamente come i musicisti continuarono a suonare nonostante piovessero su di loro oggetti di ogni tipo. Il critico de Le Figaro bollò la Sagra come una «barbarie puerile», sconvolgente per le coreografie e per le soluzioni musicali.
Ancor oggi che non risulta più scandalosa o inaccettabile (e già nel 1940 Walt Disney poteva usarlo per accompagnare la sequenza sulla preistoria in «Fantasia»), la Sagra non ha perso la sua carica e il suo spirito rivoluzionari: alle orecchie del pubblico i suoi ritmi risultano ancora barbari e le armonie quanto meno strane, e proprio per questo, paradossalmente (Stravinskij amava il paradosso) la Sagra è classica, perché il classico è ciò che mantiene il suo valore e il suo senso nel tempo. Confesso che i sentimenti del pubblico sono stati in parte anche i miei: l'ho diretta per la prima volta mezzo secolo fa, nel 1963 a Montreal (quindi è anche un mio anniversario...), e il confronto con gli orchestrali fu molto intenso; la seconda volta furono proprio gli orchestrali a darmi dei consigli: avevo davanti la Filarmonica di Los Angeles, che aveva eseguito la Sagra tantissime volte, anche con lo stesso Stravinskij. Oggi è un brano che adoro, penso all'intimità di certi momenti come l'apertura della seconda parte, la forza del Sacrificio, l'ultima danza; ma ancor oggi mi è difficile governare l'orchestra, condurre il fraseggio e scandire i ritmi: non posso coinvolgermi nelle scene, devo rimanerne fuori perché per concertare un brano così complesso bisogna guardarlo a distanza.
Se è così per me che lo suono da cinquant'anni, immagino che cosa sia per il pubblico che l'ascolta magari per la prima o la terza volta. La Kammersymphonie è un'opera meravigliosa, l'ho diretta per la prima volta nel 1958 a Vienna, ancora da studente, assieme al «Pierrot Lunaire»: ha dentro così tanta materia musicale che ci si potrebbero ricavare nove sinfonie. È una sonata e una sinfonia allo stesso tempo, è tonale ma contiene una tale quantità di dissonanze da risultare intollerabile al pubblico viennese dell'epoca, assai conservatore. Infatti la Kammersymphonie fu protagonista di un altro clamoroso scandalo, consumatosi a Vienna due mesi prima della serata parigina: il 31 marzo 1913 venne proposta nella Sala Grande del Musikverein assieme alle opere dei due allievi di Schönberg, i sei Pezzi per orchestra di Webern e i Cinque Lieder orchestrali di Berg su testi di Altenberg; in locandina campeggiavano dunque i nomi dei tre compositori che avrebbero dato vita alla Seconda Scuola di Vienna, intenzionati a rompere le convenzioni e le convinzioni armoniche, melodiche e formali canonizzatesi con Haydn, Mozart e Beethoven, cioè la Trinità dell'altra scuola, quella passata alla storia come Classicismo viennese.
Ebbene, anche quella serata fu uno scandalo clamoroso, tanto da passare alla storia come «Skandalkonzert», e a differenza del più famoso 29 maggio parigino, non venne neppure terminata: dopo aver ascoltato le note di Wabern e Schönberg, il pubblico esplose durante il brano di Berg, protestando e schiamazzando così violentemente da interrompere il concerto, che avrebbe dovuto concludersi con il primo dei Kindertotenlieder di Mahler. Il 18, dopo Schönberg, ci sarà l'intervallo. E poi la Sagra. Chissà...
Testo raccolto da Enrico Parola

Repubblica 1.9.13
Salisburgo, applausi per Muti e l'orchestra di Roma

qui

Corriere La Lettura 1.9.13
Non invocate Darwin per decidere se è meglio la libertà o l'eguaglianza
Molti autori associano le scelte ideologiche agli effetti della selezione naturale. Ma i dati scientifici sono insufficienti
Telmo Pievani pubblicherà a gennaio il saggio «Evoluti e abbandonati» (Einaudi) sugli usi impropri del darwinismo in campo politico e psicologico
di Telmo Pievani


Ma è più darwiniano essere di destra o di sinistra? La domanda può suonare bizzarra, ma non lo è per chi si interroga sulle basi evoluzionistiche del comportamento politico. Con quali esiti? È uscito negli Usa, per mano di Avi Tuschman, che si presenta come «esperto nelle radici nascoste dell'orientamento politico», il libro Our Political Nature (Prometheus Books) che intende svelare i tre istinti innati che presiederebbero alle scelte di voto. In base alle differenti attitudini verso il tribalismo, la diseguaglianza e l'altruismo, sarete di destra o di sinistra (il centro non è pervenuto). L'opera, che indaga le origini della partigianeria, è stata stroncata dall'«Economist» per le generalizzazioni infondate, le semplificazioni e... la partigianeria: «Darwin può aiutare a spiegare tante cose, ma non proprio tutto». Non è di questo avviso Paul H. Rubin, della Emory University di Atlanta, autore nel 2002 de La politica secondo Darwin (Ibl Libri, 2009), secondo il quale la selezione naturale si nutre di disparità individuali e di maschi competitivi, e quindi gli esseri umani hanno una naturale tendenza all'autonomia. Ne discende che le ideologie egualitarie sono destinate al fallimento. Le differenze di produttività portano vantaggi all'intera società. Ecco perché le istituzioni del capitalismo (compresa la monogamia) renderebbero più felici, sane e attive le persone. Le relazioni fra individui si misurano sulla base dei costi e dei benefici, essendo influenzate dalle preferenze fissate dalla selezione naturale nel Paleolitico per massimizzare il successo riproduttivo dei portatori. Tranquilli: non è la politica secondo Darwin, è la politica secondo Rubin.
Che il mondo fosse fatto per capitani d'industria temprati dalla lotta nella libera competizione lo ipotizzava già Herbert Spencer nell'Ottocento. Lo ribadisce nel 1996 il giornalista Matt Ridley in Le origini della virtù (Ibl Libri, 2012), aggiungendo però che, sebbene la competizione tra geni egoisti sia la forza primaria dell'evoluzione, spesso ci conviene cooperare. L'altruismo, del resto, è la forma più raffinata di egoismo. Secondo Larry Arnhart, autore nel 2005 di Darwinian Conservatism (Imprint Academic), la selezione ha forgiato una natura umana che prevede la proprietà privata, il libero mercato senza intervento statale, le tradizioni morali e tutta l'agenda dei repubblicani Usa. Solo che gli umani sarebbero predisposti per natura anche a limitare la libertà altrui, perché così funzionava il loro cervello da cacciatori-raccoglitori abituati a vivere in piccoli gruppi «a somma zero». Socialisti e no-global approfittano di questa eredità e non capiscono che oggi viviamo in un mondo in crescita, a somma non-zero. Dunque, nota ancora Rubin, «il desiderio di punire o penalizzare i ricchi è fuorviante». Ad avviso di Albert Somit e Steven A. Peterson, la democrazia è ciò che di più innaturale possa esistere ma, siccome siamo sensibili all'ambiente in cui cresciamo, i sistemi liberaldemocratici sono quantomeno possibili, benché costantemente minacciati dai tribalismi. A detta di Peter Singer, nel suo classico Una sinistra darwiniana (Edizioni di Comunità, 2000), la sinistra del futuro dovrebbe accettare la naturalità della diseguaglianza, senza volerla sradicare come ha fatto finora, e al contempo valorizzare le altrettanto forti propensioni naturali alla cooperazione. Ma allora siamo più adatti al liberismo o al socialismo? Dipende, anche perché un adattamento dell'età della pietra non è detto sia utile oggi, in un mondo più complicato. Ne risulta una gran confusione. Alcuni troveranno queste tesi interessanti, altri discutibili, altri ancora assurde. Sarebbe un errore però rifiutarle perché sono per lo più di orientamento conservatore. Se una ricerca scientifica porta a risultati corroborati, pur se non ci piacciono vanno presi sul serio. Sarebbe futile anche reagire invocando lo spettro del «determinismo biologico». È acclarato che la mente umana nasce provvista di un ricco repertorio di competenze evolute nel corso della storia naturale, che influenzano le nostre scelte. I fattori biologici interagiscono con quelli, altrettanto importanti, di tipo sociale e culturale. Cercare i precursori naturali delle nostre predisposizioni non implica quindi alcun determinismo, ma arricchisce il bagaglio delle conoscenze. Il problema è un altro, come fanno notare molti biologi evoluzionisti, e riguarda lo statuto immaturo di ricerche basate spesso su letteratura di seconda mano, su comparazioni etologiche speculative, su osservazioni non sistematiche e su campioni statistici insufficienti. Ma ci sono cautele ancor più serie. Lo stabile e uniforme ambiente paleolitico immaginato da questi autori, dove la selezione avrebbe forgiato i nostri adattamenti ancestrali, non è mai esistito. Inoltre, è ormai smentita da più parti l'idea che dal Neolitico in poi non vi sia stata evoluzione (biologica e culturale) in Homo sapiens. Nei nostri crani quindi non risiede affatto «un cervello dell'età della pietra». E soprattutto, l'evoluzione non è un'ottimizzazione ingegneristica, ma un'esplorazione di possibilità dentro un albero ramificato di forme. Non solo: se una propensione attuale può essere ritenuta a volte adattativa e a volte no, ecco una spiegazione buona per tutto, che non spiega niente. Vediamo un esempio. La libera espressione dell'autonomia individuale è darwiniana ed è bene assecondarla perché consona alla natura umana. Il conflitto etnico e l'egualitarismo invece non vanno bene, anche se sono darwiniani: sono diventati disadattativi e vanno corretti con l'educazione. L'economia di mercato e la democrazia non sono darwiniani, sono contro-intuitivi, ma vanno perseguiti lo stesso. Infine, quarta possibilità, un tratto non è darwiniano (per esempio il socialismo) e, anche se il mondo di oggi è così diverso dalla savana africana, è sbagliato perché contrario all'evoluzione umana. Nel fantomatico Paleolitico c'è tutto ciò che serve per inventarsi una storia ad hoc. Capita così di leggere, in Rubin, quadretti simili: «I maschi si dedicavano alla caccia, spesso cooperativa, e le femmine alla raccolta (il che spiega la preferenza femminile per i fiori, dato che sono associati alle cose che sono buone da raccogliere) ». Per migliorare l'agricoltura, secondo Ridley, bisogna fare in modo che ogni coltivatore possa imitare il vicino più bravo, senza regolamentazione pubblica. Il resto verrà da sé, con tanti piccoli egoismi che insieme creano il bene comune. Lo sapevano anche gli abitanti dell'isola di Pasqua. Ognuno imitava il vicino che aveva i rendimenti migliori nel disboscamento ed erigeva il moai più bello. Poi si sono accorti che un'isola è un'isola e si sono quasi estinti.

Corriere La Lettura 1.9.13
Controversia in Oklahoma Il diritto Usa tutela la sharia
di Marco Ventura


Il 2 novembre 2010 i cittadini dell'Oklahoma espressero una singolare volontà. Il 70% dei votanti approvò un emendamento alla Costituzione dello Stato, in virtù del quale si proibiva ai giudici di applicare, o anche solo «prendere in considerazione», la sharia, definita dalle autorità quale «diritto islamico», fondato sul Corano e sull'insegnamento del Profeta. Muneer Awad, cittadino americano nato in Michigan, musulmano devoto, si oppose in tribunale. Il 15 agosto la Corte distrettuale ha accolto il ricorso di Awad. I sostenitori dell'emendamento non sono riusciti — secondo la Corte — a provare quale «problema concreto» la norma avrebbe risolto né a giustificare la necessità di tale «esplicita e deliberata distinzione» tra l'islam e le altre fedi. L'emendamento è dunque incompatibile con la Costituzione americana che vieta religioni di Stato e specularmente ogni discriminazione tra religioni. La libertà religiosa americana vale ancora più della paura popolare dell'islam.

Corriere La Lettura 1.9.13
Il «computer contemplativo» contro l'ansia da iperconnessi
Software e pratiche per ritrovare la calma Così la mente umana si adatta ai nuovi stress
di Federica Colonna


Zadie Smith e Nick Hornby hanno usato il software «Freedom», Ned Beauman «AntiSocial»: tutti e tre gli scrittori, per concentrarsi, hanno fatto ricorso ai software per bloccare i social network inventati da Fred Stuztman — proprio quando, ha scritto il «Daily Mail», stava scrivendo la tesi di dottorato, ma senza riuscirci, perché troppo distratto dalle email. Altri, come Oliver Burkeman, giornalista esperto di nuovi media, hanno preferito «OmmWriter», «Flux» o il più noto «Buddhify». Tutti siti nati per facilitare la concentrazione — attraverso, per esempio, i suoni, la luminosità o i colori dello schermo — e limitare l'ansia da internet.
Un fenomeno isolato? Non esattamente. Secondo il sondaggio realizzato su duemila operatori dall'Aifos — Associazione nazionale formatori sicurezza sul lavoro — per il 60% degli intervistati il tecnostress è un rischio vero per la salute dei lavoratori, mentre l'80% ritiene di aver riscontrato nelle persone impiegate al computer i sintomi dell'overdose da connessione: ipertensione, nervosismo, alterazione della memoria, insonnia. Disturbi tra cui spicca la «email apnea, la temporanea assenza del respiro dovuta alla posizione delle persone davanti allo schermo e allo stress da aggiornamento costante», spiega Linda Stone, ex ricercatrice di Apple e Microsoft e consulente per il Pew Research Center. «Controllate il respiro di chi vi sta vicino. In ufficio, a casa, al bar — suggerisce —. Io ho guardato le persone che telefonano e camminano, ho notato come molte di loro respirino con la bocca, andando in iperventilazione». Ma il respiro, l'attenzione e l'emozione, continua Stone, sono commutativi: chi va in apnea pensa male, non è più creativo. La soluzione? Linda Stone l'ha sperimentata su di sé, quando, già nel 1997, per vincere lo stress da lavoro ha deciso di seguire i principi del Buteyko Breathing Technique, il metodo di respirazione ideato dal medico ucraino Konstantin Buteyko per curare disturbi cronici come l'asma.
«Ho seguito il consiglio del mio medico, ho partecipato a un corso — scrive la ricercatrice in lindastone.net —. Ogni mattina, prima di sedermi davanti al computer, avrei condotto venti minuti di esercizi di respirazione. Fin dal primo giorno ho notato come già nell'arco dei primi cinque minuti davanti allo schermo stavo trattenendo il respiro». Così Stone ha iniziato a studiare il fenomeno, oggi oggetto delle indagini e dei progetti, per esempio, dello Stanford Calming Technology Laboratory (@calmingtech), centro studi interdisciplinare nato a Stanford con l'obiettivo di progettare tecnologie in grado di stimolare stati di quiete e calma. È dai corsi del laboratorio che sono nati, per esempio, «Breathwear», applicazione per calmare il respiro attraverso l'iPhone, e «BreathAware», specifico, invece, per le sessioni al computer.
Ma gli Internet Blocking Productivity Software, i programmi creati per bloccare l'accesso alla email e ai propri profili sui social network, funzionano davvero? «Si tratta di palliativi — spiega Luciano Floridi, filosofo e membro eletto della British Computer Society — interessanti più come segnali di un malessere che come soluzioni». Nella nostra relazione con gli oggetti tecnologici dovremmo, invece, ispirarci ai musicisti, i quali, suggerisce ancora Linda Stone, «non vanno in apnea mentre suonano. Lo strumento non è solo una protesi fisica, ma una parte della loro stessa essenza». Solo così, pensando al computer come parte integrante della nostra identità potremmo imparare a usarlo meglio e ad affrontare il timore più tipico del nostro tempo: la Fomo — fear of missing out. La paura, cioè, di perderci qualcosa e di essere esclusi dalle nostre cerchie di relazioni.
«Ciò che è nuovo genera incertezze e timori — continua Floridi — ma anche curiosità e speranze. Una novità alla quale dobbiamo ancora abituarci è proprio quella del Fomo, un timore strettamente connesso, in termini economici, all'opportunity cost, il costo causato dal mancato sfruttamento di un'opportunità».
Internet, pc e smartphone, insomma, ci fanno scoprire il mondo ma anche percepire quello che stiamo perdendo. Così andiamo in ansia. «La Fomo diventa Como, certainty of missing out — spiega Floridi —. E alla Como non c'è rimedio, se non un po' di intelligenza e saggezza nell'accettare i costi». Al «male digitale», insomma, non c'è «soluzione digitale», ma solo umana. «Il problema non è la tecnologia in sé — spiega alla "Lettura" Alex Soojung-kim Pang, ricercatore del Peace Innovation Lab dell'Università di Stanford e del Microsoft Reasearch di Cambridge — ma il modo in cui sono progettate certe tecnologie, spesso in maniera povera, non stimolante. E sono così usate con superficialità».
Possiamo, però, ri-pensare la nostra relazione con internet. Come? Lo spiega Pang nel saggio The Distraction Addiction, uscito lo scorso 20 agosto per l'editore Little, Brown and Company. «Gli esseri umani co-evolvono con le tecnologie. Dall'invenzione dei modi per cuocere i cibi, così più facili da metabolizzare piuttosto che crudi, a quella dei vestiti, delle scarpe, delle armi, dell'agricoltura, della scrittura, non solo perfezioniamo i nostri strumenti ma evolviamo grazie a essi. Non vale solo per la fisiologia umana, ma anche per la psiche. Uno dei miei riferimenti è Andy Clark, docente di filosofia all'Università di Edimburgo, autore nel 2004 di Natural-Born Cyborgs. Per Clark la mente dell'individuo non è confinata al corpo e al cervello, ma si estende al di fuori del fisico, coinvolge gli strumenti tecnologici di uso quotidiano».
La nostra, in sostanza, è una mente estesa, fatta di neuroni, esperienze, relazioni ma anche pc e tablet. E se per il cervello biologico, per ritrovare la pace, funzionano le tecniche di meditazione, allo stesso modo, per preservare la salute della mente estesa, serve il Contemplative Computing: una prassi quotidiana, una miscela di respirazione, meditazione e disconnessione, in grado di trasformarci, per dirla con Pang, da monkey minds, menti di scimmia, in monks minds, menti ispirate come quelle dei monaci buddisti.
«A differenza del Pervasive Computing, inteso come un set di tecnologie e strumenti, il Contemplative Computing non si definisce tramite software o hardware, non è qualcosa da installare o comprare, ma una pratica da adottare. È un processo, non un software — spiega Pang —. Si tratta di recuperare spazi di contemplazione quotidiana diventati come foreste tropicali: aggrediti dall'espansione dei tempi di lavoro». Quattro le idee alla base del Contemplative Computing: le nostre relazioni con le tecnologie dell'informazione sono incredibilmente profonde e gli oggetti tecnologici servono a esprimere competenze umane fondamentali; la distrazione non è prerogativa contemporanea, gli umani hanno sempre dovuto combatterla, ed è per questo che le tecniche di meditazione millenarie sono salutari anche per la mente estesa; per cambiare la nostra mente estesa e controllarla è fondamentale osservarsi e analizzare il proprio rapporto con gli strumenti di connessione; bisogna considerare se stessi come un laboratorio e sperimentarsi, cambiando in modo consapevole e personale l'uso delle tecnologie.
«Il miglioramento delle nostre relazioni con le tecnologie digitali — conclude Floridi — è il risultato di un mutuo adattamento: tecnologie user friendly e rispettose per utenti educati e attenti». Ognuno, in sostanza, ha la sua testa. Biologica o estesa che sia.

Corriere La Lettura 1.9.13
Matisse, la confessione segreta
Esce per la prima volta la lunga intervista che il pittore poi censurò Ansie e passioni dell'artista che avrebbe voluto essere un pesce rosso
di Vincenzo Trione


E se fossimo dinanzi al testamento dell'avanguardia? Aprile 1941. Henri Matisse è stato appena dimesso dall'ospedale, dopo un'operazione per un cancro all'intestino. Ora è a Lione presso il Grand-Nouvel-Hotel, per un periodo di convalescenza. Sulla via della guarigione, avverte il bisogno di ritornare a «fare». È pronto per una nuova vita: per la «resurrezione». Vuole ricominciare a dipingere.
Sorpreso da questa vitalità, l'editore Albert Skira lo sollecita a ripercorrere le tappe del suo itinerario: amici, viaggi, passioni, idiosincrasie, città, ragioni poetiche. Matisse accetta di confessarsi. Decide di raccontare: la sua idea del dipingere, la sua estetica del colore. E, poi: il postimpressionismo, il fauvisme. I soggiorni ad Haiti e in Marocco. La giovinezza, la vecchiaia. Le speranze, le angosce. Ad ascoltarlo e a ordinare il suo flusso di coscienza è il critico Pierre Courthion. In pochi mesi viene redatto un manoscritto di più di 300 pagine. A causa dei costi di produzione, Skira riduce quel materiale a 260 pagine. Il pittore non accetta l'editing, e minaccia di non portare avanti quell'avventura: «Voi volete mutilare il mio lavoro», afferma. Ma i problemi sono altri, come capiscono subito Skira e Courthion. Sempre volubile, Matisse ha cambiato idea.
Adesso ha timore a svelarsi. Non vuole dire con chiarezza cosa pensa di tanti suoi compagni di strada: amici, artisti, galleristi. E inizia a limare il testo. Rimodula passaggi, precisa profili, elimina commenti su collezionisti. Riscrive molte pagine. Sembra essere giunto a un equilibrio. L'epilogo della vicenda è inaspettato. Alla fine, Matisse decide di non dare alle stampe il volume. Si autocensura. Per pudore o per intelligenza strategica?
Quel brogliaccio è rimasto inedito. Si tratta di un documento di straordinario rilievo, che finora nessuno ha avuto la possibilità di leggere nella sua interezza. A distanza di settant'anni, un fine storico dell'arte, Serge Guilbaut, ha ritrovato quei fogli tra le carte di Courthion, custodite nell'archivio del Paul Getty di Los Angeles. E, dopo aver convinto gli eredi di Matisse, ha avviato una lunga verifica filologica. L'esito: Chatting with Henri Matisse: The Lost 1941 Interview, che presenta l'intervista insieme con un ampio regesto di appunti, di annotazioni e di cancellature. Il volume uscirà il 7 settembre in una coedizione Getty-Tate («la Lettura» ne anticipa alcuni estratti).
Si sfoglia questo libro, ed è come ascoltare la parola di Matisse. Certo, siamo di fronte a un memoir. Ma siamo anche di fronte a un ricettario in cui si spiega come si dipinge: un manuale ad uso dei giovani artisti. Ma forse pure a un epicedio, che lascia intuire ferite, inquietudini. The Lost 1941 Interview è innanzitutto un'autobiografia. Nelle intenzioni dell'autore, doveva essere un volumetto di «chiacchiere» (in nove «conversazioni»). La formazione. I primi incontri. Le intuizioni giovanili. La lezione di Moreau. La scoperta di Picasso. Gli anni delle difficoltà. Parigi: la stagione bohémienne. Le visite al Louvre. Le meditazioni sulla storia dell'arte.
Ma The Lost 1941 Interview è anche un rapsodico trattato di tecnica pittorica, in cui, sottraendosi a ogni finalità didattico-normativa, Matisse enuncia artifici e stratagemmi. In maniera spesso aforismatica. Si rivolge ai pittori delle nuove generazioni, per spiegare ciò che egli ha scoperto nella sua pratica quotidiana. L'artista, per lui, non deve guardare il mondo esterno. Piuttosto, deve parlare di sé solo dipingendo. Non narrare il visibile. E non preoccuparsi del gusto e delle attese dei galleristi e dei mercanti: «Se lavori per gli altri, non otterrai niente». Egli deve imparare a saldare «energia e curiosità». E — da «esibizionista» — esprimere se stesso attraverso il pennello. Per concentrarsi su quella che deve essere la sua unica ossessione. Il suo pensiero dominante. Il colore.
Sorretto da una sincera attitudine analitica, Matisse concepisce la pittura come una «forma di comunicazione»: una grammatica con un preciso funzionamento, un linguaggio dotato di regole specifiche. La sua sfida: ridurre la sintassi pittorica alla sua essenza. Per un verso, egli lascia al quadro la sua presenza documentaria. Per un altro verso, afferma i diritti propri del dipingere, inteso come sistema autonomo di segni. Negli anni giovanili, scriveva: «Riuscii a studiare ogni elemento della costruzione isolatamente: il disegno, il colore, i valori della composizione. Cercai di scoprire come si possono riunire i singoli elementi figurativi in un tutto (…). In altre parole, badavo alla purezza dei mezzi».
Matisse lavora solo sui colori. Dice di sentire «con» i colori. Che non sono mezzi per evocare qualcosa. Sono sostanze. Impalcature che sostengono ogni architettura iconografica. Sono qualità originarie. Posseggono una pura fisicità. Non rinviano ad altro che a sé; il verde o il blu rimandano solo a se stessi. Dotati di una intrinseca bellezza, seguono criteri interni. Talvolta, si concedono a una danza di minime variazioni. «Hanno il loro potere e la loro eloquenza solo se usati allo stato puro, quando lo smalto e la purezza non ne sono alterati, attenuati da mescolanze contrarie alla loro natura».
Muovendo da queste convinzioni, Matisse vuole portarsi al di là dei principi del Postimpressionismo («conveniente» sul piano teorico, ma «inadeguato» per cogliere la spiritualità). Perciò, nelle conversazioni con Courthion, sostiene che occorre esaltare l'«espressività» e la «forza» dei colori. Che sono come note musicali: da organizzare e combinare. Ciascun tono, infatti, non deve essere dato in sé, ma deve «suonare» insieme con gli altri. In modo da suggerire armonie seduttive. Sinfonie governate da accordi calcolati: a tal punto complesse da apparire necessarie. In questa prospettiva, Matisse pensa l'arte come tentativo per «riconciliare l'inconciliabile». E parla dei suoi quadri come di arene nelle quali entrano in collisione quattro o cinque cromie. Fino a emozionare colui che guarda. Quel pubblico che non è fatto di meri acquirenti, ma è come una «materia sensibile nella quale lasciare un'impronta».
Infine, The Lost 1941 Interview è altro. Un addio. Si dà a noi come una sofferta uscita dal mondo. Matisse, qui, non è l'elegante padre dell'Astrattismo, circondato di lusso, bellezza e voluttà. E non è neanche il pittore che ha inventato inconfondibili cosmogonie, capaci di trasmettere gioia di vivere. Ma è un solitario, che mostra il lato più perturbante della sua personalità. Un vecchio maestro, combattuto tra mille contraddizioni. Che sceglie di confessarsi, ma alla fine non riesce a farlo: non ha la forza di farlo. Ecco: il suo è il diario di un recluso.
Matisse non si riconosce più nel tempo che ha attraversato da protagonista. E, in filigrana, lascia intravedere tormenti, ansie. Anzi, si descrive come «incline alla depressione», spesso portato a «vedere ogni cosa in nero». Dichiara il suo male di vivere. Ci appare come un eremita. Oramai solo, forse inadeguato a stare dentro il Novecento. Egli sembra non riuscire più a comprendere un'epoca in cui l'avanguardia si apprestava a diventare una replica stanca dei suoi riti.
Un ripiegamento? No. Perché Matisse è sempre stato una voce isolata. Non ha mai aderito fino in fondo a gruppi e a tendenze. Non a caso amava identificarsi con i pesci rossi, prigionieri dentro bocce di vetro. Quegli animali veloci che egli ha rappresentato più volte. Ad esempio, in un dipinto del 1914, li ha trattati come immagini differite di se stesso. Una volta Matisse disse che, in un'altra vita, avrebbe desiderato essere proprio un pesce rosso. Per poter osservare il mondo dall'esterno, separato da uno schermo trasparente.

l personaggio (e le mostre)
Nato nel 1869 a Cateau-Cambrésis, Henri Matisse è stato l'esponente di spicco della corrente artistica dei «Fauves». Ha vissuto a lungo a Parigi, per poi scegliere di trascorrere gli ultimi anni a Nizza, dove morì nel 1954. Ed è proprio la città della Costa Azzurra che, fino al 23 settembre, lo celebra con otto esposizioni simultanee distribuite
in tutta la città. Non solo.
Le opere di Matisse saranno in mostra a Palazzo Reale, dal 25 settembre, nella rassegna «Il Volto del '900 da Matisse a Bacon. I grandi capolavori del Centre Pompidou»

Repubblica 1.9.13
Mi ricordo di Salvador Allende
di Antonio Skarmeta


Salvador Allende non era un guerrigliero che un giorno scese dalla montagna, non era un profeta visionario che sbarcò da un’arca con angeli armati fino ai denti, e non era nemmeno un poeta fuori dal mondo che confondeva le nuvole con i carri armati. Era la cosa più simile che ci fosse a un cittadino comune. Non un’apparizione improvvisa, ma una persona che stava tutti i giorni lì dove doveva stare.
Il mondo lo ricorda, a quarant’anni dalla sua morte nel palazzo della Moneda, come un rivoluzionario. Per i cileni la sua “rivoluzione” non era l’esercizio della violenza per “far partorire” la storia, ma la paziente, laboriosa lotta di una vita per conquistare, nel 1970, la presidenza della Repubblica che gli avrebbe consentito di dare forma al sogno suo e della società che rappresentava: promuovere un socialismo democratico — con tutte le libertà permesse — differente dai socialismi o comunismi esistenti nel mondo. Con espressione fin troppo folcloristica Allende la chiamò «una rivoluzione che sa di empanada e vino rosso».
Aveva attraversato tutte le istituzioni della Repubblica. Fu ministro, deputato, senatore, e prima di essere eletto presidente era stato presidente del Senato, l’istituzione legislativa suprema, il faro radioso di legittimità democratica. Prima di essere presidente, Allende si sente orgoglioso di questo Paese in cui la Costituzione governa la vita del popolo e vincola a sé le leggi che la Repubblica produce. Il popolo lo conosce bene: già tre volte è stato candidato alla presidenza, nel 1952, nel 1958 e nel 1964. Qualche volta ha perso largamente, qualche altra volta di stretta misura. Non prende in considerazione mai altre strategie se non le urne e il voto popolare per arrivare al potere. Prima di essere eletto, nel 1970, pronuncia la sua battuta autoironica più celebre, disegna il suo stesso epitaffio: «Qui giace Salvador Allende, futuro presidente del Cile».
Allende è stato più volte personaggio dei miei romanzi, soprattutto ne La bambina e il trombone, un’opera che culmina appunto con i festeggiamenti popolari per la sua vittoria elettorale del 1970, e che si sofferma in modo corposo su altri momenti più intimi e caldi del mito. Allende, di professione medico, visita la giovane protagonista e narratrice del romanzo, che è malata, molto prima di diventare il tragico eroe mondiale del 1973. L’azione del romanzo si svolge nel 1958, proprio nel momento in cui la popolarità del candidato socialista è enorme e la destra si rende conto con trepidazione che ci sono fortissime probabilità che un «comunista» vinca le elezioni, e allora elabora una strategia per sottrargli voti: inventa un candidato dal pittoresco fascino popolare, che fa discorsi non meno di sinistra di Allende, ma che ha il vantaggio di non essere un tribuno marxista bensì un simpatico prete di paese, Catapilco. Le percentuali finali dei due candidati che contano veramente, nelle elezioni del 1958, sono le seguenti: il candidato della destra, Jorge Alessandri, vince con il 31,2 per cento dei voti; Salvador Allende ottiene il 28,5. E il pretino di Catapilco? Il 3,3 per cento! Giusto giusto quello che serviva per sconfiggere Allende. Era un’epoca di machiavellismo bonario. Sono gli amabili giorni della Bambina e il trombone.
Nel 1973 il machiavellismo ludico sfuma: la destra conquisterà con bombardamenti aerei, carri armati e odio psicopatico quello che non era riuscita a ottenere con i voti.
Allende aveva una postura fisica —un’espressione corporea, diciamo — che trasmetteva calore e rassicurazione. Era una posa straordinaria: lo sguardo attento dietro gli occhiali dalla montatura spessa e il petto gonfio come un piccione fiero. Una figura familiare e rotonda, quella di una persona che rappresenta la storia di un Paese che ha servito in tante vesti. Quando promuove la nazionalizzazione del rame, il Senato approva la legge all’unanimità. Nessuno voleva fare la figura dell’antipatriottico! Ma quando arriva il golpe di Pinochet, con la conseguente soppressione del Senato, la prima misura che promulga è la “snazionalizzazione” del rame: il «salario del Cile » ritorna nelle mani di aziende private e investitori esteri.
A quarant’anni dalla morte di Allende, i cileni e tutti gli abitanti del pianeta consapevoli sanno fin troppo bene come avvenne la fine violenta del suo governo di appena mille giorni: i poteri forti del Cile, attraverso gli imprenditori e le corporazioni, attraverso i loro apparati di comunicazione, crearono uno stato di guerra interna, promuovendo scioperi e serrate che affossarono l’economia. Questa insurrezione senza tregua, come è largamente documentato negli atti del Senato degli Stati Uniti, fu istigata e finanziata dalla Cia.
Ci si potrebbe chiedere, meravigliati, perché in quasi tutto il mondo occidentale si conservi una memoria così viva ed emotiva del Cile, quando ci sono molti altri Paesi che hanno sofferto sopraffazioni, repressioni barbare e violazioni dei diritti umani assai simili, Paesi che come il Cile hanno messo in pratica lo stesso terrorismo di Stato che instaurò Pinochet.
La mia risposta è che quando Allende, nel 1970, diventa il primo marxista democraticamente eletto, i Paesi europei, in preda a gravi crisi e destini incerti, vedono negli episodi del piccolo e lontano Paese sudamericano segnali che possono risultare importanti nel vecchio continente. In Spagna c’è ancora Franco, in Francia Mitterrand è lontanissimo dal prendere il potere, in Germania i Verdi non si sono ancora costituiti come partito. L’attenzione dell’Europa si concentra sul mio Paese con curiosità, simpatia e affetto. Quello che offre è quanto mai auspicabile: un socialismo democratico e con mezzi pacifici. E quando questo sogno viene distrutto a cannonate, scoppia anche la tristezza e la rabbia dei cittadini di tutto il mondo. Non solo la generazione che visse il golpe quando era nel pieno degli anni ne conserva un ricordo profondo. Anche i giovani delle diverse generazioni hanno ereditato dailoro genitori e nonni questo sentimento, per usare una parola più ampia di “politica”.
E gran parte di questa nobile immagine del Cile come di un Paese che scelse di percorrere con dignità e allegria la strada verso una democrazia più profonda ha a che fare con la figura di Allende. Confrontato a un mare di turbolenze, Allende cercò di portare avanti il suo programma rivoluzionario senza limitare le libertà di nessuno, senza cancellare l’opposizione e senza reprimere con la violenza i gruppi insurrezionali che paralizzavano il Paese.
Una settimana prima del golpe io fui fra quel milione di persone che sfilarono di fronte a lui per dimostrargli il nostro appoggio e il nostro apprezzamento. Fra quella moltitudine spiccava un gruppo di cinquecento giovani che sfilavano con passo militare gridando slogan di violenza rivoluzionaria e portando sulle spalle un pezzo di legno, forse un manico di scopa. Giovani che si illudevano che sarebbero stati in grado di difendere il loro presidente quando il golpe, ormai prossimo, sarebbe arrivato. I manici di scopa che portavano avrebbero potuto essere la metafora dei fucili, e invece no, erano solo quello: manici di scopa. La battaglia di Pinochet fu contro un popolo disarmato.
Un altro fattore che contribuisce alla straordinaria memoria di Allende in Cile e nel mondo è la dignità con cui morì. Quando il palazzo della Moneda è alla mercé degli aerei che lo bombardano meticolosamente, lui pronuncia il suo ultimo discorso. Sono molte le frasi commoventi di questo uomo che annuncia che pagherà «con la vita la difesa dei principi che sono cari a questa patria». Ma nessuna mi tocca nel profondo quanto questo sentito omaggio alla pace, all’etica e alla responsabilità repubblicana, quando conclude dicendo: «Ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano, perché sarà perlomeno una lezione morale che castigherà, l’infamia, la vigliaccheria e il tradimento».
«Perlomeno»… Ah, presidente, quanto «più» c’è in quel «meno». I generali che la spodestarono oggi sono parte dell’ignominia universale. I loro nomi sono stati dimenticati e quando vengono ricordati è solo come icone di orrore e disumanità. I golpisti, dopo la loro vittoria-massacro, battezzarono il viale principale del quartiere più ricco del Cile Avenida 11 de Septiembre, per commemorare la loro impresa. Quarant’anni più tardi, perfino quella parte ricca e destrorsa della popolazione ha voltato le spalle al più fanatico dei sindaci pinochettisti, il colonnello Labbé, e ha scelto una donna del quartiere, Josefa Errázuriz, che è riuscita a cambiare quel nome che offendeva i cileni con la sua designazione tradizionale, Nueva Providencia.
Oggi, nella memoria dei cileni, settembre non appartiene a Pinochet:appartiene ad Allende.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

l’Unità 1.9.13
Farsi poveri per amare
La lezione di Francesco e il suo distacco dalle cose
di Giovanni Niucci


«ADESSO ERA LA NOTTE, IL BUIO, LA TEMPESTA E L’OSCURITÀ: L’ABISSO DEL MALE IN CUI STAVA SPROFONDANDO. SENZA NESSUNO A CUI DIRLO, SENZA RIUSCIRE A CAPIRLO. Era questo che Francesco aveva cercato per tutta la vita? Parlare così bene da poter radunare migliaia di persone attorno a sé per dir loro di Dio, della letizia e del Vangelo? Ma dov’era adesso quella letizia? Non riusciva più neanche a guidare i suoi frati, a placare i loro litigi o a spiegarsi ai cardinali: lui lo sapeva, ma non riusciva più a dirlo, che non c’è la legge, ma solo la misericordia di Dio: non c’è nessuna regola, ma solo la fede: non c’è neanche la Chiesa, senza l’amore».
Nella prima lettera ai Corinzi l’Apostolo Paolo dice qualcosa allo stesso tempo di sorprendente e straordinario, soprattutto se letto attraverso la traduzione e l’esegesi che ne fa Giorgio Agamben ne Il tempo che resta. «Questo vi dico, fratelli, il tempo si è contratto. Il resto è che gli aventi moglie come non (hos me) aventi siano, e i piangenti come non piangenti e gli aventi gioia come non aventi gioia e i compranti come non possedenti e gli usanti il mondo come non abusanti (1 Cor. 7, 29-31)».
Il concetto mi sembra chiaro: essere «come non» ritorna con la parole di Gesù (Matteo 16,24) «se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Dunque rinnegare se stessi sembrerebbe significare essere «come non»: non si tratta di andare incontro all’altro annichilendosi, o annullandosi, chiunque sa che l’annullamento dell’uno nell’altro in un rapporto crea uno squilibrio difficilmente sanabile: si tratta di fare «come non» si fosse ciò che si è. Qualcosa di ben più sottile, e ben più difficile da ottenere.
Mi sembra sia quello che Massimo Cacciari cerca di spiegare nel suo Doppio ritratto, quando parla di cosa sia, francescanamente, la povertà (pag. 66-67): «Ma svuotarsi da che? Da un mantello? Da qualche bene? In che cosa ci si imbatte tra il gesto quasi immediato della spoliazione di fronte alle potenze terrene, tra la liberazione dal fardello che impedisce di ‘correre’ sulla traccia di Gesù e questa suprema imitazione: essere poveri sul modello della kenosi divina? Il pró-blema più arduo: lo svuotamento del Sé. Il monte eccelso della povertà non è conquistato prima di questo passaggio. Il bene che Gesù dice di abbandonare è il nostro «possesso» più geloso, quello che più ostinatamente contro tutto e tutti difendiamo la nostra psyché. È questa che pensiamo come la nostra «sostanza» irrinunciabile. Essa sta per noi al centro di ogni altro bene o valore. A tutto possiamo rinunciare per lei ma rinunciare a lei, ciò appare sovrumano. E proprio questo, invece, nella radicalità del suo voler ritornare alle origini del Verbumevangelico, esige (senza volerlo a nessuno imporre) Francesco. Come Dio si è svuotato del Sé divino, così ora tu devi far-esodo, fino a odiare ogni philopsychia (Luca, 14, 26), liberandoti dal tuo proprio, da ciò che ritenevi il tuo possesso più assicurato. (...). Ma il vero povero, il vero nudo, non fa vuoto, in sé, del Sé soltanto per poter accogliere perfettamente, imitandolo, il Signore. (...). Non si “odiano” i beni terreni per la loro vanità, per la loro fugacità e inconsistenza. Questo sarebbe ancora l’atteggiamento del sapiente. Né si rinuncia a loro per la pace della contemplazione. Farsi poveri significa liberarsi per poter perfettamente amare. Esistere solo nella relazione all’altro, nell’esodo all’altro, da nulla trattenuti in sé».
In fondo essere cristiani non può voler dire essere come Francesco, fare quello che ha fatto Francesco, almeno non in questi termini, e né per lui in particolare. Dal momento che per Francesco essere cristiano ad un certo punto è significato essere «come non» Francesco. Equivale a dire che la sua vita, il suo percorso è stato segnato più che dalle cose che ha fatto, da quanto è riuscito a distaccarsene, a sottrarle a se stesso, al suo Sé.
Ecco, io credo che la consapevolezza di tutto ciò, di cosa sia davvero la povertà, del dover essere «come non», Francesco l’abbia avuta durante il ritiro nelle faggete della Verna nel 1224. Sappiamo dalle Agiografie che Francesco è uscito da quella crisi con le stigmate, ma non sappiamo perché quella crisi è cominciata.
È presumibile che sentisse enorme su di sé il peso dei suoi limiti, limiti di fronte a cui il Sultano prima e l’ordine o la curia, poi, lo avevano messo. Evidentemente le sue straordinarie capacità nel predicare, coinvolgere e convertire, non erano più sufficienti: l’ordine gli stava sfuggendo di mano senza che fosse riuscito veramente a convincere la Chiesa di Roma della sua visione del cristianesimo. E il Sultano era rimasto in Egitto ugualmente mussulmano, anzi, probabilmente un mussulmano ben migliore di quello che era prima. (Ma è forse proprio questa la vera evangelizzazione: andare da un mussulmano e aiutarlo ad essere un mussulmano migliore di quanto non lo fosse prima). Come che sia, adesso Francesco si sentiva solo, inascoltato e incapace a mostrare al mondo la verità che lui sapeva di custodire nel più profondo sé.
Non voglio in nessun modo mettere in discussione il valore religioso che hanno le stigmate. In molti credono che siano un segno  determinante e sufficiente dell’impronta di Dio sulla santità di un uomo. E solo il fatto che questa credenza sia per loro rassicurante la rende di per sé importante e rispettabile. A me sembrano il segno di un male profondo: talmente profondo da piagare le mani. Detto ciò generalmente non sono interessato a che un uomo sia o meno santo, o almeno non quanto mi interessa invece il fatto che sia un poeta.
E quello che ha fatto Francesco, sceso giù dagli anfratti della Verna, è stato di scrivere il Cantico di frate Sole.
Ritengo il Cantico più significativo e importante delle stigmate per due motivi, correlati tra loro. Da una parte penso che le stigmate siano un segno, fisico, dell’Ego di Francesco: cioè di come la sua sofferenza stesse inchiodando la sua phsyché, il suo Sé al punto da portarlo a voler incidere la carne nei palmi delle sue mani per trovare, nel Sé, una ragione del male che stava provando: la cerca in se stesso, si scava il costato: ma non la trova.
Il secondo motivo è il libro di Giobbe. Mi sembra che la sofferenza di Francesco sia molto simile a quella di Giobbe che, finché insiste nel chiedere giudizio a Dio cercando in sé una risposta al suo male, non viene in nessun modo preso in considerazione.
Scrive Guido Ceronetti nel commento alla sua traduzione del Libro di Giobbe (pag. 209 e segg.): «La teofania guarisce Iob semplicemente rompendo la sua prigione individuale. (...). Dio rivela la sua faccia di unicorno, di leviatano, di asino selvatico, di aurora; tiene gelosamente nascosta la sua faccia di uomo, come troppo forte, o troppo debole, o inutile, o spaventosa. In una creazione destinata a guarire Iob dalla sua individualità l’uomo non è mai nato».
Giobbe distoglie l’attenzione da sé nel momento in cui Dio comincia a mostrargli la grandezza della creazione e facendogli notare quanto lui, in tutto ciò, sia poco più che niente. «Il mio orecchio aveva captato vaghi suoni di te. Ma adesso ti ha veduto il mio occhio perciò odio me stesso e mi consolo sulla polvere e sulla cenere» risponde Giobbe. E finalmente trova la pace, la gioia, la letizia.
Spiega Ceronetti (pag. 216): «Iob si odia perché ha veduto. Si chiama odio in figura di passione, si può interpretarlo meglio come distacco. Da 42, 10 mi viene questa conferma: E il Signore trae Iob dalla prigionia (se non gli si dà il senso grossolano di affari ristabiliti). La prigionia, shervìt, è la malattia, e la malattia è l’amore di sé come malattia dell’uomo, e la vita stessa, come malattia di Dio». Dunque, così come Giobbe Francesco (e così come Francesco dovrebbe fare l’occidente del suo disagio della Civiltà): distogliersi da sé.
Se ho potuto immaginare che per Francesco sia successo qualcosa di simile è perché ha poi scritto la Lode alla creazione. Che mi sembra il riconoscimento del fatto che il Signore, così come per Giobbe, lo abbia distolto dal suo male del sé e dal proprio dolore, mostrandogli la vastità del creato.
Non si scrivono dei versi così straordinariamente belli se non si ha la consapevolezza di essere solo un mezzo, uno strumento a che le parole esprimano una verità che già avevano in sé e che ci trascende. È la poesia, il linguaggio, le parole, a usare il poeta per venire ad abitare il mondo, non il contrario: e il tempo si contrae aprendo per gli uomini dei varchi nell’eternità. E appagando qualsiasi attesa. 6 fine